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Il mondo perfetto,
secondo Washington
Di
Noam Chomsky, tratto da «Le Monde Diplomatique» settembre 2003
Il settembre 2002 è stato segnato da
eventi importanti e strettamente connessi tra loro. Da un lato, gli
Stati Uniti, la nazione più potente nella storia dell’umanità, hanno
inaugurato una nuova strategia di sicurezza nazionale[1], dichiarando di voler
mantenere la loro egemonia mondiale in modo permanente e di essere
intenzionati a reagire a qualsiasi sfida con la forza, terreno sul
quale, dalla fine della guerra fredda, non hanno rivali. Dall’altro
lato, nel momento stesso in cui questa scelta politica veniva resa
pubblica, i tamburi della guerra si mettevano in moto per preparare il
mondo all’invasione dell’Iraq.
La nuova «strategia imperiale»,
come è stata immediatamente definitiva dalle più importanti riviste
istituzionali, fa degli Stati uniti uno «stato revisionista, che
cerca di utilizzare al massimo i suoi momentanei privilegi nel quadro di
un ordine mondiale di cui detiene le redini».
In questo «mondo unipolare (…), nessuno stato e nessuna coalizione
può contestare» all’America il suo ruolo «di leader, protettore e
gendarme mondiale»[2].
John Ikenberry, autore di queste citazioni, cercava di segnalare i
pericoli che una tale scelta politica avrebbe comportato per gli stessi
Stati uniti. Non è stato il solo a opporsi con fermezza a un tale
disegno imperiale.
A
livello internazionale, sono bastati pochi mesi perché la paura nei
confronti degli Stati uniti e la diffidenza verso i suoi dirigenti
politici raggiungessero vette mai toccate prima. Un’inchiesta
internazionale, realizzata da Gallup nel dicembre 2002, e praticamente
ignorata dai media americani, ha rivelato che il progetto di una guerra
contro l’Iraq condotta «unilateralmente dall’America e dai suoi
alleati» non incontrava pressoché alcun sostegno.[3]
Bush
intanto faceva sapere alle Nazioni unite che potevano rendersi «pertinenti»
solo approvando i piani di Washington. Altrimenti avrebbero dovuto
rassegnarsi a non essere altro che una sede di dibattito. A Davos, il «moderato»
Colin Powell informava i partecipanti al Forum economico mondiale,
anch’essi contrari ai progetti bellicosi della Casa bianca, che gli
Stati uniti avevano il «sovrano diritto di intraprendere un’azione
militare». E precisava: «Ogni volta che saremo convinti di
qualcosa, indicheremo la strada».[4]
E poco importa se poi nessuno segue.
Alla vigilia della guerra, nel corso del vertice delle Azzorre, George
W. Bush e Anthony Blair decidevano di mostrare il proprio disprezzo nei
confronti del diritto e delle istituzioni internazionali. Il loro
ultimatum, infatti, non si rivolgeva all’Iraq, ma alle Nazioni unite:
capitolate, dicevano in sostanza, o condurremo quest’invasione senza
preoccuparci della vostra insignificante approvazione. E lo faremo, sia
che Saddam Husseim e la sua famiglia lascino il paese, sia nel caso
contrario.[5]
Il presidente Bush proclamava poi che gli Stati uniti disponevano «del
potere sovrano di utilizzare la forza per garantire la propria sicurezza
nazionale». La Casa Bianca, tuttavia, si diceva disposta a fare
dell’Iraq una «vetrina araba», non appena la potenza americana si
fosse saldamente installata nel cuore della regione che è la massima
produttrice di energia del mondo. Una democrazia formale non avrebbe
posto alcun problema, ma a condizione di garantire un regime sottomesso,
come quelli che Washington reclama nel suo cortile di casa.
La
«strategia imperiale» del settembre 2002 autorizzava gli Stati uniti
anche a lanciare una «guerra preventiva». Preventiva e non anticipata.
Perché si trattava di legittimare la distruzione di una minaccia non
ancora materializzatasi, forse immaginata o anche inventata. La guerra
preventiva non ha niente di diverso dal «crimine supremo» condannato a
Norimberga. (…)
A Washington, l’«ondata mondiale di odio» non ha posto alcun
problema particolare. La scelta prioritaria era essere temuti, non
amati. Ed è stato con grande naturalezza che il segretario di stato
alla difesa, Donald Rumsfeld, ha fatto sue la parole del gangster Al
Capone: «Si ottiene di più con una parola gentile e un fucile, che
con una parola gentile e nient’altro». I dirigenti americani
sapevano che il loro comportamento avrebbe aumentato il rischio del
terrorismo e quello di un proliferare delle armi di distruzione di
masse. Ma la realizzazione di determinati obiettivi è per loro più
importante di rischi di questo tipo. Essi mirano, infatti, da un lato ad
instaurare l’egemonia degli Stati uniti nel mondo, e dall’altro, sul
piano interno, ad attuare un programma che smantelli le conquiste
progressiste strappate dalle lotte popolari nel corso del XX secolo.
Meglio ancora, debbono riuscire a istituzionalizzare questa
contro-rivoluzione per renderla permanente.
Una potenza egemonica non può accontentarsi di proclamare la sua
politica ufficiale, deve imporla come nuova norma delle relazioni
internazionali. (…)
Nella
nuova dottrina americana, è necessario che il bersaglio scelto dagli
Stati uniti risponda a diversi criteri. Deve essere indifendibile,
abbastanza importante da giustificare l’interesse, e apparire non solo
come una «minaccia mortale», ma addirittura il «male assoluto».
L’Iraq rispondeva perfettamente a questi requisiti, e in particolare
alle due prime condizioni. Quanto alle altre, basta ricordare le omelie
di Bush e Blair e dei loro compari: il dittatore: «ammassa le armi
più pericolose al mondo [per] sottomettere, intimidire o aggredire»
Armi che ha «già utilizzato contro interi villaggi facendo migliaia
di morti, feriti e handicappati tra i propri cittadini. […] Se questo
non è male, allora il termine non ha più senso»
Pronunciata
dal presidente Bush, l’efficace requisitoria suona giusta; coloro che
contribuiscono al male non debbono restare impuniti. Ma tra questi
ultimi vanno necessariamente inseriti anche l’autore dei nobili
propositi, alcuni dei suoi attuali accoliti e quanti si sono associati a
loro nel sostenere, tutti insieme, l’incarnazione del male assoluto,
quando questo, già da tempo, aveva compiuto la maggior parte dei suoi
terribili misfatti. Infatti, allorquando ribadivano in continuazione le
atrocità compiute dal mostro Saddam Hussein, i dirigenti occidentali
tacevano un’informazione cruciale: questi crimini erano stati compiuti
con il loro appoggio, perché si trattava di azioni che in fondo li
lasciavano indifferenti. Il sostegno si era poi trasformato in condanna
non appena l’amico di ieri aveva commesso il suo primo vero delitto,
quello di disubbidire (o forse, di mal interpretare gli ordini)
invadendo il Kuwait. La sanzione fu terribile…per i sudditi. Il
tiranno, personalmente, ne uscì indenne, anzi fu addirittura rafforzato
dalle sanzioni imposte dagli ex protettori.
Ma Washington rinnovò il suo sostegno a Saddam Hussein subito dopo la
prima guerra del Golfo, quando il dittatore schiacciò le rivolte che
forse avrebbero potuto rovesciarlo.
(…)