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Nei secoli fedeli
di Carlo Bertani
Non
v'è parola che suoni bene sulle labbra dei re come la parola
"perdono".
William Shakespeare – Riccardo
II – Atto V, Scena III
Dall’Iraq si
susseguono notizie di massacri contro cittadini inermi, famiglie
sterminate all’interno delle loro case con l’esplosivo, ragazzini
ammazzati come cani agli angoli delle strade. Perché si giunge a tanto?
Eppure, i giovani soldati americani che sparano non
sono dei marziani e neppure dei selvaggi analfabeti: sono persone come
noi, che prima di pattugliare le polverose strade irachene navigavano in
Internet seduti alle loro scrivanie d’adolescenti, corteggiavano le
ragazze, giocavano a baseball od a soccer.
Come può avvenire la brutale trasformazione che
rende un giovane aperto alla vita un assassino? Cosa muta nel suo animo
per condurlo a varcare i confini della comune morale e scatenare gli
impulsi del sangue?
Per rispondere a
questa domanda dobbiamo soffermarci a riflettere sulle strategie
d’addestramento dei militari, di qualsiasi nazione essi siano.
Il passaggio dall’esercito di leva a quello
professionale è il primo passo: i legami con la società vengono
tranciati di netto, nel momento stesso nel quale il militare varca il
portone del centro d’addestramento.
Mentre nell’esercito di leva c’erano ragazzi
ventenni che erano “prestati” alle armi per un determinato periodo,
scegliendo la carriera militare il giovane sa che da quel momento in poi
quella sarà la sua “casa” e quello il suo mondo.
Qui hanno buon gioco le tecniche psicologiche
d’addestramento, che iniziano ad inculcare nel giovane un semplice
concetto: il mondo che hai lasciato ti ha rifiutato e noi ti abbiamo
accolto; non dare più ascolto a quel mondo che ti ha gettato via come
uno straccio inutile, ma a noi che ti trasformeremo in uno specchio
lucente.
Lo splendore che
dapprima abbaglia si chiama “onore” – concetto assai vago nella
miseria della guerra moderna, estinto da almeno un paio di secoli nella
prassi militare – con il quale il giovane viene invitato a misurarsi
con schiere d’eroici soldati che, prima di lui, illuminarono di gloria
il battaglione.
Il secondo passo è il più iniquo e subdolo: siccome sei stato
rifiutato, solo noi ti proteggeremo e soltanto i tuoi commilitoni dovrai
proteggere, con un patto di sangue che – come tutti i patti di sangue
– non potrà che generare altro sangue.
Questo è il giovane che, terminato
l’addestramento, sbarca in Iraq senza conoscere la lingue e le
tradizioni di un altro popolo, senza saper cogliere la differenza fra un
guerrigliero ed un padre di famiglia che si reca al lavoro. Spaurito, si
rifugia ancor più in ciò che gli resta: gli amici, i commilitoni con i
quali si è addestrato, gli altri soldati che – prima di lui – hanno
percorso il suo sentiero.
Ecco da dove nasce
“l’uomo nuovo” che dovrebbe portare la “democrazia” in quel
paese martoriato: da un coacervo di pulsioni tutte tese soltanto a
difendere una divisa ed a colpire chiunque non la rispetti o
l’attacchi. Ogni mediazione intellettiva scompare e se – come ad
Haditha lo scorso novembre – una mina uccide un commilitone si spara
all’impazzata uccidendo chi capita, donne e bambini – non importa
– perché ciò che offende il plotone deve essere offeso giacché
tocca corde profonde, ossia l’unica istituzione che il ragazzo oramai
riconosce, alla quale può fare riferimento e dalla quale può sperare
di trovare aiuto.
Diversa è la situazione per i soldati israeliani (di
leva), i quali hanno talvolta contestato gli ordini e centinaia di essi
hanno preferito il carcere militare piuttosto che compiere azioni
assassine nei territori palestinesi. La differenza? I soldati di Tzahal
sono dei civili che prestano servizio militare e sanno bene che –
terminata la detenzione – potranno tornare alla vita civile. Ciò non
significa che finire in un carcere militare sia una scelta facile: per
tutta la vita dovranno giustificare il loro atto e pochi saranno
disposti a comprenderli.
Negli USA nessuno si è mai opposto alla strategia
d’addestramento imperante – dettata dallo stesso Samuel Huntington,
uno fra i primi neocon e forse
il più ideologicamente radicato, nelle undici edizioni del suo
“Manuale del soldato USA” – ed ha provato a criticare il modello?
I due canarini
Nanterre, poi Milano, Francoforte, Vienna...l’Europa studentesca
prende fuoco in quel maggio del 1968: c’è poco senso e tanta voglia
in quella rivolta. D’altronde, quando mai si può chiedere ad un
rivoluzionario d’essere assennato?
La rivolta è iniziata prima negli Stati Uniti – a
Berkeley, in California – perché i giovani americani hanno un motivo
in più per ribellarsi: per loro non si tratta soltanto di mettere in
crisi il sistema di potere, bensì di rifiutare la cartolina militare,
di non farsi ingabbiare in una divisa con un fucile in mano.
La guerra è lontana ma il dolore è vicino: nelle
risaie del Vietnam si muore, ma è in America che si piangono i figli
che tornano in un sacco di plastica, sbarcati dai grandi C-130
dell’USAF. Prima della fine della guerra, torneranno nei sacchi in
60.000, più una miriade di feriti e mutilati: una generazione
distrutta.
Non fu così per la
generazione che combatté le seconda guerra mondiale, che tornò dalla
guerra vittoriosa e senza sensi di colpa collettivi e condivisi: in
Vietnam fu diverso, fu la guerra stessa ad entrare in crisi nelle menti
di chi la doveva combattere.
Passata l’infatuazione della propaganda, e
dimenticato l’orgoglio della divisa, ai giovani che partivano per il
Vietnam rimanevano i dubbi per una guerra combattuta contro un nemico
invisibile, in un territorio lontano e così diverso dal proprio, senza
trovare una valida ragione per quello che stavano facendo.
Nelle risaie dell’Indocina si consumò il dramma di
una generazione, che sarà tormentata da ciò che vide per sempre, finché
avrà vita: non basta e non basterà mai il revisionismo di Hollywood
– quello di We were soldiers,
per intenderci – a pacificare le coscienze.
Mentre in Europa e negli USA si urla contro il potere
– e si vorrebbero sostituire l’immaginazione e la fantasia al
paternalismo ed alla retorica – la compagnia Charlie avanza in una
delle mille risaie del Vietnam: tutte uguali, al Nord come al Sud.
Dov’è il nemico? Charlie
(così gli americani chiamavano i Vietcong) può essere dappertutto: può
nascondersi per mesi alla tua vista, ma sai che t’osserva. Ti guarda
attraverso gli occhi socchiusi dei vecchi nei villaggi o nello sguardo
neutro delle giovani contadine che mondano il riso.
Poi si fa vivo, compare quando meno te lo aspetti.
Mentre stai per addormentarti sotto le stelle – e ti rifugi nel sogno
d’essere in Arizona o nel Montana – la jungla prende fuoco,
sprizzano faville dal nero dei manghi e dalla profumata vegetazione
tropicale: qualcuno urla di rabbia in una lingua sconosciuta, qualcun
altro urla di dolore nella tua lingua.
Così nasce lo spirito di corpo, oltre le convenzioni
e le opinioni; si vive una sospensione del vivere e quel Limbo è uguale
per tutti, intriso d’angoscia, di paura e di tormenti: lentamente la
tua vita s’attenua, scompare e si scioglie nella vita del plotone.
Ci si salva o si va
a fondo tutti insieme, questa è la legge del plotone; nemmeno i morti
si lasciano al nemico, perché i loro corpi fanno parte di quell’unico
organismo che si muove nella jungla: il plotone, la compagnia.
Quasi non esiste più l’esercito, quello con la
“E” maiuscola: si fottano i generali e le loro stellette; i generali
se ne stanno al sicuro a Saigon ed a Da Nang, mica vengono a prendersi
le fucilate da Charlie.
Ogni plotone, ogni compagnia finisce per avere una
storia a sé; un girone infernale dopo l’altro scrive con il sangue la
sua storia, la interseca appena con il ricordo della Patria lontana: lo
sussurra soltanto – sommessamente – quando c’è un sacco di
plastica da caricare su di un elicottero.
Tutti hanno perso un amico in Vietnam, nessuno può
estraniarsi e giocare il ruolo della verginella: anche le giovani
reclute appena giunte – se sopravvivono al primo impatto con Charlie
– diventano presto silenti comparse del plotone, attoniti spettatori
dell’orrore.
Il vuoto regna nelle
menti della compagnia Charlie mentre rastrella la solita risaia,
minuscolo tassello di un organismo che chiamano Vietnam: il caldo e la
fatica fanno il resto, e si cammina senza pensare.
Si passa nei villaggi e si cercano informazioni; le
solite domande: se hanno visto gente armata nei dintorni, se ci sono
soldati regolari del Nord Vietnam nella jungla. Promettono favori e
qualche spicciolo, ma le risposte sono sempre le stesse: non c’è
nessuno, io pianto il riso, io raccolgo il riso, io prego gli antenati.
Eppure Mike e David non sono stati uccisi dal riso e
dagli antenati: sono morti vomitando il loro sangue su questa terra che
brulica di vermi e d’insetti, col ventre squarciato ed il sangue che
usciva a fiotti, con le compresse di medicazione premute contro le
viscere dai commilitoni per non lasciar sfuggire la vita; non andartene,
non andartene proprio adesso...
Succede allora che una risposta troppo evasiva, due
occhi che trasmettono odio facciano passare il Rubicone, sollevino la
mente dalle tradizioni e dai regolamenti: in quell’istante si torna ad
essere bestie fameliche in cerca di vendetta – sangue scaccia sangue
– ed il sangue di Mike che usciva a fiotti dalla bocca è ancora
troppo vicino, troppo radicato nella memoria collettiva del plotone.
Parte una scarica di
mitra e qualche corpo rimane nella polvere: ora tutti si muovono
rapidamente, americani che corrono a vedere cosa è successo e
vietnamiti che piangono, che urlano, che inveiscono.
Qualcuno non capisce cos’è successo, altri non
s’interessano a capire: l’odio distilla lentamente ma
inesorabilmente, corre veloce dai cappelli di paglia ai caricatori dei
fucili. Poi sborda, deflagra e due memorie collettive si scontrano: da
un lato l’odio silente dei contadini, dall’altro quello rabbioso del
plotone; il sangue di Mike e di David annebbia gli occhi, e si spara.
Si spara, si spara all’impazzata su tutto quello
che si muove. Giovani, donne, vecchi, bambini, animali, capanne: tutto
deve essere distrutto per esorcizzare la paura e purificare il sangue di
Mike e di David, per lavare quella macchia di terrore dalla memoria
condivisa del plotone.
Non contano più
gradi o comandi, suppliche o invettive: il rumore delle armi copre tutto
in un parossismo di tregenda, di sacrificio propiziatorio.
Il capitano Medina ed il tenente Calley – che
verranno in seguito accusati d’infamia – non sono nulla in quel
girone infernale: anche i loro gradi si sono sciolti nell’acre odore
della cordite, nel frastuono infernale dei mitragliatori.
Chissà quando sarebbe finita la mattanza. Giungono
casualmente dal cielo due uomini: il tenente-pilota Hugh Thompson ed il
soldato Lawrence Colburn, mitragliere di destra dell’elicottero OH23,
123° squadrone della “Cavalleria dell’Aria”. Osservano attoniti
quel macello che sta avvenendo sotto i loro occhi: non capiscono. Poi
Thompson decide d’abbassarsi per domandare cosa sta succedendo, cosa
significano quei mucchi di cadaveri addossati ai bassi argini delle
risaie: i due dell’elicottero non fanno parte del plotone, non sono
preda della perfida ipnosi. Dal basso rispondono di farsi gli affari
loro, che lì va tutto bene e che stanno facendo soltanto il loro
dovere.
Thompson riflette
qualche secondo, poi prende la decisione che più gli costerà cara
nella vita, da militare e da civile: ordina al mitragliere Colburn di
puntare la mitragliatrice pesante dell’elicottero sulla compagnia
Charlie e, se non finisce la mattanza, di sparare.
Una raffica d’avvertimento, che passa alta sopra
alle teste di Medina e di Calley, li fa rinsavire: impietriti, fermano
il massacro.
Thompson e Colburn, con il loro intervento,
riuscirono a salvare la pelle agli ultimi 10 vietnamiti che ancora erano
in vita nel villaggio di My Lai, ma le vittime accertate furono 504,
soprattutto donne, vecchi e bambini.
Ovviamente ci fu un
processo, ma tutti sappiamo come vanno a finire queste cose: non ci fu
praticamente punizione per nessuno, giacché My Lai fu uno solo dei
molti macelli senza senso operati dagli americani in Vietnam.
Anzi, qualche punizione – non apertamente
dichiarata ma concretamente sottesa – ci fu: in tutti i processi nei
quali Thompson e Colburn vennero chiamati a testimoniare, gli inquirenti
militari non cessarono mai di chiamarli “i due canarini”.
Oggi, i due provano a spiegare ai loro figli Abu
Ghraib: ci provano come possono, come riescono, tanto sono diventati –
per l’Esercito degli Stati Uniti – soltanto due “canarini”, due
soldati che avevano provato a “cantare” una canzone diversa da
quella che cantò la compagnia Charlie a My Lai, Vietnam centrale, 1968.
Non fate prigionieri!
Il 10 luglio del 1943, 160.000 soldati
anglo-americani, 600 carri armati, 1.800 cannoni e 14.000 automezzi
prendono terra presso Noto – sulla costa meridionale siciliana – per
dare l’assalto al più debole alleato di Hitler: l’Italia. La
tempesta di fuoco è impressionante e la supremazia tecnologica senza
pari, ma non sufficiente per portare a termine quella “guerra lampo”
che i comandi alleati s’attendono: ci vorranno 38 giorni di
combattimenti e 4.000 morti per arrivare a Messina.
Contrariamente a quanto avevano raccontato loro gli
ufficiali superiori, italiani e tedeschi combattono campo per campo,
oliveto per oliveto.
Proprio in mezzo alle vigne ed agli olivi sorge il piccolo aeroporto di
Biscari – un campo secondario – dal quale però decollano i
micidiali Ju-87 Stuka tedeschi per colpire le retrovie americane.
Il 14 luglio 1943 il 180° reggimento di fanteria USA
va all’assalto dell’aeroporto, difeso da un reparto italiano di
tiratori scelti e dai paracadutisti tedeschi della “Hermann Goering”:
i fanti del 180° non hanno mai combattuto e l’attacco al piccolo
aeroporto è il loro battesimo del fuoco[1].
Lo scontro è aspro
e solo verso mezzogiorno le truppe dell’Asse iniziano a cedere: un
gruppo di 38 soldati italiani s’arrende e gli uomini s’accoccolano
nella polvere bruciata dal sole siciliano, stanchi, stufi di guerra,
pronti a finire dietro al filo spinato di un campo di prigionia. Invece,
il capitano John T. Compton dà un ordine che sulle prime non è nemmeno
compreso ma che viene prontamente attuato: i 38 italiani vengono
allineati al bordo della strada e fucilati all’istante, senza motivo
ed in oltraggio a tutte le leggi di guerra, ma non finisce qui.
Poco dopo s’arrendono altri 45 italiani e 3
tedeschi, 38 dei quali (probabilmente quelli che erano in grado di
camminare) sono affidati alle cure del sergente Horace T. West per
essere portati nelle retrovie ed essere interrogati.
Il sole cuoce il cervello sotto il pesante elmetto e
ci sono
C’è chi muore
all’istante, chi è ferito, chi tenta di fuggire: implacabile, il
sergente West riserva un’altra raffica per chi si allontana poi, con
la pistola d’ordinanza, dà il colpo di grazia a chi geme a terra, a
chi chiede pietà, a chi striscia per raggiungere il riparo di un
cespuglio.
Inutile raccontare che tutto rimase impunito: se
nemmeno uno dei piloti americani che causarono – con il loro colpevole
comportamento in aria – la tragedia del Cermis ha pagato, come
pretendere che qualcuno pagasse per quei crimini di guerra commessi nel
girone infernale della Sicilia nel 1943?
Per puro caso, il cappellano militare William E. King
s’imbatté il giorno seguente nei cadaveri lasciati a gonfiare al sole
– che presentavano quasi tutti i segni del “colpo di grazia” – e
chiese conto ai comandi dell’accaduto. Tutto fu insabbiato poiché
saltarono fuori tanti e tali “altarini” che
Ciò che fece
precipitosamente chiudere l’inchiesta furono le deposizioni d’alcuni
militari USA, i quali affermarono – candidamente – d’aver soltanto
eseguito gli ordini, giacché sulle navi che li portavano in Sicilia
avevano ascoltato un proclama, dello stesso generale Patton, che li
esortava a “non fare prigionieri”.
Nessuno seppe più nulla di quei soldati italiani,
nemmeno il loro nome: furono probabilmente conteggiati nel novero dei
“caduti in combattimento”, e neppure oggi le famiglie sanno se fu
realmente così oppure se caddero sotto i colpi degli aguzzini
americani, che avevano scambiato
Buon sangue non mente
Ogni albero ha le sue radici, e gli Stati Uniti
d’America – invece di correre per il pianeta con la parola
“democrazia” sulle labbra – farebbero meglio a chiedere perdono ed
a provare vergogna.
All'alba del 29 novembre 1864 il colonnello John M.
Chivington – al comando del terzo Reggimento dei volontari del
Colorado – circondò in un’ansa del fiume Sand Creek i Cheyenne del
capo Pentola Nera e li attaccò all’alba.
Nel campo non c’erano guerrieri – che s’erano
recati lontano a caccia di bisonti – ma solo vecchi, donne e bambini:
a nulla valse l’offerta di pace di Pentola Nera, che si avviò
sventolando una bandiera americana verso il colonnello Chivington. Fu
uno dei primi a cadere, e la vera tragedia iniziò subito dopo: ne
riportiamo un breve estratto[2]:
“Vidi cinque squaws nascoste dietro un cumulo di sabbia. Quando le
truppe avanzarono verso di loro, scapparono fuori e mostrarono le loro
persone perché i soldati capissero che erano squaws e chiesero pietà,
ma i soldati le fucilarono tutte. Vidi una squaw a terra con un gamba
colpita da un proiettile; un soldato le si avvicinò con la sciabola
sguainata; quando la donna alzò un braccio per proteggersi, egli la
colpì, spezzandoglielo; la squaw si rotolò per terra e quando alzò
l'altro braccio, il soldato la colpì nuovamente e le spezzò anche
quello. Poi la abbandonò senza ucciderla. Sembrava una carneficina
indiscriminata di uomini, donne e bambini. Vi erano circa trenta o
quaranta squaws che si erano messe al riparo in un anfratto; mandarono
fuori una bambina di sei anni con una bandiera bianca attaccata a un
bastoncino; riuscì a fare solo pochi passi e cadde fulminata da una
fucilata. Tutte le squaws rifugiatesi in quell'anfratto furono poi
uccise, come anche quattro o cinque indiani che si trovavano fuori. Le
squaws non opposero resistenza. Tutti i morti che vidi erano scotennati.
Scorsi una squaw sventrata con un feto, credo, accanto. Il capitano
Soule mi confermò la cosa. Vidi il corpo di Antilope Bianca privo degli
organi sessuali e udii un soldato dire che voleva farne una borsa per il
tabacco. Vidi una squaw i cui organi genitali erano stati tagliati...
Vidi una bambina di circa cinque anni che si era nascosta nella sabbia;
due soldati la scoprirono, estrassero le pistole e le spararono e poi la
tirarono fuori dalla sabbia trascinandola per un braccio. Vidi un certo
numero di neonati uccisi con le loro madri. " (In un discorso
pubblico fatto a Denver non molto tempo prima di questo massacro, il
colonnello Chivington sostenne che bisognava uccidere e scotennare tutti
gli indiani, anche i neonati. "Le uova di pidocchio fanno i
pidocchi" dichiarò.)”
Il giorno seguente
faceva molto freddo ed i cadaveri degli indiani erano pietrificati dal
gelo: furono ammassati in una chiesetta addobbata per il Natale, dove si
poteva leggere la scritta: “Pace agli uomini di buona volontà”.
Appena qualcuno cita episodi del genere viene subito
tacciato d’essere antiamericano, eppure le guerre indiane contarono
decine di questi massacri, così come le fucilazioni di prigionieri
nella Seconda Guerra Mondiale furono più frequenti di ciò che si
crede. Il Vietnam fu l’apocalisse che sappiamo ed oggi in Iraq ed in
Afghanistan va in scena lo stesso copione.
Purtroppo, una nazione che vive isolata dal resto del
mondo tende a considerare inferiori tutti i popoli dei quali non riesce
a comprendere lo stile di vita, le tradizioni, le religioni. Dai
messicani ai vietnamiti, dagli afgani agli iracheni, tutto ciò che non
è in linea con il modello americano è sbagliato, dunque da correggere.
Se non è possibile correggerlo allora si deve estirparlo, e se non è
nemmeno possibile sradicarlo allora va distrutto. Questo, purtroppo, è
in sintesi il pensiero di quella metà degli americani che hanno
sorretto Bush per due mandati, che comandano l’esercito e che
delineano la politica estera. Ciò non significa che non esista
un’altra America – quella dei diritti civili, delle sacrosante
libertà individuali, dell’anelito di libertà che ha illuminato
musica e letteratura – ma oggi quella parte non conta più nulla, non
ha voce in capitolo.
Apriamo gli occhi e riconosciamo per quello che è la
realtà che abbiamo di fronte: smettiamola con il politically
correct perché, a forza di tacere, ogni giorno che passa si
riempiono nuove fosse di cadaveri.
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
[1]
Ezio Costanzo – Sicilia 1943 – Le
Nove Muse – 2003
[2]
Testimonianza di
Robert Brent – un “canarino” dell’epoca che testimoniò di
fronte al Congresso USA nel 1865 – ma nessuno prese provvedimenti
per il comportamento del reparto e dei suoi ufficiali, ed il
villaggio di coloni che sorse presso il Sand Creek fu chiamato (e
tuttora si chiama) Chivington.