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Una
notizia che attendevo
di Carlo Bertani – 2 maggio 2007
L’aspettavo
da mesi, non proprio da anni, ma sapevo che i tempi erano maturi: il
2007 sarà ricordato come l’anno dell’inversione di tendenza, quello
nel quale la pubblicità ha iniziato a disertare le vie canoniche –
TV, radio, riviste, quotidiani – e, seppur timidamente, a premiare
Internet. Era inevitabile che ciò avvenisse.
La notizia è stata comunicata dall’ANSA il 28 aprile 2007, ed aveva
toni cupi: i dati Nielsen sugli investimenti pubblicitari a
gennaio-febbraio 2007 stimano un calo del 4,5% rispetto al primo
bimestre 2006. Riflettiamo che è quasi un ventesimo in meno in un solo
anno: non è ancora una Caporetto ma un primo, sonoro schiaffo.
Osserviamo prima i dati:
-
TV: -
5,9%
- Periodici:
- 6,7%
-
Radio:
- 4,7%
-
Quotidiani:
-2%
Analizzando
i dati grezzi, salta agli occhi che fra i media più colpiti ci sono
proprio le TV: le regine del mercato pubblicitario! Potrebbe stupire di
meno il calo nei periodici e nelle radio, mentre i quotidiani sembrano
ancora “reggere”. Un calo così vistoso nel principale mezzo
d’informazione (e veicolo di pubblicità) non può essere casuale, ed
è necessario analizzare meglio la situazione.
Ecco le possibili ragioni del calo, secondo le stime emerse da uno
studio di Meta Comunicazione,
realizzato attraverso 65 interviste a pubblicitari ed esperti di
marketing e di media[1]:
-
Un mutamento nel pubblico al quale i media non si sono adattati (74%);
-
Un
mercato ormai troppo pieno di pubblicità in cui sono necessari
investimenti proibitivi (65%);
- La mancanza di liquidità delle aziende (53%);
-
Nuove
mode come il “guerrilla marketing”, quel mix di eventi e iniziative
volti a stupire il consumatore (44%);
-
Ritardi
dei media nell'integrarsi, in modo da massimizzare gli effetti di una
campagna (39%);
Un
primo aspetto, duplice, riguarda su un fronte il mutamento del pubblico,
mentre sull’altro s’avverte una sorta di ritardo nello stendere le
eventuali contromosse. C’è poi il dato “strutturale” di scarsa
liquidità, ma solo il 53% dei pubblicitari lo considera importante.
Più interessante notare che ben il 65% pone l’indice sui costi
proibitivi della pubblicità, che corrispondono in pieno ai budget
astronomici che richiedono i palinsesti televisivi.
Qui c’è da fare una prima riflessione: nessuno ha imposto cachet
milionari (in euro) per i conduttori televisivi più noti, e nemmeno le
migliaia di euro che tanti abituali frequentatori dei salotti televisivi
richiedono per intervenire. Il più delle volte, per annoiarci.
Hanno
creato una sorta d’Olimpo, una pletora di semidei che passano da uno
studio televisivo ad una spiaggia esclusiva in Costa Smeralda: una sorta
di Hollywood italiana, con annessi costi. E chi deve pagare? La
pubblicità? Gli utenti?
Le
aziende non ce la fanno più a reggere il ritmo e gli utenti, se i costi
dei canoni dovessero aumentare sostanzialmente, rescinderebbero i
contratti. Già tanti abbandonano il contratto telefonico tradizionale
per il “tutto Internet”, compresa la telefonia in voce, e non ci
metterebbero tanto a chiudere il contratto con una RAI sempre più
povera di contenuti. Tanto, l’informazione potrebbero averla
ugualmente dalle reti private, e soprattutto sul Web, mentre per
l’intrattenimento (in particolare per i film) ci sono i circuiti peer
to peer.
Cosa
accadrà? Ascoltiamo come prevedono il futuro i pubblicitari:
Secondo
gli intervistati, senza interventi, il trend:
-
Colpirà tutti i media (68%);
-
Rivoluzionerà
i consumi ( 55%);
-
I
prodotti saranno accessibili solo a chi potrà permettersi di
acquistarli (35%);
-
Si avrà
un impoverimento sia in qualità che in quantità (29%);
Insomma,
i pubblicitari – specialisti del settore – non prevedono inversioni
di tendenza né “miracoli”: il calo d’investimenti colpirà tutti,
nessuno escluso. Va da sé che, con minori investimenti pubblicitari,
anche i consumi cambieranno: saranno forse favorite le marche non
“griffate” e gli hard-discount, una tendenza già in atto.
Che i prodotti “saranno accessibili solo a chi potrà permettersi di
acquistarli” ci sembra una colossale ovvietà, anche senza scomodare
Infine,
che l’impoverimento nasca dai minori investimenti pubblicitari non ci
sembra molto azzeccato: forse “impoverirà” qualche cachet
milionario dei conduttori televisivi, ma non influenzerà certo il
pensionato, l’operaio o l’impiegato che fanno la spesa al discount.
Per
quanto attiene ai media, poi:
-
Si rischia che
-
Che le tv
commerciali debbano ridurre i canali o i palinsesti (34%);
-
Che i
programmi ad alto budget scompaiano (26%);
-
Che i
quotidiani diventino un ricordo (39%);
Questi
quattro punti potrebbero essere riassunti in un solo assioma: “mamma
li turchi”, qui ci sta crollando il mondo addosso. Precisiamo: il loro
mondo. Le risposte, in questo caso, sono scomposte e venate
d’angoscia: la paura di chi non capisce dove s’andrà a parare.
Dovremmo pagare canoni extra per far posto a più pubblicità? E’ un
assurdo: chi s’abbona ad una pay-TV vuole programmi, non pubblicità.
Le TV dovranno ridurre budget, canali e palinsesti? Per il tipo
d’informazione e d’intrattenimento che riceviamo, non ci metteremo
certo a piangere.
Ricordo,
in anni lontani, che una RAI sensibilmente più povera di quella attuale
produceva grandi opere: il “Marco Polo” di Giuliano Montalto, Il
“Mulino del Po”, la drammaturgia russa, le tragedie greche. Enzo
Tortora conduceva programmi d’intrattenimento intelligenti e garbati.
Si potevano lasciare tranquillamente i bambini di fronte alla TV – il
pomeriggio – perché la “TV dei ragazzi” aveva veri contenuti per
bambini, non la violenza strisciante dei cartoni odierni infarcita di
messaggi pubblicitari. Mi fermo qui, ma si potrebbe continuare a lungo.
I budget erano inferiori a quelli odierni, eppure lavoravano per
Oggi, i buoni autori ed i bravi attori continuano ad esistere, ma il
prodotto televisivo è scaduto ad un livello inaccettabile. Forse,
proporre vera cultura è troppo pericoloso? Non faceva parte del piano
della P2? Invita a riflettere di più ed a consumare solo ciò di cui si
ha bisogno? Perché – proprio i pubblicitari, esperti di comunicazione
– non s’interrogano anche su questi aspetti del problema?
Detto
in un modo un po’ triviale, potremmo concludere che una TV di merda ha
finito per scontentare anche chi la merda deve vendertela, a qualsiasi
costo.
Mentre i nostri pubblicitari temono
che i quotidiani diventino un ricordo – forse non sanno che il New
York Times prevede già, fra cinque anni o poco di più, la sola
edizione elettronica? – Internet è l’unico dato in controtendenza
– con un aumento del +39.9% – anche se oggi, in Italia, sul Web
s’investono in pubblicità meno di 200 milioni di euro (sui circa 13
miliardi d’investimenti totali).
Quei miseri 200 milioni di euro parrebbero poca cosa, ma ricordiamo che
la pubblicità sul Web costa un’inezia rispetto alle TV: quindi, a
parità di spesa, s’ottengono maggiori coperture pubblicitarie. Sul
Web – spesso – la pubblicità conduce direttamente all’acquisto
(pensiamo ai mercati-Web come E-bay), mentre il mezzo televisivo
colpisce sì tantissime persone, ma le stesse non decidono quasi mai di
passare subito all’acquisto.
La
crescente sfiducia delle aziende nella televisione come mezzo
pubblicitario non è un fulmine a ciel sereno: possiamo tranquillamente
affermare che la televisione ha forgiato con le sue stesse mani
l'insuccesso.
Le TV pubbliche e le grandi televisioni commerciali hanno sottovalutato
due fenomeni che sono avvenuti negli ultimi anni: l'espansione delle
televisioni a pagamento e l’avvio della banda larga di Internet.
I palinsesti televisivi sono diventati negli ultimi anni drammaticamente
poveri: forse ancora accettabili per il pubblico più anziano, ma
pietosamente insignificanti per la parte più giovane della popolazione.
L'espandersi
a dismisura dei talk-show – nelle loro varie forme – ha illuso che i
giovani fossero attratti da quel tipo di spettacolo, mentre così è
stato solo in parte: dopo un primo, iniziale l'interesse, la noia ha
prevalso. Se i “Grandi Fratelli” acchiappassero moltitudini di
spettatori, i pubblicitari non ridurrebbero gli investimenti sulle TV.
L'espansione della banda larga di Internet ha invece colpito i
palinsesti televisivi per quanto riguarda la cinematografia televisiva:
oggi – grazie anche alla recente sentenza della Corte Costituzionale,
che ha avallato lo scambio di materiali nei circuiti peer to peer – si
può scegliere il film da guardare senza attendere la programmazione
televisiva.
Anche le televisioni a pagamento hanno concorso ad amplificare il
fenomeno: se il prodotto a pagamento deve essere esclusivo, finisce
forzatamente per restringere il numero di film recenti dei palinsesti
convenzionali. Difatti, sui canali tradizionali, oramai “girano” da
anni gli stessi film.
Lo
sport, poi, è praticamente scomparso dai grandi canali nazionali: pochi
minuti di trasmissione dai campi di calcio sono inframmezzati da decine
di minuti di chiacchiere, a volte addirittura penose, quasi sempre
noiose.
Tutto ciò, per lasciare più spazi alle televisioni a pagamento:
ovviamente, per quelli che se le possono permettere. Un fatto curioso è
che – nella loro incessante ricerca di denaro – i club sportivi
vendono contemporaneamente i loro diritti alle pay-Tv in Europa ed ad
altri network nel pianeta.
Non è poi così difficile assistere ad un Inter-Milan in diretta, se
solo ci si sintonizza su un canale del Kuwait o del Qatar: il commento
è in arabo, ma – tolto l’audio – è sempre meglio che ascoltare
le baggianate di Mughini.
Sul
fronte dell'informazione, poi, il sempre più pesante bavaglio imposto
dai partiti politici, unito all'infinita spartizione di reti e spazi
televisivi, ha fatto il resto.
Rimane emblematico l'esempio della recente guerra in Libano: forse perché
avvenuta d'estate – quando la maggior parte dei giornalisti era in
vacanza, oppure per la difficoltà d’ammettere i terrificanti
bombardamenti israeliani – una sola trasmissione d’approfondimento
andò in onda sulle reti RAI per tutta la durata della guerra.
La morale della vicenda, però, richiama un vecchio e arcinoto assioma
della comunicazione: se non informo io, ci penserà qualcun altro.
La guerra in Libano ha segnato un vero e proprio giro di boa nella
comunicazione: assenti i grandi network televisivi, moltissimi italiani
hanno cercato l'informazione sul web e tanti, dopo quella prima
esperienza, hanno continuato a farlo.
Fa
quasi sorridere leggere od ascoltare i quotidiani allarmi sul fronte
della siccità, dell'energia e del mutamento climatico: non passa giorno
senza che l'argomento sia in prima pagina in molti quotidiani od occupi
spazi nei telegiornali.
Peccato che, sul Web, questi argomenti siano dibattuti e seguiti da
anni: anni contro settimane, questo è il ritardo dell'informazione
tradizionale!
Operando un rapido ed empirico confronto – fra la quantità
d’informazione su questi argomenti trasmessa dai canali televisivi
tradizionali, e le centinaia di siti Internet e blog – appare evidente
chi ha vinto e chi ha perso.
Oltre che in quantità, i canali tradizionali hanno perso in qualità:
mentre in televisione ci tocca ascoltare le zuffe dei politici che
s’accapigliano e che non riescono a fornire informazione agli utenti,
su Internet è possibile leggere articoli, italiani ed esteri, scritti
dai maggiori esperti mondiali del settore.
E
il mutamento climatico? Chi ci doveva avvertire?
È fin troppo facile, oggi,
lanciare allarmi su allarmi: una vasta e generalizzata siccità colpirà
l'Italia la prossima estate! E sarebbe questa una novità? Sul Web se ne
discute da tempo: il sottoscritto, propose già un anno or sono di
costruire delle chiuse allo sbocco dei grandi laghi prealpini, per
mantenerli al livello di massimo invaso primaverile e poter utilizzare
l'acqua d'estate. Oggi, maggio 2007, qualcuno inizia a meditare che si
dovranno trovare “accordi fra le regioni” per superare l'emergenza:
quando l'emergenza arriverà, lor signori se ne staranno seduti a
discutere sul come definire quegli accordi. Ovviamente, nel fresco
dell'aria condizionata mentre i campi coltivati andranno arrosto.
Questa
informazione di pessima qualità è figlia di una politica di bassa
lega: raccontare soltanto ciò che conviene e che non ci danneggia. E il
resto? Sabbia! Il vecchio andazzo durato decenni, dai catto-comunisti ai
berluscoidi, dai prodetti ai prodini.
Il paradosso – per politici che all’unisono s’inginocchiano al
“mercato”, come al solo Dio dell’esistenza umana – è che
proprio il mercato (quello pubblicitario) ha sonoramente bocciato la
loro impostazione di far politica e comunicazione. E non si venga qui a
raccontare che la comunicazione viaggia su proprie vie, scevra dal
potere politico, giacché sappiamo che in RAI – senza una “targa”
politica, o meglio ancora una parentela – non si varca nemmeno il
cancello esterno!
I
soldi, però, sono una cosa seria: prima di gettare la spugna
cercheranno dei rimedi. Forme di pubblicità più “aggressiva” –
per acchiappare più gonzi – potranno tappare qualche falla, ma per
tornare ad essere i padroni del mercato i signori delle TV e dei
giornali dovranno per prima cosa garantire maggiori ascolti, un pubblico
più fedele e che non sia limitato alle vecchiette che fanno la maglia
mentre guardano Mike Bongiorno.
Il recente “flop” negli ascolti del Festival di Sanremo è un altro
campanello d’allarme: che gli italiani si siano finalmente stufati
d’ascoltare un festival della canzone completamente pilotato – per i
contenuti e le classifiche – dai discografici e dalle raccomandazioni
dei soliti politici?
Possiamo ragionevolmente attenderci che nei prossimi mesi scateneranno
una “caccia al nuovo”, ossia cercheranno di cooptare nuovi autori
dal Web, giovani conduttori prelevati dalle piccole emittenti, ma per
far loro raccontare la solfa di sempre. Cambiare veramente marcia è un
lusso che non si possono permettere: qualche avvisaglia è già
arrivata.
Tutti
i talk show dove si parla di politica e di sociologia non consentono più
alla gente di prendere parola: se non hai una “targa” politica
appiccicata al sedere ti tagliano la lingua. Santoro si è adeguato da
anni, da quando qualcuno disse in trasmissione che la morte di Salvo
Lima era stata un regolamento interno fra la mafia ed i politici che
erano riferimento per i poteri mafiosi: quel “qualcuno” raccontò
una verità inconfessabile, e su “Samarcanda” calò l’anatema.
Santoro comprese, s’adeguò ed ebbe – quando fu colpito dallo strale
di Berlusconi – un tranquillo posto da parlamentare europeo. I
telespettatori s’adeguarono un po’ di meno, ed oggi la noia regna
sovrana fra Ballarò ed Anno Zero, Matrix e Porta a Porta: la gente
vuole ascoltare cosa ne pensano gli elettori comuni, l’uomo della
strada, la “casalinga di Voghera”. Non saranno l’apoteosi della
critica televisiva, ma sono quelli che pagano il canone e gli stipendi
(milionari) ai tanti conduttori televisivi: il giudizio dei pubblicitari
su questo modo di fare televisione è tutto compreso in quel 5,9% in
meno di pubblicità sulle reti.
Con
tutto il rispetto per Enzo Biagi – e per l’assurda congiura che lo
ha visto censurato per lunghi anni – non possiamo pensare che il
futuro della televisione siano Biagi e Funari: sarebbe come affermare
che il futuro del Paese saranno sempre Prodi e Berlusconi.
In definitiva, “cambiar si dovrebbe ma mutar non si puote”: ciò che
riusciranno a partorire, in una situazione dove il controllo politico
trova sponda in migliaia di raccomandati di ferro, sarà la solita
ciofeca. E il mercato, ovvero la pubblicità, li punirà ancor più.
Tutto
ciò apre nuovi orizzonti per il Web, ai quali, però, Internet non è
pronto.
Anzitutto la copertura: ad essere generosi, solo il 70% degli italiani
possono potenzialmente usufruire della banda larga. Ciò significa che
circa 20 milioni di persone ne sono ancora tagliate fuori: un grave
ritardo nei confronti del resto d’Europa. Uno dei tanti “treni”
che in Italia viaggiano in ritardo.
La critica che viene spesso mossa ai contenuti del Web è la non
“verificabilità” delle fonti: perché, quelle TV sono verificabili?
Per anni abbiamo ascoltato in TV “esperti” che raccontavano
meraviglie sulla potenza USA in Iraq: dal Web – invece – si poneva
l’accento sulle difficoltà che gli USA avrebbero incontrato nelle
loro avventure militari.
Oggi,
qualche media ufficiale s’azzarda ad ipotizzare il numero delle
vittime civili e militari in Iraq, mentre sul Web lo sapevamo da anni:
c’erano interviste a medici americani e iracheni, recensioni
d’articoli, dati, addirittura le cronache che inviavano gli stessi
soldati USA mediante i loro palmari, e che arrivavano prima di quelle
dei giornalisti embedded.
In Libano – anche sorvolando sulle proprie opinioni politiche –
tantissimi commentatori ponevano l’accento sulla sconsiderata gestione
della guerra da parte del governo israeliano: lo dicevano quasi un anno
or sono, e solo oggi i TG nazionali ci dicono che è in atto in Israele
una “resa dei conti” politica per quegli eventi?
Gli
italiani non sono più una massa di bambinoni tele-dipendenti ed
ignoranti: molti si destreggiano abbastanza bene con l’inglese, ed
hanno quindi accesso all’informazione internazionale.
Esistono metodi di traduzione automatica che – se una persona ha
appena la conoscenza scolastica di una
lingua, per correggere e migliorare la traduzione – consentono
in breve tempo di tradurre un articolo.
Il mutamento è avvenuto lentamente, ma c’è stato: i gran signori
delle TV – sprofondati nelle loro poltrone di pelle – semplicemente
non se ne sono accorti. Man mano che scorrono le generazioni,
diminuiscono le persone con bassa scolarità ed aumentano quelle con
maggior cultura. Questo mutamento prevede che anche la politica,
l’informazione e l’intrattenimento perdano in rozzezza ed acquistino
in precisione ed in qualità. Luigi XVI – paradossalmente – fu il re
francese che più investì nell’istruzione: quando furono più
istruiti, i francesi lo scapitozzarono – a ben vedere, forse
ingiustamente – ma finì in quel modo.
Internet
è giovane, e quei miseri 200 milioni investiti in pubblicità sul Web
non testimoniano sfiducia nel mezzo, bensì ne denunciano le malattie
infantili: il Web è ancora acerbo. Cosa gli serve per crescere?
Come tutte le fasi di crescita, Internet cresce in un tumulto:
l’informazione e lo spettacolo sono spesso difficili da recepire perché
inserite in un pudding di non facile decrittazione.
Molti siti e blog hanno poca specializzazione: “di tutto e di più”
può anche andar bene ma, quando in quella marea d’informazione
risulta difficile districarsi, diventa un nocumento.
Anche la forma ha la sua
importanza: sito o blog?
A
mio parere, i siti veri e propri saranno avvantaggiati poiché hanno
un’impostazione redazionale: i responsabili conoscono gli autori ed è
più difficile incorrere nelle “bufale”; inoltre, si può
programmare l’uscita dei pezzi ed evitare i “doppioni”.
Sull’altro versante, può darsi che il blog diventi nel lungo periodo
la forma di comunicazione più democratica ed espansa su più livelli: a
mio avviso, però, se vorrà crescere, il blog dovrà superare il
sostanziale anonimato che protegge chi interviene. Crescere significa
anche appoggiare, criticare, non condividere in parte o in toto un
articolo, ma farlo firmando con il proprio nome e cognome, senza più il
“filtro” del nick name.
Forse i pubblicitari – per aumentare sostanzialmente gli investimenti
sul Web – attendono proprio una “crescita” del “pianeta
Internet”: pur mantenendo la sua sostanziale democraticità e
spontaneità, il Web dovrà fare in modo che ci siano “testate” ben
evidenti per contenuti, ed anche una certa omogeneità politica. Trovo
molto deprimente – quando scorro il blog di Beppe Grillo – leggere
insulti ed improperi assurdi ed inutili (oltre che indici di
maleducazione), e che nulla hanno a che vedere con il post del giorno.
Non
è un cammino facile, ma sarà quasi obbligato.
Oggi, Internet vive di proventi pubblicitari e telefonici: il
“piatto” è ancora povero, ma per arricchirsi c’è bisogno che il
Web stesso – più che arricchirsi di contenuti – si organizzi.
La recente sentenza della Corte Costituzionale, che non ha ritenuto
reato scambiare sul Web musica e filmati, è un punto di partenza, non
di arrivo. La ragione è ovvia: un film od un brano musicale sono
lavoro, e come tutti i lavori vanno pagati.
Questa può essere un’impostazione, ma ce ne può essere anche
un’altra: tutti produciamo cultura – di vario tipo – la mettiamo
in rete e riceviamo un compenso che non è legato alla quantità di
lavoro espresso, ossia otteniamo un minimo reddito di cittadinanza.
Si
tratta di un dibattito economico vasto, che spazia dalla “Tobin tax”
fino al reddito di cittadinanza vero e proprio: ho diritto ad un reddito
(minimo) perché abito questo pianeta. Voglio di più? Lavoro.
Molti si chiederanno da quali fonti trarre le risorse per finanziare il
reddito di cittadinanza: ebbene, dobbiamo renderci conto che – oggi
– forse costa di più controllare chi ha diritto oppure no ad un
servizio che fornire il servizio stesso.
Con il reddito di cittadinanza, enormi apparati di controllo come
l’INPS, la parte amministrativa del Servizio Sanitario Nazionale,
moltissimi Ministeri (quelli economici!), ecc, ridurrebbero il personale
al lumicino. Enormi ricchezze sarebbero disponibili per una più ampia
distribuzione del reddito. Nessuno più lavorerebbe?
No,
anzi, la creatività sarebbe avvantaggiata dal venir meno di lavori
assurdi ed inutili.
Mi fermo qui perché su questo argomento esiste ampia letteratura[2],
ma voglio sottolineare che, con quella sentenza,
Il
Web deve trovare soluzioni in questo senso, perché tanti giovani
giornalisti sono obbligati a chinare il capo nelle redazioni –
controllate da direttori che sono espressione del potere politico e
finanziario – perché da Internet è difficile avere soltanto un
piccolo reddito?
Chi ha un altro lavoro può permettersi di scrivere per puro piacere,
anche se a volte si è infastiditi dal sapere che tanti sedicenti
giornalisti scaldano una sedia per fare diligentemente soltanto un po’
di copia ed incolla. E i giovani? Saranno precari a vita nei giornali
– che ricevono sempre meno introiti dalla pubblicità – e che
devono, per sopravvivere, chinare il capo ai politici? Dove va a finire
il compito di controllo dell’informazione?
Si dovranno proporre soluzioni innovative: in assenza di un reddito di
cittadinanza, lo scaricamento di testi ad un euro (mediante un SMS) può
essere un’idea, oppure forme d’abbonamento che garantiscano anche
chi scrive sul Web, non solo coloro che sono finanziati dalla politica
(un miliardo di euro l’anno!), e che poi scrivono a comando.
Il
fallimento di quel modo d’intendere l’informazione e lo spettacolo
non è né una fisima né un sogno di mezza estate: molto concretamente,
sono stati i pubblicitari a volgere il pollice in basso nei confronti di
TV e giornali, non gli autori del Web.
I media di regime non potranno cambiare, perché ogni forma di
democrazia li travolgerebbe: noi siamo in grado di farlo? Il dibattito
è aperto.
Visto
che di pubblicità si parla, me la permetto anch’io:
http://www.macrolibrarsi.it/libri/__mutamenti_climatici.php?pn=103
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
www.carlobertani.it