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Morire sul
lavoro
Di
Ignacio Ramonet – tratto da «Le Monde Diplomatique» giugno 2003
Occultato
dai grandi media, un documento decisivo è passato inosservato: il rapporto (1)
pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) nel quale si
denuncia che ogni anno nel mondo 270 milioni di lavoratori sono vittime di
incidenti sul lavoro, e 160 milioni contraggono malattie professionali. Lo
studio rivela che il numero dei lavoratori morti nell’esercizio del loro
mestiere supera i due milioni l’anno…
Dunque, ogni giorno il lavoro uccide 5000 persone! «E queste cifre –
segnala il rapporto – sono inferiori alla realtà (2)». Secondo la
Cassa nazionale di assicurazione contro le malattie (Cnam) ogni anno in Francia
780 lavoratori perdono la vita vittime del loro lavoro (più di 2 al giorno!).
Anche in questo caso «si tratta di cifre sottostimate». E si registrano
circa 1.35 milioni di incidenti sul lavoro (3), corrispondenti a 3700
infortunati al giorno - pari a 8
feriti ogni minuto in una giornata di otto ore…
Un tempo i difensori del popolo chiamavano «tributo di sangue» questa
sofferenza silenziosa, questo balzello pagato in nome della crescita e della
competitività (4). E’ il caso di ricordarlo, al momento di affrontare la
questione delle pensioni. E di pensare alle centinaia di migliaia di lavoratori
che arrivano alla fine della loro vita attiva ormai sfiancati, logori, esausti,
non più in grado di vivere bene la loro terza età.
Perché se è vero che la speranza di vita è aumentata, le conseguenze
dell’attività lavorativa comportano tra i pensionati un’esplosione di
malattie: tumori, scompensi cardiovascolari, depressioni, attacchi cerebrali,
handicap sensoriali, artrosi, demenza senile, Alzheimer.
Alla luce di queste considerazioni, l’attacco contro il regime pensionistico
appare ancora più ripugnante. Un attacco coordinato, trainato dai motori della
globalizzazione liberista (5) – G8, Banca Mondiale (6), OCSE (7) – che fin
dagli anni ’70 hanno lanciato un’offensiva contro la previdenza e la
sicurezza sociale (8). Offensiva rilanciata dall’Unione europea, i cui capi di
stato e di governo, sia di destra che di sinistra hanno deciso nel marzo 2002,
in occasione del vertice di Barcellona, di elevare di 5 anni l’età del
pensionamento (9). Ciò rappresenta un grave regresso sociale, e presuppone la
rinuncia al progetto di costruire società più umane ed egualitarie.
Mentre i ceti medi sono tartassati e impoveriti, la ricchezza continua a
concentrarsi ai vertici: trent’anni fa, l’utile di un imprenditore era circa
trenta volte maggiore del salario di un lavoratore, mentre oggi arriva a
guadagnare ben 1000 volte più dei suoi dipendenti (10)… E può quindi
guardare con serenità alla prospettiva di porre fine alla sua attività. Cosa
che certo non si può dire per la media dei lavoratori – e in particolare per
la categoria degli insegnanti.
I quali ultimi, a centinaia di migliaia – in Italia come in Francia, in
Spagna, in Germania, in Grecia, in Austria – si sono astenuti dal lavoro per
protestare contro lo smantellamento del sistema pensionistico – un sistema che
comunque va riformato. Il numero dei lavoratori infatti è in calo, mentre
aumenta quello dei pensionati. E il peso delle pensioni – che oggi corrisponde
all’11,5% del PIL – salirà al 13.5% nel 2020 e al 15.5% nel 2040,
rischiando di divenire un onere insopportabile per le società.
NONOSTANTE la crisi borsistica, che ha fatto perdere ai fondi pensione più del
20% del loro valore (11), l’opzione di un sistema a capitalizzazione non è
stata scartata. Tanto più che la formula prevista per la riforma del sistema a
ripartizione è tutta a carico del lavoratori.
Come se si trattasse soltanto di un problema tecnico, senza conseguenze per la
società nel suo insieme. Tutte le variabili – importo e prolungamento dei
contributi, età del pensionamento, importo delle pensioni – sono modificate
sistematicamente a discapito del lavoratore dipendente e del reddito da lavoro.
E non viene presa in esame alcuna soluzione alternativa, che preveda anche un
contributo della società, o una tassa sui profitti finanziari.
Si considera normale che ogni giorno due lavoratori perdano la vita, e ogni
minuto altri otto siano sacrificati alla convenienza delle imprese, ma non che i
datori di lavoro o il capitale partecipino in misura maggiore alle pensioni dei
dipendenti. Come non comprendere lo sdegno dei lavoratori?
NOTE:
(1) www.ilo.org/public/french/bureau/pr/2002/2003.htm
(2) «La sicurezza in cifre. Indicazioni per una cultura mondiale
della sicurezza sul lavoro». Organizzazione Internazionale del Lavoro, Ginevra
28 aprile 2003.
(3) «Les
Echos», 7 novembre 2002
(4) «Les accidents au travail. L’impot du sang. 19 dicembre 1906» in «La Guerre
sociale. Un journal rouges», Parigi 1999
(5) Il rapporto tra la questione
delle pensioni e la globalizzazione liberista è strettissimo : le pensioni
a capitalizzazione alimentano – negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in
Giappone, nel Regno Unito e in Olanda – giganteschi fondi pensione, divenuti i
principali attori del nuovo capitalismo finanziario.
(6)
Rapporto della Banca Mondiale, «Reforme des retraites en Europe: progres et
processus», Afp, 8 maggio 2003. Sull’offensiva della Banca Mondiale contro la
previdenza sociale
(7) «El Pais», Madrid, 20
maggio 2003
(8) Il Rapporto Chadelat, reso pubblico nell’aprile scorso, preannuncia un
attacco frontale nei confronti delle assicurazioni contro le malattie, volto a
smantellare e a privatizzare la previdenza sociale. Si legga il testo integrale
del rapporto: www.ladocumentationfrancaise.fr/brp/notices/034000159.shtml
(9) «Gli scudieri dell’Europa liberista», «Le Monde Diplomatique» aprile
2002
(19) Liberation, 21 maggio 2003
(11) «In
Francia l’inganno delle pensioni», maggio 2003