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Uomo
della Provvidenza o Cavallo di Troia?
di Carlo Bertani - 7 gennaio 2008
Scorrendo
sul monitor le immagini di Barak Obama, viene da chiedersi cosa cerchino
gli americani in questo giovane avvocato dell’Illinois. Oppure, cosa
intravedano in lui i grandi potentati internazionali, palesi ed occulti:
forse, quasi le stesse cose. Il che, non significa che domani gli
statunitensi saranno felici d’esser governati da Obama. Sempre che
vinca, ovviamente. Anche se non vincerà, vale la pena ugualmente di
soffermarsi sulla vicenda di questo astro nascente della politica USA
che non è, d’altro canto, una scoperta dell’ultima ora.
Che gli Stati Uniti siano oramai giunti al redde rationem
con se stessi, lo indicano un’infinità di fattori: la crisi di una
moneta che è stata per mezzo secolo sicuro ancoraggio per qualsiasi
operazione finanziaria, oppure la perdita di gran parte dell’apparato
industriale a favore dei paesi orientali. Ancora: lo sberleffo
d’osservare il nemico di un tempo – ieri l’URSS, oggi
C’è
sempre la “spina nel fianco” dell’Iraq, ma nella campagna
elettorale pare ci sia stato quasi un gentleman
agreement per non trascinarlo nella mischia. Le notizie che giungono
dall’Oriente sono abilmente “anestetizzate” dai media: pare quasi
che, l’interesse delle varie fazioni irachene, sia più puntato sulla
campagna elettorale americana che sul contrasto interno alle forze
d’occupazione. D’altro canto, nessuno spreca cartucce se sa che
potrebbero essere – appena dopodomani – risparmiate.
L’aria di smobilitazione s’avverte oramai ovunque, dalla Baghdad
angosciata dopo anni d’inferno, fino alla Virginia, dove la
depressione ha un diverso codice: quello dell’inevitabile sconfitta,
di un secondo dopo-Vietnam da gestire.
Curioso
che, molti cittadini statunitensi, vorrebbero affidare questa eredità
da brivido proprio ad un giovane nero, che fa di nome Barak, Hussein,
Obama. Il nome dell’ultimo negoziatore israeliano, quello dell’uomo
che impiccarono un anno or sono nella prigione di Baghdad e, per una
sola consonante di differenza, il nome del famoso “sceicco del
terrore”: che strani scherzi fa
Pur appartenente ad una chiesa cristiana, il giovane Obama è cresciuto
in Indonesia e, pare, abbia addirittura frequentato una scuola coranica.
Ottima preparazione per fare, oggi, il Presidente USA!
Se
le vicende internazionali sono più avvertite all’estero, negli USA ha
un considerevole peso (com’è ovvio che sia) la politica interna: a
ben vedere, s’incontrano parecchie difficoltà nel trovare differenze
fra i programmi dei candidati democratici e, con appena qualche
“limatina” di unghie, anche con quelli di Mc Cain e di Giuliani.
Mormoni e predicatori vari eccettuati, ovviamente.
La battaglia è dunque un confronto d’immagine e nulla più: nessuno
crede veramente nelle promesse sulla sanità per tutti e su un nuovo gold rush, oppure che lo strapotere tecnologico ed economico cinese
svanisca come una Fata Morgana. Gli americani avvertono, sentono il momento di pericolo e cercano – probabilmente – di
fare una cosa che ritengono sensata: non affidarsi più alla vecchia
via, cambiare radicalmente, a new
way. E’ nello spirito della “frontiera”.
In
altre parole, sembrano quasi coscienti che il nuovo Cesare non sarà più
un Cesare (l’ultimo che hanno provato, non ha dato gran prova di sé):
è tardi anche per le alchimie dei Churchill – o forse no – ma di
certo non del Churchill del 1940. Quello del ’45, forse.
Serve pazienza, tanta pazienza per cercare almeno un atterraggio
“morbido”, in un paese che ha giocato troppo con il Monopoli,
creando bolle finanziarie e speculative che sono passate da
un’amministrazione ad un’altra, che ha visto i salari minimi
sindacali (6,5 $ l’ora circa) dilagare ovunque, un paese dove il
lavoro lo trovi, ma a fare il lavapiatti o la cameriera in un fast-food.
Un
decennio infernale ha visto gli statunitensi pagare l’energia dieci
volte tanto (per noi europei, circa sei volte tanto), perdere talvolta
la possibilità di pagare l’assicurazione sanitaria e, ciliegina sulla
torta, essere infinocchiati con la speculazione dei subprime.
Ce n’è abbastanza per avere poca fiducia nel futuro, ed in questi
casi non si cercano più le soluzioni “ragionevoli” dei Clinton o
dei Giuliani, bensì maghi, taumaturghi e predicatori – oppure, senza
sbilanciarsi troppo – giovani avvocati neri dell’Illinois.
Ci sono, inoltre, altri fattori interni che sembrano convogliare
consensi su Obama, che a noi europei sembrano meno importanti, ma che
negli USA sono – stelle o stalle che siano – di prima grandezza.
Leggevo
recentemente un articolo di Carpentier de Gourdon dove – con grande
sagacia ed approfondita conoscenza storica – narra l’eterno
abbraccio/contrasto fra le due Americhe, quella a Nord del Rio Grande e
quella a Sud, che pare interminabile, fino al lontanissimo Capo Horn.
Eppure, entrambe sono Americhe, anche se quando la citiamo al singolare
intendiamo – quasi sempre – gli Stati Uniti.
L’ultimo decennio ha visto grandi rivolgimenti a Sud del Rio Grande:
una piccola isola dimenticata, nello sprofondare del socialismo reale,
ha gettato un pollone che ha attecchito in terraferma e,
paradossalmente, in uno dei luoghi più ricchi di petrolio della terra.
La pipeline fra Caracas e
Non basta: le alchimie finanziarie di un ministro economico argentino
– un tal Cavallo: ma, la finiamo di non prestar attenzione ai nomi?
Voi, pronipoti di Caligola, affidereste le vostre fortune a un cavallo?
– che sognava di far volare il dollaro fra
E
poi, Evo Morales, Lula da Silva…
Per osservare il mutamento dell’America Latina, possiamo fare una
semplice constatazione: l’11 settembre 1973, quando fu ucciso Allende,
l’unico paese che non aveva un governo pienamente supino ai desideri
statunitensi (a parte la solita Cuba…) era il Cile. Con la mentalità
e gli schemi della guerra fredda, il legittimo governo cileno fu
liquidato in un amen, bombardato – ironia della sorte – proprio da
quei Mig-21 che l’URSS aveva prontamente fornito alle forze aeree
cilene, per renderle indipendenti dalle forniture USA.
Trentacinque anni dopo, solo Bogotá
continua ad inviare i suoi ufficiali ad addestrarsi nei campus militari
statunitensi, e la presenza militare di Washington è praticamente
sparita a Sud del Rio Grande.
Così,
al NAFTA (l’accordo di cooperazione economica guidato dagli USA) s’è
sostituito il MERCOSUR, gestito direttamente dai paesi centro e
sudamericani. Anche qui, notiamo che la scelta del nome fu infelice:
quale auspicio trarre da un simile acronimo, con i prezzi odierni del
gasolio?
Tutto ciò parrebbe appartenere soltanto alla sfera della politica
estera, e invece ha degli importanti risvolti interni, che toccano –
in qualche modo – il candidato Barak Hussein Obama.
La tradizionale suddivisione, che è sempre stata proposta per gli USA,
è quella dei paesi ad Est o ad Ovest delle Montagne Rocciose, oppure le
“cinture” agricole del grano, del mais e del tabacco, seguendo i
paralleli. Mai nessuno avrebbe pensato ad una suddivisione diagonale:
eppure, se osserviamo la composizione sociologica degli USA, oggi
potremmo suddividere il paese fra chi sta a Sud-Ovest di una immaginaria
linea che collega
Man
mano che ci si avvicina al vertice di San Diego, oppure ci si allontana,
cresce o decresce la percentuale di popolazione d’origine ispanica che
vive oramai stabilmente nel Paese. Si tratta di un fenomeno migratorio
che ha caratteristiche assai diverse da quelli europei: emigranti che
vanno a vivere in città “yankee”, le quali portano nomi come San
Diego, Los Angeles, San Antonio, San Francisco, Corpus
Christi, Mesa,
Las Vegas…
Nell’ultimo secolo, la concomitanza fra la potenza economico/militare
degli USA, ed una demografia in espansione, fermarono al Rio Grande la
sempre presente pressione demografica che giunge dal Sud, causata dalla
maggior prolificità latina.
Oggi, entrambi questi presupposti non esistono più: l’America WASP (White
Anglo Saxon Protestant) è sempre meno reale. Certamente la si ritrova
nel Massachusetts o nel Rhode
Island, ma in California le due etnie sono oramai equipollenti,
considerando anche una notevole immigrazione asiatica. E un governatore
austriaco.
La
politica di Bush si è dimostrata fallimentare anche in questo settore:
inutile costruire muri lunghi migliaia di chilometri, che finiscono per
“fare acqua” da tutte le parti. I grandi flussi migratori –
Così, paradosso dei paradossi, città che portano nomi latini tornano
ad essere colorate da lingue latine, proprio nei luoghi dove, la
superiorità della cavalleria USA e degli obici Dahlgren,
s’imposero sulle truppe del generale di Santa Ana.
Come intercettare i consensi della parte ispanica della popolazione
statunitense, oramai stabilmente residente nel paese, che lentamente
acquisisce la cittadinanza e che, domani, potrà diventare l’ago della
bilancia negli equilibri interni?
Non
esistono politici di prima grandezza d’origine ispanica, e forse
sarebbe azzardato (e controproducente) presentare un simile candidato.
D’altro canto, nel melting pot
statunitense, non è assolutamente certo che gli italiani votino un
italiano, i neri un nero, ecc.
La figura di Obama sembra incarnare una sorta di american dream “cucito” per i neri: senza ricorrere a penose
operazioni di lifting – come Michel Jackson – il nerissimo avvocato
dell’Illinois si presenta così com’è, con la sua strana vita
trascorsa prevalentemente all’estero, ma anche con la sua laurea ad
Harvard.
Ecco allora che la figura del giovane nero vincente può,
nell’immaginario dei nuovi immigrati, rappresentare una sorta di
possibile, futuro punto d’arrivo per tutti: la riedizione dell’american
dream, nella versione per i diseredati. Siano essi neri, asiatici od
ispanici.
Obama
gioca poi, contemporaneamente, su due tavoli e li sa interpretare bene:
se, da un lato, ha saputo raccogliere più fondi elettorali di Hillary
(che gli consentono una “macchina elettorale” tradizionale),
dall’altra è un candidato – se non proprio “tutto Web” –
almeno “prevalentemente Web”. E, questo, è un dato che dovrebbe far
riflettere anche in Italia.
Inoltre, Barak non appartiene alle grandi dinastie della politica USA
– paradossalmente,
Sappiamo,
però, che il sistema elettorale statunitense è facilmente
“permeabile” alle intrusioni esterne: sin dalle primarie, dove
contano soprattutto soldi, appoggi ed alleanze, fino allo scontro
finale, dove entrano in gioco le infernali macchinette della Diebold.
E’ però altrettanto vero che gli Stati Uniti non possono essere
paragonati all’Ucraina o alla Georgia: un risultato elettorale può
essere abilmente pilotato, anche ribaltato, ma quando la situazione è
abbastanza vicina all’equilibrio. Inoltre, questa volta hanno poche
possibilità di rientrare in gioco le grandi “dinastie”: in un certo
senso, anche i poteri forti (e, talvolta, occulti) devono fare i conti
con quel che passa il convento.
Sul
potere dei grandi gruppi economici, sui vari think tank statunitensi, si è parlato molto: dalle abili regie del
vecchio Kissinger – il cosiddetto “gruppo” di Havard – fino agli
agrarians del Sud.
E’ indubbio che importanti personaggi del sistema abbiano appoggiato i
neocon – pensiamo a Samuel
Huntington – ma non confondiamo quei gruppi con i neocon
stessi.
New American Century – la “madre” dei neocon – era ed è un gruppo di pressione politica, ma non è
perfettamente sovrapponibile agli interessi dei Nashville Agrarians o della lobby delle armi.
Possiamo, risalendo la storia dei neocon,
giungere fino a Leo Strass ed ai legami con i residui del Terzo Reich
(la nota vicenda Thyssen-Bush…), ma, proprio la spregiudicatezza di
fare affari con il nemico in guerra, ci dovrebbe far riflettere che –
a quella gente – assai poco importa di nomi, gruppi o sigle. In altre
parole, se i neocon sono un cavallo perdente, chi se ne frega dei neocon.
Il
che, sembrerebbe confermato dalla strana “defenestrazione” di
Wolfowitz dalla Banca Mondiale: quando mai, un potente, viene accusato
di una misera questione di raccomandazioni per una collaboratrice (o
amante che fosse), fino a cadere nella polvere?
Ancora: le pressioni dei militari, al Pentagono, furono così potenti da
“disarcionare” Rumsfeld? Oppure, qualcuno assicurò quei militari
– che non volevano finire dalla padella nella brace con una guerra
all’Iran – che sarebbero stati in ogni modo garantiti?
Una sotterranea guerra è andata in scena, almeno dal
L’ultima
“cambiale” concessa ai neocon
fu la sostituzione di Powell con Condoleeza Rice agli Esteri: dopo, il
silenzio dei grandi gruppi di pressione è diventato assordante.
Non si poteva far nulla, per un’anatra zoppa che non era riuscita a
volare nemmeno quando aveva avuto il controllo d’entrambe le ali ed il
vento in poppa: non c’era niente da fare perché non ci si improvvisa
grandi statisti, nemmeno se hai alle spalle tutto l’apparato di Nixon/Reagan/Bush
Primo Il Vecchio.
Oggi, stranamente, emerge un giovane avvocato democratico – che, però,
ha studiato ad Harvard – e che raccoglie più fondi elettorali della
“patentata” Clinton. Potenza del Web o dei grandi gruppi?
Si
può credere che gli USA vogliano voltar pagina – e lo dovranno fare
in ogni modo, vista la disperata situazione economica nella quale si
trovano – e, probabilmente, anche i grandi gruppi di pressione si sono
accorti che è necessaria una sferzata.
Ovviamente, questo non migliora le condizioni economiche e strategiche
degli USA nel mondo: la guerra in Iraq è sempre una ferita aperta,
l’indebitamento – pubblico e delle famiglie – rimane una voragine
alla quale è difficile trovare soluzioni. Il dollaro è in picchiata da
anni, e
In una prospettiva di graduale ritiro dai grandi scenari internazionali
– che sono costati, in questi anni, una montagna di soldi
all’amministrazione USA – lo scenario di un “atterraggio
morbido” si può, per lo meno, intravedere.
Tutto
ciò costerà, e parecchio: dalla redistribuzione dei contratti
petroliferi in Iraq – lo strano “riavvicinamento” di Parigi di
qualche mese fa? – alla cessazione degli appoggi “arancione” alle
repubbliche ex-sovietiche, fino alle velleità degli Scudi Stellari e
dei viaggi su Marte.
In altre parole, il ritorno ad una fase isolazionista potrebbe essere
necessario per distrarre risorse – finora dedicate ai ruoli
internazionali – al fine d’irrobustire gli interventi interni: senza
i quali, gran parte degli americani rischieranno, nel prossimo decennio,
la povertà vera, quella delle grandi recessioni economiche.
La figura di Barak Hussein Obama potrebbe essere proprio quel necessario
compromesso d’immagine, fra la continuità dell’establishment e le esigenze, pragmatiche ed oramai non eludibili, di
un ritorno al sostegno della domanda interna. Dopo un trentennio di
politiche liberiste, una nuova fase rooseveltiana.
Una
re-interpretazione di Roosevelt, non una riedizione, giacché qui si
tratta di gestire (con ben minori risorse!) una fase di contrazione
della politica estera, e non un’espansione, come avvenne dopo
Ma, tant’è, altre vie – per il gigante statunitense – non
sembrano essercene: se un vecchio Churchill non è presente nella
politica USA, un giovane promettente, abile oratore, preparato ed in
grado di coalizzare fra di loro etnie apparentemente lontane e dagli
interessi stridenti, può essere l’unica soluzione praticabile.
Forse
non è l’optimum al quale aspiravano generazioni di statunitensi, ma
è ciò che passa il convento: dovendo proprio trovare, fra i vari
candidati, quello che meglio potrebbe ricoprire questo ruolo, egli
corrisponde proprio al ritratto di Barak Hussein Obama. Sia per
l’immaginario popolare, sia per i poteri forti, abbacchiati e delusi
dagli sproloqui di New American Century: fare di necessità virtù è,
nei periodi bui, il massimo che ci si può concedere.
Ricordo una frase del primo San
Francesco della Cavani. Quando Francesco riuscì finalmente a farsi
ricevere dal Pontefice, gli spiattellò tutte le sue rimostranze per la
corruzione del clero dell’epoca. Un cardinale, chiese allora al Papa
se lo dovesse imprigionare, ma il Pontefice rispose, tranquillo: «No,
lasciatelo andare fra la gente: riporterà i poveri a noi.»
Carlo
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