|
La
nuova Crociata per il petrolio
di
Michele Gambino - tratto da Avvenimenti
Crociata per distruggere il
terrorismo, "Jihad contro l'Occidente", "lotta tra bene e
male", "sfida al satana americano". E' chiamata in molti
modi questa strana guerra. Però nessuno, forse per pudore, ha voluto
chiamarla anche "guerra per il petrolio". Eppure è questo uno
dei risvolti della crisi in corso: la ridefinizione degli equilibri
strategici nella regione da cui proviene il 65% delle risorse
energetiche che muovono il mondo. Osama Bin Laden e i suoi occulti
alleati non hanno il fumettistico obiettivo di sconfiggere l'America, ma
quello concreto di rovesciare o controllare il regime al potere in
Arabia Saudita. Spaccata letteralmente a metà tra filo-americani e
amici di Bin Laden, la terra del Profeta esporta quasi un quarto del
petrolio del mondo, e dalle sue politiche sulla produzione e sul prezzo
del barile dipende l'economia planetaria. E' curioso, e molto
significativo, che nel predicare la cacciata delle basi militari
americane dalle terre della Ka'ba e della Qibla, Mecca e Medina, Osama,
figlio della dinastia dei Laden petrolieri, faccia raccomandazioni che
col Corano non c'entrano nulla: "I musulmani dovrebbero evitare le
guerre interne per evitare la distruzione del petrolio - scrive lo
sceicco del terrore il 23 agosto 1996 - ci appelliamo ai fratelli
affinché escludano dalla battaglia la ricchezza del paese islamico che
dovrà sorgere". Più chiaro di così si muore, diremmo in Italia.
Dall'altra parte, sul fronte opposto, l'operazione bellica "Enduring
Freedom" sembra avere non solo l'obiettivo, piuttosto metafisico,
di "sconfiggere il terrorismo" con le portaerei e i B-52, ma
anche quello di impedire con pugno di ferro la destabilizzazione
politica dell'aerea del petrolio. E nel frattempo, magari, di
approfittare della situazione per procurarsi qualche vantaggio nella
lotta per l'energia: una lotta che da sempre divide il mondo tra quelli
che producono il petrolio e il gas, ma non possono permetterseli, e
quelli che non li possiedono, ma ne sono totalmente dipendenti. I pozzi
petroliferi degli Stati Uniti, ad esempio, producono ogni giorno più di
otto milioni di barili, ma il Paese ne consuma quasi venti milioni
nell'arco delle stesse ventiquattr'ore. Senza le forniture dall'esterno
è stato calcolato, gli Usa avrebbero nel proprio sottosuolo risorse
energetiche per resistere otto anni. Dopodiché la superpotenza mondiale
dovrebbe spegnere la luce.
Nella guerra del Petrolio Kabul è un
obiettivo solo apparentemente marginale: è stato calcolato che nel
sottosuolo di Uzbekistan, Kazakistan, Turmenistan, Kirgisistan e
Tagikistan, tutti paesi che circondano l'Aghanistan come una corona, ci
sia tra il 20 e il 30% del fabbisogno mondiale di petrolio e gas. L'approvvigionamento petrolifero è
considerato dagli Stati uniti una questione di sicurezza nazionale
almeno dai tempi della cosiddetta "Dottrina Carter", dal nome
dell'ex presidente Usa, secondo cui qualunque attacco alla stabilità di
uno dei paesi produttori del petrolio del Golfo Persico sarebbe stato
considerato una minaccia agli Stati Uniti. A decidere di attaccare l'Afghanistan,
minacciare l'Iraq - tutte mosse con effetti nella partita del petrolio,
come abbiamo visto - sono uomini e donne che dal petrolio vengono:
George W. Bush ha fatto il petroliere fin dal 1978. Il suo vice Disk
Cheney è stato amministratore della Halliburton, società di ingegneria
e costruzioni petrolifere. Condoleeza Rice, consigliera di Bush per la
sicurezza, è azionista della Chevron, e per i mari del mondo naviga una
petroliera che porta sulla fiancata il suo esotico nome di battesimo.
Donald Evans, ministro del Commercio, è stato per metà della sua vita
amministratore di una società petrolifera. Gale Norton, ministro
dell'Interno, era l'avvocato della Delta Petroleum, coinvolta nel
progetto dell'oleodotto afgano, e la sua campagna elettorale è stata
finanziata dalla Bp-Amoco, la società che costruisce le vie del
petrolio americane. Tratto da Avvenimenti |