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- Pagina cambiamenti climatici
Un
mondo all’Idrogeno
di Carlo Bertani - 6 febbraio 2007
Si è appena
conclusa a Parigi la conferenza sui mutamenti climatici (ICCP): il
gruppo d'esperti che fa capo all'ONU ha raggiunto un accordo al 90% sul
testo che prevede un innalzamento del clima che durerà per il prossimo
millennio.
Gli scenari che vengono prospettati sono apocalittici: innalzamento del
livello dei mari, aumento della superficie dei deserti, carenza idrica,
ecc.
Quel 90%
indica che non tutta la comunità scientifica è d'accordo sulle
conclusioni del vertice: il 10% degli scienziati si mostra ancora
scettico sull'origine antropica dei mutamenti climatici in atto. Una
porzione assai ristretta della comunità scientifica ritiene che i
mutamenti siano da imputare al naturale ciclo del clima, ossia a fattori
estranei alla presenza dell'uomo: si cercano risposte nel ciclo delle
macchie solari, oppure si sostiene un generale riscaldamento del sistema
solare.
Il fatto che
la comunità scientifica non sia unanime sulle conclusioni del vertice
rischia di depotenziare l'azione che i governi dovranno intraprendere
per affrontare i problemi: in altre parole, se non sono certo che
riscaldamento è dovuto alle attività umane, posso tranquillamente
continuare a comportarmi come ho sempre fatto.
Neppure, però, possiamo ignorare che la gran maggioranza degli
scienziati è oramai schierata su posizioni che imputano al genere umano
la responsabilità per gli evidenti mutamenti climatici che stanno
avvenendo.
Come trovare
una via d'uscita per non cadere nel tranello di una diatriba senza fine?
Potremmo iniziare a considerare che
il mutamento climatico esiste ed è in atto: a causa delle attività
umane? Per cause naturali? Non importa: c’è.
Supponendo che il mutamento climatico sia estraneo alle attività
dell’uomo, la continua immissione di gas serra nell’atmosfera
contrasterebbe l’aumento delle temperature dovuto ai naturali cicli
del clima?
Sappiamo che
la temperatura del pianeta – dopo la “piccola glaciazione” del
1500 – è tornata a salire dall’Ottocento: ciò che preoccupa, oggi,
non è tanto l’entità dei mutamenti ma la velocità con la quale
avvengono. L’uomo non c’entra nulla?
Per fortuna, almeno su questo, la scienza è unanime: è universalmente
riconosciuto che gas come il Diossido di Carbonio trattengono la
radiazione infrarossa che, altrimenti, sarebbe riflessa verso
l’infinito.
Il fenomeno
è stato riconosciuto ed accertato: la radiazione luminosa che giunge
sulla Terra – a causa di molteplici riflessioni e rifrazioni dovute
agli ostacoli che incontra – muta in parte la sua lunghezza d’onda
ed aumenta quella a più bassa frequenza, ossia l’infrarosso.
Ebbene,
Ora, se
esiste un mutamento che ha cause naturali possiamo farci ben poco: ciò
che invece possiamo (e dobbiamo) fare è evitare d’aggiungere danno al
danno, anche se – per la natura – l’aumento della temperatura non
è certo un danno. Lo è certamente per la razza umana e per altre
migliaia di specie, ma l’evoluzione c’insegna che una soluzione c’è
sempre: fra qualche milione di anni la specie dominante potrebbe essere
formata da lucertole estremamente evolute, oppure da rane, da una
mutazione dei delfini…
Se, invece,
vogliamo dimostrare di meritare il trono sul quale sediamo da millenni
– ovvero quello della specie dominante – dobbiamo mostrare con i
fatti di meritare quella posizione, ossia di saper ragionare da esseri
dotati di saggezza e lungimiranza.
E’ quasi puerile – su questo fronte – osservare la nostra
pochezza: a Parigi si sono uditi spezzoni di discorso dove si vaneggiava
una nuova “governance
mondiale”. Ma sanno di cosa parlano? Ricordano qualche pagina di
storia?
Forse – in italiano – non si traduce il termine e si preferisce
lasciarlo in un dubbio inglese: quello che gli scienziati anelano per
risolvere il problema è il governo mondiale dell’economia e della
politica!
Ora, se
riflettiamo che l’ONU non è in grado d’arrestare una guerra
abbastanza contenuta come quella irachena, non è stata capace di
fermare i bombardamenti su Beirut, non sa dire nulla per risolvere le
infinite crisi in Jugoslavia, in Somalia, in Cecenia…pretendiamo che
s’assuma il governo del pianeta?
Le tristi fini della Società delle Nazioni – ed ora dell’ONU che ne
segue le orme – non c’insegnano forse che il problema nasce e muore
nel concetto di stato nazionale, così moderno quando s’affermò e
disegnò una nuova geografia del pianeta, ma oggi tristemente inutile
per affrontare le sfide globali?
Il Presidente francese Chirac – forse anche per dovere, essendo
Per questa
ragione – personalmente – sono molto pessimista sul futuro:
nichilismo? Come si fa ad essere ottimisti quando – a fronte di
mutamenti che appaiono oramai in tutta la loro evidenza anche all’uomo
della strada – non si riesce a convincere la nazione che più inquina
nel pianeta – gli USA – ad aderire al misero Protocollo di Kyoto,
che per il clima è poco più di un’Aspirina che tenta di sconfiggere
un febbrone da cavallo?
Il Protocollo è troppo “politico” affermano gli USA: in altre
parole, se noi aderiamo perdiamo tot punti percentuali di crescita, tot
valore del dollaro ed avvantaggiamo altri paesi. L’unica grande
nazione che li appoggia è l’Australia: ora, esiste un appoggio più
“politico” di quello australiano? Cos’hanno da spartire – sul
piano meramente tecnologico ed industriale – gli USA e l’Australia?
Forse perché l’Australia è il primo produttore mondiale d’Uranio?
Qui stiamo giocando con la scatola dei fiammiferi seduti su una catasta
di bidoni di benzina: come si può essere ottimisti?
“L’unica
soluzione è la rivoluzione” si urlava nel ’68: dobbiamo riconoscere
che – almeno per l’energia ed il clima – mai detto fu più vero.
Ciò di cui abbisogniamo è una rivoluzione copernicana nel sistema
d’approvvigionamento energetico: non si tratta di tornare al cavallo
– non raccontiamo fesserie – ma di compiere un passo rivoluzionario
cambiando mentalità. Meglio l’uovo oggi o la gallina domani? Se
fossimo in grado di compiere quella rivoluzione, riempiremmo tutti i
frigoriferi del pianeta di polli e di uova.
La prima cosa da fare è quindi diminuire costantemente e celermente le
nostre emissioni di gas serra: comprendo che questo discorso assomiglia
molto ad un aforisma di
Qual è
l’errore di partenza, che non ci consente di risolvere il problema? La
chimica del Carbonio.
Tutti sanno che alla base della vita c’è la chimica del Carbonio, la
chimica organica: tutto ciò che è vivente è composto da catene di
atomi di Carbonio. C’è però anche una chimica inorganica del
Carbonio – ossia quella che trasforma, per esigenze energetiche, atomi
di Carbonio in molecole di anidride carbonica – e, per nostra
sfortuna, il Carbonio non si cura molto delle nostre distinzioni.
Da sempre,
per produrre energia, utilizziamo questo “salto” energetico:
passando dal Carbonio all’anidride carbonica otteniamo energia. Le
forme della trasformazione? Moltissime. Si va dal semplice Carbonio dei
carboni a quello del metano, fino ai composti organici – alifatici ed
aromatici – contenuti negli idrocarburi liquidi.
Quella che chiamiamo “combustione” è la semplice trasformazione del
Carbonio in un altro composto, l’anidride carbonica.
Purtroppo, secoli d’abitudine consolidata hanno creato un concetto che
sembra inattaccabile: brucia qualcosa ed otterrai energia, altrimenti
resterai al freddo.
Qualche
“picconata” a questo concetto l’hanno data il nucleare e
l’idroelettrico: lì non si “brucia” nulla eppure si ricava
energia. L’idroelettrico fu la prima fonte d’energia elettrica, ma
nel volgere di un secolo i consumi aumentarono al punto che oggi la
fonte idroelettrica – nel pianeta – rappresenta pochi punti
percentuale ed è sottoposta a forti rischi di recessione proprio a
causa dei mutamenti climatici.
Molti analisti propongono il nucleare come la vera fonte energetica del
futuro: in parte hanno ragione, ma solo in parte. L’IEA[2]
– per il nucleare – stima che le riserve d’Uranio siano di circa
37 anni agli attuali prezzi e d’altri
Inoltre, ciò
che i sostenitori del nucleare non raccontano è che una centrale
nucleare ha una vita media di 25 anni: trascorso quel periodo, bisogna
provvedere ad una ristrutturazione che ricorda molto una ricostruzione,
con costi (ed emissioni di CO2) non certo trascurabili.
Rimane sempre l’annoso problema delle scorie, sul quale non è nemmeno
il caso di dilungarci.
Infine, di quanta acqua hanno bisogno gli impianti nucleari? Con gli
allarmi lanciati a Parigi sui mutamenti che subirà il ciclo
dell’acqua, ci affidiamo proprio ad essa per la produzione energetica?
Usare l’acqua di mare? Certo, è possibile, ma si dovrebbero costruire
circuiti di raffreddamento più costosi (a causa della corrosione) che
durerebbero senz’altro di meno di quei famosi 25 anni. Sono soluzioni
praticabili, ma sono convenienti?
L’ultima
trovata per continuare a nascondere la testa sotto la sabbia riguarda il
“confinamento” della CO2 che produciamo in vecchie
miniere: addirittura – ad un convegno tenutosi nel 2003 al Politecnico
di Milano – qualcuno prospettò di seppellirla in caverne sotterranee
sotto la superficie dei mari, ad altissime profondità (per sfruttare
l’alta pressione dovuta alla colonna d’acqua). Immaginiamo cosa
significherebbe (e con quali costi!) riempire una caverna sottomarina
sotto
Oggi – proprio in Italia e con il patrocinio, guarda a caso,
dell’ENEL – l’idea torna a farsi avanti: il prof Enzo Boschi,
geologo e direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia (INGV), propone di riempire d’anidride carbonica alcune
vecchie miniere, in Toscana ed in Sardegna.
L’idea
sembra allettante: se produciamo troppa anidride carbonica, il
“sovrappiù” lo stipiamo in vecchie caverne. Trionfalmente, si
dichiara che saranno confinate dalle 3 alle 5.000 tonnellate il giorno
di CO2, come già avviene in Canada.
Sembrerebbe l’uovo di Colombo: fine del problema dell’anidride
assassina del clima? Quelle 4.000 tonnellate il giorno sembrano una
montagna d’inquinanti che sparisce sotto terra: il problema è che una
montagna non è nulla al confronto di un universo.
Quanta CO2 produciamo ogni anno, in Italia, per i consumi
energetici?
Il consumo
totale d’energia del Bel Paese è stimato in circa 190 MTEP – ossia
Milioni di Tonnellate di Petrolio Equivalenti, laddove tutta l’energia
viene quantificata come proveniente dal petrolio, anche se giunge da
altre fonti – delle quali circa l’80% deriva dalla combustione dei
fossili, mentre il resto lo importiamo oppure lo produciamo con
l’idroelettrico e le scarse fonti rinnovabili.
150 milioni di tonnellate di combustibili fossili vengono bruciate ogni
anno: quanta CO2 producono?
Calcolo un
poco approssimativo – perché i combustibili non sono tutti uguali,
perché dipende dalle condizioni di combustione, ecc – ma un rapporto
di 1 : 3 è abbastanza vicino al reale[3].
Qualcuno sarà stupito, ma dobbiamo riflettere che ad ogni atomo di
carbonio che bruciamo si legano due atomi d’Ossigeno, e quindi il
prodotto della reazione (
Questo è il vero cul de sac
del problema: utilizzando questa reazione chimica per la produzione
energetica, “intersechiamo” il ciclo del carbonio naturale (la
produzione di CO2 dovuta alle reazioni naturali, alla
respirazione, ecc ed il suo “consumo” da parte dei vegetali mediante
la fotosintesi) con il ciclo “artificiale” che l’uomo ha creato,
bruciando in un paio di secoli il materiale organico che la biosfera
aveva “accumulato” in milioni di anni.
In altre
parole, per avere sufficiente energia spendiamo tutto lo stipendio e
prosciughiamo rapidamente il conto in banca. La proposta di Boschi
sembra quindi andare nella giusta direzione: se produciamo un eccesso di
CO2, “confinandola” risolveremmo il problema.
Supponiamo ora che l’impianto prospettato da Boschi funzioni
perfettamente per 365 giorni l’anno ad una media di 4.000 tonnellate
il giorno (1.450.000 tonnellate l’anno): siccome la produzione
italiana annua di CO2 causata dalla combustione dei fossili
è di circa 450 milioni di tonnellate, i buoni geologi riuscirebbero a
“confinare” circa lo 0,3% della produzione nazionale di CO2.
Solo Mussolini pensava di risolvere i problemi con il “confino”, e
sappiamo come andò a finire.
Se proprio
volessimo dare una chance all’idea dei geologi, potremmo considerare
che
Dobbiamo però fare anche altre riflessioni: se non riusciamo a
convincere il paese che più inquina – gli USA, che da soli producono
il 40% dei gas serra – le nostre miniere servono a poco. Inoltre:
siamo così certi che basti sottrarre quel piccolo eccesso per riportare
il sistema in equilibrio?
Ragionamenti
del genere possono essere fatti per sistemi chiusi e semplici: se metto
Qualcun altro aveva prospettato
come risolvere il problema e lo aveva dimostrato: si trattava del solito
inventore pazzo? Qualcuno che aveva studiato
Non mi pare
che si possano affibbiare queste categorie al prof. Rubbia, premio Nobel
per
Cosa
proponeva Rubbia?
Da uomo di grande intelligenza qual è (un Nobel…) aveva facilmente
compreso che il problema stava tutto in quella anomala
“intersezione” fra il ciclo naturale del Carbonio e quello
artificiale causato dall’uomo. La soluzione?
Semplice: affidarsi ad un metodo di produzione energetica che esulasse
dal ciclo del carbonio, e stese le linee del suo progetto che prese il
nome di “solare termodinamico”. Un impianto sperimentale doveva
sorgere in Sicilia – presso Priolo – ed agire in sinergia con la
locale centrale termoelettrica dell’ENEL.
Ecco come lo
definì Rubbia stesso in un’intervista a
"Come esperimento pilota i 20
megawatt aggiunti dalle tecnologie solari alla centrale di Priolo non
sono da buttar via: bastano a una città di 20 mila abitanti, consentono
di risparmiare 12.500 tonnellate equivalenti di petrolio l'anno ed
evitano l'emissione di 40.000 tonnellate l'anno d’anidride carbonica.
Il bello è che questo tipo di energia è conveniente: ai prezzi
attuali, l'impianto si ripaga in 6 anni e ne dura 30. Oltretutto, una
volta avviata la produzione di massa, i prezzi di costruzione tenderanno
al dimezzamento".
In cosa
consiste il “solare termodinamico”? Semplificando all’osso, un
fluido circola all’interno di tubi i quali si trovano nel fuoco di
lunghi specchi parabolici: una volta riscaldato ad altissima temperatura
dai raggi solari, mediante uno scambiatore di calore genera vapore che
aziona una turbina, la quale fa ruotare un alternatore che produce
energia elettrica. Quali sono i costi? Sentiamo la risposta di Rubbia.
“Oggi, cioè in fase preindustriale, il
costo complessivo dell'impianto oscilla tra i 100 e i 150 euro a metro
quadrato. E da un metro quadrato si ricava ogni anno un'energia
equivalente a quella di un barile di petrolio. Il che vuol dire che
utilizzando un'area desertica o semidesertica di dieci chilometri
quadrati si ottengono mille megawatt: la stessa energia che si ricava da
un impianto nucleare o a combustibili fossili, ma con costi inferiori e
con una lunga serie di problemi in meno"
Oggi –
nonostante i mille bastoni fra le ruote che ENEL ed ENI lanciano in
continuazione – il progetto viene portato avanti dall’ENEA nel
centro sperimentale della Casaccia: i ricercatori sono giunti a
quantificare anche il costo di produzione di un KW con quel sistema,
circa 6 centesimi di euro[4],
contro i 6 del nucleare ed i 7 del petrolio.
Costi inferiori si hanno soltanto con il carbone (4 centesimi, ai quali
però va aggiunta la cosiddetta “carbon tax” che lo porta a circa 5)
e l’eolico che – negletto e dimenticato – produce un KW a 3-4
centesimi senza produrre un solo grammo di CO2, come il
solare termodinamico.
Sappiamo che
in Italia le aree adatte per l’eolico non sono tante – Liguria,
Sicilia e Sardegna – ma non utilizziamo nemmeno quelle! Noi, invece,
pensiamo che la soluzione sia continuare a bruciare i fossili ed
“acchiappare”
Il problema,
come ricordavo, è quello di un profondo mutamento nella produzione
energetica (se ancora ne abbiamo il tempo!) per contrastare fenomeni che
non sappiamo dove ci condurranno. E’ già troppo tardi? Può darsi: ciò
nonostante, è nostro dovere – per il rispetto che dobbiamo alle
future generazioni – fare tutto ciò che è in nostro potere per
“raddrizzare” la situazione.
La discriminante di chi compie un atto rivoluzionario – in ambito
energetico – è quella fra chi propone di curare il cancro alla radice
(ossia cambiare l’approvvigionamento energetico) e chi consiglia
invece di curare il tumore con i pannicelli caldi, ossia con il
Protocollo di Kyoto (il 5% di riduzione della CO2 in 10 anni,
e che cosa è?) oppure con le idee fantasiose come il “confino”. In
quest’ottica, dobbiamo riconoscere che gli sgravi fiscali concessi in
Finanziaria a chi installa collettori solari per la produzione d’acqua
calda vanno nella giusta direzione, perché diminuiscono la produzione
di gas serra: è poca cosa, ma il 3% dell’energia che utilizziamo
serve soltanto per scaldare l’acqua per uso sanitario.
C’è
abbastanza energia per soddisfare le necessità umane? Secondo Rubbia sì,
e credo che a Rubbia si possa almeno concedere una cambiale in bianco.
La stessa divisione delle energie rinnovabili dell’ENEL – Enelgreenpower – dichiara che le risorse eoliche “disponibili
ed utilizzabili nel mondo sarebbero in grado di fornire una produzione
di circa quattro volte superiore ai totali consumi elettrici mondiali
del 1998. Questo potenziale potrebbe essere ulteriormente accresciuto
dallo sviluppo di installazioni off-shore, collocate al largo delle
coste”. Peccato che Scaroni faccia finta di non saperlo.
Lo stesso
concetto è stato ribadito più volte dal Dipartimento USA dell'Energia
e dall’Università di Stanford: “nei
soli Nord Dakota, Kansas e Texas si potrebbe ricavare con la fonte
eolica l’intero fabbisogno statunitense”.
La fonte solare è ancora più abbondante: se il consumo totale
d’energia del pianeta ammonta a circa 10 miliardi di TEP, il sole ne
invia costantemente e gratuitamente 5.500 miliardi di TEP sulle sole aree
desertiche del pianeta! Riflettiamo un attimo su quanto siamo
miseri: stiamo qui a scannarci per quattro fichi secchi (10 miliardi di
TEP) quando il sole ne invia sui deserti inutilizzati 550 volte tanto!
Non abbiamo
i mezzi per captare l’energia? Non è vero: se il sistema
fotovoltaico è ancora un po’ caro (ma in molte situazioni prezioso)
con il solare termodinamico e l’eolico non avremmo più alcun
problema!
A questo punto prendono forma due distinti problemi, uno tecnico e
l’altro politico, con le ovvie interdipendenze che esistono – e che
i politici fanno finta di non vedere – fra tecnologia e politica.
Per prima
cosa, alcuni politici paventano terremoti finanziari qualora operassimo
queste scelte: gli stati del Golfo Persico ritirerebbero i copiosi
investimenti che da decenni hanno in Occidente.
Bene: per questa ragione non dovremmo più aprir bocca? Dovremo arrivare
alla camera a gas planetaria per soddisfare gli sceicchi del petrolio?
Non sarebbe più intelligente prospettare loro una compartecipazione
alle nuove imprese energetiche, ossia l’installazione di sistemi
solari nei deserti del Medio Oriente? Sono convinto che – dovendo
scegliere fra il rischio di un’Europa coperta di pannelli solari ed
una compartecipazione agli utili – sceglierebbero saggiamente la
seconda strada. Notiamo che questo modello sarebbe una stabilizzazione
per il pianeta, non più soggetto alle guerre petrolifere per un bene
che per i due terzi si trova soltanto sulle rive del Golfo Persico. Non
si desidera “liberalizzare”? “Globalizzare”? Il sole c’è a
Ryad come a Khartoum, a Tripoli come a Lima: cosa c’è di più
“liberalizzante”?
L’aspetto
tecnologico riguarda invece la distribuzione e lo stoccaggio
dell’energia: come tutti sanno, l’energia elettrica non è
immagazzinabile se non in modeste quantità. Qui, entra in gioco
l’Idrogeno.
Se qualcuno ritiene l’Idrogeno il futuro sostituto del metano è fuori
strada: il secondo è un semplice idrocarburo fossile gassoso, mentre il
primo è un gas che deve essere prodotto artificialmente. Per questa
ragione, spesso, l’Idrogeno viene identificato non come una fonte ma
come un “vettore” energetico: entrambi, però, possono essere
immagazzinati.
Le differenze fra i due gas sono però sensibili: l’Idrogeno è molto
reattivo, che tradotto in termini più semplici significa che è molto
corrosivo e che tende ad esplodere se non sottoposto a rigide norme di
sicurezza. Non è quindi una buona idea – quella che talvolta si sente
prospettare – distribuire Idrogeno come nella comune rete del metano:
potremmo attenderci un numero di incidenti domestici dieci volte più
alto di quello attuale, anche aumentando le misure di sicurezza.
La soluzione
è semplicissima: il futuro modello energetico è un sistema
prevalentemente elettrico, dove l’Idrogeno funge soltanto da riserva
energetica, mentre verrebbe distribuita energia elettrica per tutti gli
usi, domestici ed industriali. Ovviamente, tutta la materia fiscale in
campo energetico dovrebbe essere rivista.
Per le auto, apposite stazioni di servizio trasformerebbero l’energia
elettrica in Idrogeno gassoso per riempire i serbatoi a pressione, come
per l’alimentazione a metano. Solo per gli aerei[5]
sarebbe necessario ricorrere alla liquefazione dell’Idrogeno, poiché
nella liquefazione si trasforma in calore il 32% dell’energia immessa:
dove non è necessario farlo, non c’è motivo di crearsi il problema.
Si stanno già sperimentando non solo auto, ma navi e treni che
funzionano con il sistema Idrogeno/cella a combustibile: perché
vogliamo correre degli inutili rischi climatici quando possediamo tutta
la tecnologia per cercare, almeno, di scapolare quei pericoli?
Il passaggio
dall’energia elettrica all’Idrogeno è fattibile, conveniente,
pratico?
Si può produrre Idrogeno mediante l’elettrolisi impiegando energia
elettrica, e riottenere energia elettrica dall’Idrogeno mediante le
celle a combustibile[6].
Quali sono i rendimenti?
Pressappoco del 75% in entrambi i casi, vale a dire che per ogni
trasformazione andrebbe perduto (ma sotto forma di calore, e quindi
potenzialmente recuperabile) un quarto dell’energia primaria.
Non sarebbe una chimera immaginare un sistema di produzione elettrica
affidato al solare termodinamico ed all’eolico – non trascurando
certo altre fonti “no CO2” come l’idroelettrico ed il
geotermico – ed un sistema di stoccaggio nei comuni gasometri, in aree
decentrate, per l’Idrogeno.
Fra
l’altro, un simile metodo avrebbe il consistente vantaggio di produrre
energia elettrica praticamente “on
demand”, ossia senza dover produrre dei surplus (come oggi
avviene) per avere sufficienti riserve nel caso d’improvvisi aumenti
della richiesta. In sostanza, le celle a combustibile sono più
elastiche delle centrali termiche e riescono a variare la produzione in
intervalli di tempo minori: qui ci sarebbero notevoli risparmi.
Qualcuno potrebbe obiettare che con due trasformazioni Idrogeno/energia
elettrica si perderebbe circa il 40% dell’energia primaria, ma
vorremmo ricordare che il più economico motore automobilistico non
supera un rendimento del 40%, così come le centrali termoelettriche,
che sono senza dubbio ben al di sotto di questo valore.
Infine,
all’ENEA stanno già sperimentando come produrre Idrogeno sfruttando
alcune reazioni chimiche e le alte temperature del solare termodinamico,
con un consistente aumento dei rendimenti.
Il sistema Idrogeno/elettrico è dunque – sotto il profilo del
rendimento – se non superiore almeno uguale a quello termoelettrico:
la differenza? Non si produrrebbe CO2 e si risolverebbe
definitivamente il problema energetico, almeno fin quando il nostro
astro deciderà d’inviarci energia. I costi – chiariti da Rubbia per
il solare termodinamico e noti da tempo per l’eolico – sono quelli
della fascia più bassa dei combustibili fossili.
Il problema
italiano è convincere i nostri “dipendenti” ad iniziare a lavorare
seriamente e speditamente sul problema: se vogliamo fare anche qualche
misero conto “di bottega”, potremmo affermare che l’Italia – con
il solare termodinamico – schizzerebbe in pole
position in un settore tecnologico d’avanguardia.
Dopo i cinque anni di Berlusconi – dove non s’è fatto nulla se non
blaterare a vanvera ed inutilmente sul ripristino del nucleare (in
quanti anni? Calpestando il referendum? Arrivandoci poi quando gli altri
l’avranno già superato?) – il governo Prodi ha varato qualche
misura che va nella giusta direzione, ma siamo quasi fuori tempo
massimo: ci vuole un cambiamento rapido e radicale, altrimenti le
dichiarazioni di Chirac (che è persona di destra ma molto seria) non
avrebbero senso. E’ troppo chiedere che facciano una telefonata all’Eliseo
per chiedere spiegazioni? Vogliamo smetterla di sottostare ai desiderata
di Scaroni? Quando faranno partire il primo impianto produttivo con il
solare termodinamico? Quando metteranno mano alle leggi per consentire
ai consorzi di cittadini (con la partecipazione delle banche) di
diventare produttori d’energia con l’eolico?
Siamo nella
condizione di chi sta appiccando il fuoco alla propria casa per
riscaldarsi: la vogliamo fare sì o no questa rivoluzione?
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it