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Dal
profondo Nord, al profondissimo Sud
Di
Edoardo Sanguineti, «L’Unità» 11 ottobre 2003
Allora, ciao Helsinki. Ma non prendo propriamente congedo, tornando a Genova. Immaginiamo che qualcuno legge un’operetta minimamente morale di Plutarco, quella che si intitola alla faccia che si vede nel cerchio della luna (che è motivo antichissimo, proprio). Immaginiamo che si fermi pensoso su quella pagina che dice che Ogigia, l’isola di Calipso, è a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, andando verso occidente. Mano all’atlante, e siamo a Stòra Dìmun, o giù di lì. Immaginiamo che a leggere quelle pagine sia Felice Vinci.
Ma
non c’è niente da immaginare, perché è tutto vero, tanto che il «saggio
sulla geografia omerica» di quel Vinci, che è Omero nel Baltico,
è alla sua quarta edizione (marzo 2003), presso il romano Palombi
(presentazione di Rosa Calzecchi Onesti, prefazione di Franco Cuomo).
Quali conseguenze ne derivano? Che il povero Ulisse, di cui tante
avventure sono state narrate e rinannarate, andava errando lassù lassù,
non lungi dalla Finlandia, nell’Atlantico settentrionale.
Ma passiamo dal greco al latino, e veniamo a Tacito. Nella sua Germania,
al capo terzo, si registra con cautela come Ulisse abbia vagato nei mari
del nord.
Qui
citerò più ampiamente, e prendo la versione di Filippo Tommaso
Marinetti, quale apparve nella «Collezione Romana» diretta da Ettore
Romagnoli (anno 1928, ovvero anni VI, dati i tempi). Non è la più
raccomandabile, certamente, ma è la più dimenticata che esista, e può
anche indurre un lettore curioso a riprendersela in mano (dati i tempi,
in particolare). E poi il Filippo Tommaso spiega in 9 punti perché
abbia tradotto quello storico insigne (voleva anche tradurne le
Storie). Facciamo un assaggio, punto 4°: «Perché tacito, maestro
di concisione sintesi e intensificazione verbale, è lo scrittore latino
più futurista dei maggiori scrittori moderni.
Per esempio: Gabriele D’Annunzio». Ancora, punto 6°: «Perché la
visione imperiale della Germania fissata da Tacito è tuttora
politicamente istruttiva e ammonitrice». Punto 9°, e ultimo: «Perché
venga dimostrata l’assurdità dell’insegnamento scolastico latino,
basato su traduzioni scialbe, errate e su cretinissime spiegazioni di
professori abbrutiti, tarli di testi e teste». Infatti, «urge
rimpiazzare le ore di Latino idiotizzato con ore di Meccanica e Estetica
della Macchina, questa essendo oggi l’ideale maestra di ogni veloce
intelligenza sintetica e di ogni vita potentemente patriottica».
Non siamo ancora alle tre tremende «I» (internet, inglese, impresa),
ma siamo sulla buona strada, si sente subito.
Traduce,
comunque, il Marinetti: «Alcuni pensano che anche Ulisse, nel suo lungo
e favoloso errare in quei paraggi dell’Oceano, abbia toccato le terre
della Germania, e Ascimburgo sulla riva del Reno tuttora abitata sia
stata da lui fondata e nominata Askipùrgion». E poi, dice che «vi
era un’ara consacrata a Ulisse con l’aggiunta del nome di suo padre
Laerte, ed alcuni monumenti e sepolcri con iscrizioni greche esistono
sul confine della Germania e della Rezia. Non intendo confermare né
confutare tutto ciò: ciascuno lo neghi o lo accetti a suo talento».
Ora, il Vinci, non nega e non accetta, ma rovescia la prospettiva
tacitiana, come la plutarchesca. Non è che Ulisse sia finito,
variamente vagabondo, nel profondo del nord, avendo superato, alla
dantesca, qualche colonna erculea. Anzi, dal profondo nord è disceso
nel profondissimo sud. Così l’Iliade come l’Odissea sono saghe
baltiche, che remotissimi scaldi o aedi hanno riambientato, andando dal
polo verso l’equatore, in luoghi affatto incompatibili e impertinenti
con la geografia effettuale. E così hanno fatto, in connessione con
antichissime migrazioni di genti, che hanno ribattezzato, con nomi
scandinaveggianti, quelle zone mediterranee ove si sono insediate.
In
Omero, la cartografia baltica funziona, la marenostresca no. Cioè, Orléans
sta nella Francia centrale, non sulle rive del Mississippi, e la Zelanda
è una provincia dei Paesi Bassi, non uno stato dell’Oceania.
Non
si creda però che il Vinci punti sulla toponomastica, onde dare vigore
alle sue tesi. Al contrario, le sue considerazioni etimolinguistiche
sono avanzate con rammarico, quasi, come giunta alla derrata, temendo
che possa anche trattarsi di una catena, ancorché mostruosamente
compatta, di coincidenze ingannevoli. Egli, che pure adduce parariprove
superflue con troppo gusto, punta invece sulla climatologia storica,
sulle specificità documentali (dalle nebbie alle vesti, dalle armi ai
costumi), di cui si ragiona per 500 pagine, in base a concordanze «geografiche,
morfologiche, descrittive e climatiche». Non Omero, ma tutta la civiltà
greca delle origini, e tutti i miti classici, ci sono arrivati di là,
tra Circolo Polare Artico e Mare del Nord, da Helsinki e dintorni.
L’archeologia avrà l’ultima parola, ma, per intanto, non intendo
taciteggiare, astenendomi dal confirmare come dal refellere.
Non refello niente, e scommetto che il Vinci può vincere.