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Il
mito dell’Alzheimer
Tratto
dal libro: “Il mito
dell’Alzheimer”, dottor Peter Whitehouse
Articolo pubblicato da "Effervescienza", inserto della rivista
mensile “Biolcalenda”, ottobre
2011
“Se
inizialmente un’idea non sembra assurda,
non c’è nessuna speranza che si realizzi”
Albert Einstein
La
malattia di Alzheimer ha preso il nome dal medico tedesco Alois
Alzheimer che per primo ne studiò un caso (la signora Auguste D. moglie
dell’impiegato delle ferrovie Carl D.). Ma non è tutto perché
l’uomo che dovrebbe passare alla storia come il vero padre
dell’Alzheimer è il medico psichiatra Emil Kraepelin, direttore della
Reale clinica psichiatrica di Monaco.
Fu proprio Kraepelin che offrì ad Alzheimer l’opportunità di far
parte del suo gruppo a Heidelberg, nominandolo successivamente suo
assistente.
Nel
1910 Emil Kraepelin coniò ufficialmente il termine Alzheimer Krankheit (malattia di Alzheimer).
Creando l’AD, Kraepelin aveva conquistato un territorio diagnostico
molto importante per il suo laboratorio. Secondo alcuni storici nel
consolidare l’esistenza della malattia giocò un ruolo importante la
diatriba tra Kraepelin e Sigmund Freud.
La
teoria di Freud rivoluzionò lo studio delle nevrosi attribuendo i
sintomi delle malattie psichiatriche ai misteriosi lavorii
dell’inconscio, e ipotizzando la cura attraverso la terapia
psicoanalitica. Queste teorie erano in netto contrasto con la concezione
organicistica delle malattie mentali sostenuta da Kraepelin e Alzheimer.
Per loro le malattie avevano una base esclusivamente organica che poteva
essere accertata con mezzo scientifici.
Si
venne così a creare una profonda divisione tra la psichiatria a base
organica e la psichiatria freudiana. Ognuna di queste due correnti
cercava il riconoscimento nell’ambito medico, perché la posta in
gioco era elevata.
La determinazione di Kraepelin a far sì che la malattia di Alzheimer
fosse classificata come patologia organica è appunto il tentativo
strategico di conquistarsi il riconoscimento, oltreché non perdere il
suo orgoglio di scienziato e naturalmente la sua eredità di studioso.
Quando Kraepelin incluse l’AD nel suo testo Psychiatrie,
diede avvio a una storia lunga 100 anni durante la quale, da un singolo
paziente bollato in modo molto approssimativo, siamo arrivati
all’attuale pandemia che coinvolge 25 milioni di persone.
La
malattia di Alzheimer sarebbe potuta rimanere rara e insignificante se,
nella seconda metà del XX secolo nei paesi industrializzati non fosse
aumentata progressivamente l’attesa di vita media. L’invecchiamento
della popolazione, associato alla proliferazione di nuovi strumenti
tecnologici che promettevano di prolungare la vita. Stimolò
l’interesse per la ricerca neurologica e gerontologica.
Nei primi anni Settanta i neuro scienziati, ben consapevoli
dell’enorme interesse dell’invecchiamento, cercarono di ottenere
maggiori finanziamenti.
Il loro lavoro avrebbe dovuto concentrarsi su qualcosa di molto concreto
e attuale, qualcosa di terrificante e incurabile: una malattia che
giustificasse l’impiego di enormi risorse, la malattia del secolo.
L’Alzheimer si adattava in maniera perfetta allo scopo.
Nel
1974 viene fondato il National
Institute on Aging (NIA, Istituto nazionale sull’invecchiamento) e
sotto la guida dello psichiatra clinico Robert Butler, inizia subito a
promuovere l’AD come suo principale ambito di ricerca, consentendo ai
fondi federali di essere convogliati ai ricercatori.
Lo
stesso Butler dichiarò: “decisi
che dovevamo rendere il termine (malattia di Alzheimer) una parola di
uso comune. Sapevo che questo sarebbe stato l’unico modo per far
convergere i diversi settori della ricerca in un unico filone che
diventasse priorità nazionale. Io chiamo questa strategia la politica
sanitaria dell’angoscia”.
Nel 1976 il dottor Robert Katzman in un editoria scrisse che negli Stati
Uniti l’AD si collocava al quarto o quinto posto tra le cause più
frequenti di morte e sollecitò il paese ad investire di più.
Nel 1979 a Washington fu creata l’Alzheimer’s
Disease ad Related Disorder (ADRDA, Associazione per la malattia di
Alzheimer e i disturbi correlati).
Nel 15 settembre 1983 la Camera dei rappresentanti propose il mese di
novembre come Mese Nazionale
dell’Alzheimer.
La
reinterpretazione dell’invecchiamento cerebrale come malattia a sé
stante, e lo stanziamento di enormi quantità di denaro da parte del
governo, produssero un entusiasmo che contagiò i ricercatori e i
familiari dei pazienti affetti d’AD.
Cambiò la dizione, e il termine “senilità” venne soppiantato dal
termine molto più angosciante che non lascia spazio a dubbi:
“malattia di Alzheimer”, il nuovo idioma dell’angoscia!
Nel 1984 1985 il NIA aveva istituito in tutto il paese ben dieci Alzheimer’s
Disease Research centers.
Nel
1979 il NIA aveva speso per la ricerca sull’AD circa 4 miliardi di
dollari; nel 1991 era arrivato a spenderne 155 (37 volte tanto).
Nel 2007 i fondi federali assegnati alla ricerca per la “guerra contro
l’AD” erano lievitati a una cifra sbalorditiva di 643 miliardi di
dollari.
Celebrità a sostegno
La
nascita del nuovo linguaggio popolare intriso di angoscia e terrore fu
amplificato quando vennero coinvolti nella “causa” dell’AD
personaggi molto popolari: gli attori Rita Hayworth, Charles Bronson e
Charlton Heston, il presidente statunitense Ronald Reagan, la Regina dei
Paesi Bassi Giuliana, il Primo ministro britannico Wiston Churchill, il
pugile campione del mondo Sugar Ray Robinson, ecc.
Cos’è l’Alzheimer?
Ufficialmente
la malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer
Disease) è provocata dalla degenerazione del cervello e dalla
perdita di cellule nervose a causa di molteplici fattori, perlopiù
ignoti alla medicina.
E’ una malattia degenerativa e progressiva caratterizzata dalla
perdita irreversibile di cellule cerebrali. Questa degenerazione porta
al rimpicciolimento e all’atrofia di alcune aree del cervello, alla
riduzione di alcuni neurotrasmettitori, in particolare l’acetilcolina.
Gli effetti di questa “patologia” sono: deficit di memoria, una
compromissione della capacità di apprendere, di ragionare, di formulare
giudizi, di riconoscere oggetti, di comunicare; gravi difficoltà nel
compiere attività quotidiane; agitazione, ansia, depressione,
allucinazioni e insonnia.
La demenza
Il
termine oggi molto in voga di “demenza”, deriva dal latino “fuori
di mente” e in passato era utilizzato per identificare i dissidenti e
devianti di ogni tipo, soprattutto donne anziane che venivano accusate
di stregoneria quando manifestavano sintomi di decadimento cognitivo.
Le teorie ufficiali più in voga
Beta-amiloide e grovigli
neurofibrillari
I
ricercatori pensano che i deficit cognitivi dell’AD siano associati
alla presenza nel cervello di alterazioni anatomopatologiche costituite
da due formazioni di natura proteica: le placche di proteine
beta-amiloide (BAP) e i grovigli neurofibrillari (NFTs), che alla fine
distruggerebbero i neuroni a livello cerebrali.
Ma in tutto questo le lacune conoscitive non mancano, per esempio gli
scienziati non capiscono come le beta-amiloide uccida i neuroni; non
sanno se tali placche sono responsabili della degenerazione o dei
semplici marcatori e/o cicatrici di una morte, quindi se sono causa o
effetto di tale degenerazione. La proteine beta-amiloide si accumula in
TUTTI i cervelli man mano che invecchiano, e tale processo può
addirittura iniziare nei ventenni. Risulta pertanto difficile stabilire
quale sia il livello soglia oltre il quale l’accumulo di beta-amiloide
diventa patologico.
Radicali liberi
I
radicali sono atomi o gruppi di atomi che contengono almeno un elettrone
spaiato e quindi sono debolmente legati, instabili e altamente reattivi.
Si accumulano nel cervello provocando nelle cellule un danno e un
deficit che potrebbe contribuire all’AD. Queste molecole reattive si
formano nel corpo durante i normali processi biologici che possono
essere accelerati da agenti esterni come infezioni, fumo di tabacco,
agenti tossici, erbicidi, radiazione solare e inquinanti. I radicali
possono anche danneggiare il DNA.
Infiammazioni
Secondo
questa teoria l’AD è una conseguenza dell’infiammazione cerebrale
che genera metaboliti anomali (piccole molecole prodotte dai processi
metabolici) a partire da normali molecole cerebrali.
Per esempio le citochine, che sono normali proteine del sistema
immunitario, sono prodotti dall’infiammazione tissutale e possono
circolare nel cervello.
Teoria vascolare
Piccoli
infarti isolati in aree strategiche del cervello, oppure l’occlusione
di multipli vasellini sanguigni, possono provocare demenza riducendo
l’apporto di ossigeno al cervello e alterando i circuiti neuronali
coinvolti nei processi decisionali, nella memoria.
Teoria infettiva
Secondo
gli esperti alcuni virus della famiglia dell’herpes possono provocare
demenza, ma solo alcuni studi li hanno messi in relazione con l’AD.
Teoria delle eccitotossine
I
neuroni morirebbero per un eccesso di stimolazione da parte di
neurotrasmettitori aminoacidi eccitatori (eccitotossine). Dato che il
glutammato e altri neurotrasmettitori eccitatori normalmente inducono la
scarica elettrica dei neuroni, se sono presenti in eccesso, possono
portare i neuroni a scaricare (ed eccitarsi) fino alla morte.
La teoria del diabete
Disturbi
del metabolismo del glucosio erano stati descritti nella malattia di
Alzheimer già da decenni, e gli scienziati avevano ipotizzato che in un
soggetto diabetico o il cervello manca di sufficiente glucosio per
funzionare correttamente o lo zucchero presente in eccesso nel sangue
produce un danno vascolare che compromette l’irrorazione dei neuroni.
Studi epidemiologici indicavano che le persone affette da AD avevano più
frequentemente un diabete concomitante.
Il mito dell’Alzheimer
La
malattia di Alzheimer (AD) è un mito creato dalla nostra cultura nel
tentativo di fornire un senso a un processo naturale, l’invecchiamento
cerebrale, che non possiamo controllare.
Quello che non viene detto alla popolazione è che la cosiddetta
“malattia di Alzheimer” (AD) NON può essere differenziata dal
normale processo di invecchiamento e che la patologia NON ha mai lo
stesso decorso.
Sembra che ogni anno sempre più persone cadano vittime dell’AD.
Quotidiani e riviste vorrebbero farci credere che la AD si sta
diffondendo nella popolazione a ritmo pandemico.
Naturalmente quello che non viene detto è che non sappiamo come
diagnosticare la AD, figuratevi se siamo in grado di stilare il bilancio
delle vittime.
Dato che non vi è un singolo profilo biologico dell’AD, ogni diagnosi
clinica viene ritenuta “probabile”, e neppure l’esame autoptico è
in grado di differenziare la vittima della cosiddetta AD dai soggetti
che sono invecchiati normalmente! Questo è il motivo per cui anche
l’esame neuropatologico ha perso nel corso degli ultimi anni un po’
del suo smalto e della sua affidabilità.
“A
nessuno ‘viene’ una ben definita malattia chiamata Alzheimer, e non
ci sono evidenze che l’AD si stia diffondendo nella popolazione”,
parola del dottor Peter J. Whitehouse, neurologo americano, uno dei
massimi esperti mondiali proprio di Alzheimer.
Ma
se l’AD non può essere differenziato dal normale invecchiamento
cerebrale, per curare l’AD dovremmo di fatto arrestare il naturale
processo di invecchiamento cerebrale.
La promessa di una panacea per una delle malattie più temute
costituisce un potente mito culturale della civiltà contemporanea.
Dopo 30 anni di ricerca e decine di miliardi di dollari spesi non
abbiamo nessuna cura e i costosi test genetici e gli strumenti di
neuroimaging ci fanno sprofondare nella confusione anziché avvicinarci
alla scoperta di una cura.
Il focalizzarsi sugli approcci biologici all’invecchiamento cerebrale
ha sovvertito completamente le dinamiche di approccio al problema AD
all’interno della nostra società: dall’assistenza al paziente
anziano e alla sua famiglia siamo passati all’utilizzo dei farmaci
come principale mezzo per assicurare una buona qualità della vita.
Ritengo
che il mito dell’AD ci stia portando a sprecare risorse enormi nella
ricerca di una formula magica che risolverà il problema
dell’invecchiamento cerebrale: stiamo privilegiando la terapia
piuttosto che l’assistenza e la prevenzione.
L’infatuazione della tecnologia ci fa dimenticare di attuare semplici
misure preventive per proteggere il nostro cervello dal decadimento
cognitivo, come indossare un casco quando andiamo in bicicletta,
mangiare sano, fare attività fisica, assicurarci acqua potabile
pubblica priva di piombo, arsenico, metilmercurio e policlorobifenili
(PCB).
Spese per la società
Attualmente
sembra che nel mondo 25 milioni di persone siano affette da Alzheimer
con costi enormi per la società: 240 miliardi di dollari all’anno.
Si stima che nel 2030 circa un quinto della popolazione americana (70
milioni di soggetti) avrà 65 anni o più con una aspettativa di vita
media di circa 77.5 anni per gli uomini e 83 per le donne. Mentre nel
2040 ci saranno 40 milioni di persone oltre gli 85 anni.
In base alle proiezioni statistiche nel 2050 il numero di americani ai
quali verrà diagnosticato l’Alzheimer raggiungerà i 14 milioni con
un costo di oltre 300 miliardi di dollari all’anno.
L’associazione
Alzheimer’s Disease
International (ADI) ha stimato che nel mondo il numero di persone
affette da AD supererà gli 80 milioni!
Attenti alle parole
Da
un punto di vista neurologico la parola “Alzheimer” ha un effetto
devastante sul cervello delle persone che la sentono nominare. Tale
parola innesca determinati circuiti neuronali che danno accesso al
nostro lessico interiore di parole e significati. Parole con forte
carica emotiva agiscono in modo potente sul cervello e possono indurre
alterazioni fisiologiche, come il rilascio di ormoni dello stress che
potrebbero danneggiare i neuroni stessi.
Quindi una diagnosi frettolosa e avventata può indurre serie
problematiche. C’è differenza tra dire a una persona che il suo
cervello sta invecchiando e aiutarlo a far parte della sua comunità e
dirgli invece che è affetta da una malattia degenerativa cerebrale
progressiva chiamata Alzheimer e applicargli una etichetta che potrebbe
emarginarlo.
Le etichette socialmente stigmatizzanti spesso prolungano ed esacerbano
la malattia stessa.
“Siamo ciò
che pensiamo. Tutto ciò che siamo prende origine dai nostri pensieri.
Con i nostri pensieri fabbrichiamo il mondo”
Buddha
Alcuni miti da sfatare
L’AD è una malattia del
cervello?
L’Alzheimer
NON è una malattia cerebrale specifica! Non può essere diagnosticata
in modo certo durante la vita o dopo la morte, né possiede una
caratteristica patologica di base che lo possa definire.
Il termine “malattia di Alzheimer” applicato all’invecchiamento
cerebrale è una definizione impropria che militarizza l’approccio
medico al problema e porta a svilire ed emarginare quello con questa
“malattia”.
Un inquadramento più umanistico ed ecologico dell’invecchiamento
cerebrale riconosce le insidie e le sfide dell’età avanzata e ci
permette nel contempo di evitare lo stigma della malattia mentale.
Quando pensiamo all’AD come a una malattia molecolare dell’età
senile guardiamo solo alle pozzanghere dell’invecchiamento cognitivo e
ignoriamo il temporale che si verifica per tutto l’arco della vita.
E’ più corretto considerare l’invecchiamento cerebrale dal punto di
vista olistico, come un processo che si sviluppa dal grembo alla tomba.
Il potere di questo mito comincerà a diminuire quando ciascuno di noi
inizierà a modificare il linguaggio con cui parla di invecchiamento
cerebrale.
L’AD devasta il cervello?
La
concezione militarista ci porta a considerare l’invecchiamento
cerebrale come una malattia specifica che devasta la mente, il che è
una falsità sotto il profilo scientifico.
Una diagnosi di decadimento cognitivo può diventare per chi la riceve
un’opportunità per apprendere, crescere e ridersi disponibili agli
altri, piuttosto che una condanna pubblica.
In quest’ottica la sofferenza può costituire un’opportunità per
una trasformazione personale.
L’AD porta a una perdita di
sé?
Tutti
noi cambiamo continuamente durante l’arco della vita e gli stadi più
avanzati dell’invecchiamento cerebrale sono parte questo continuum.
Man mano che le relazioni evolvono a causa della perdita di memoria,
queste possono potenzialmente diventare più ricche e profonde anziché
più povere e superficiali.
Combattere una guerra contro
l’AD?
Non
siamo in guerra con il nostro cervello che invecchia ed è pericoloso e
ingannevole pensare che vi sia una soluzione rapida dietro l’angolo.
Importante è spogliare il mito dell’AD delle sue metafore di
antagonismo e fare del nostro meglio per accettare pienamente la nostra
mortalità.
Gli esseri umani e il loro cervello che invecchia non sono in guerra: le
persone “dementi” non appartengono a una specie diversa.
Le metafore belliche esercitano un potere sulla psiche umana: instillano
un senso di paura e urgenza che sollecita provvedimenti rapidi. Inoltre
danno carta bianca a chiunque dichiari guerra!
“La
guerra non è fatta per essere vinta.
E’
fatta per non finire mai”
“1984”, George Orwell
L’AD è una morte lenta?
L’invecchiamento
cerebrale cambia le persone ma non le cancella dalla società. Di fatto
le persone affette da demenza possono ancora dare un contributo alle
comunità cui appartengono.
Adottando un nuovo linguaggio sull’invecchiamento cerebrale possiamo
superare il mito dominante dell’Alzheimer e modificare la nostra
concezione del sé e del corpo in maniera più onesta e umana.
La paura dell’Alzheimer
Molte
persone anziane vanno dal medico nutrendo per la loro perdita di memoria
sentimenti di paura, terrore e angoscia generati dal mito di massa della
malattia di Alzheimer. Questo terrone preconcetto è troppo spesso
alimentato dai medici e il modo in cui la diagnosi viene comunicata può
risultare una esperienza devastante per il paziente e la sua famiglia.
La diagnosi rappresenta una etichetta che porta con sé una serie di
convinzioni, atteggiamenti, significati culturali e inesattezza
scientifiche; un’etichetta che implica prospettive terapeutiche
limitate e influenza negativamente le aspettative di una persona nella
fase finale della propria vita.
I limiti della scienza
Non
sappiamo veramente come funziona il cervello, come vengono prodotti i
pensieri. La nostra fissazione per la ricerca biomedica ci porta a
codificare l’AD in termini puramente meccanici e molecolari, molto
riduttivi e limitanti.
Le condizioni che entrano in diagnosi
differenziate
Depressione
Questa
situazione produce un rallentamento psicomotorio e può rendere labile
la memoria. La depressione inoltre provoca una disfunzione dei lobi
frontali, una riduzione volumetrica dell’ippocampo e un danno alle
strutture nervose a livello subcorticale, incrementando il numero delle
placche amiloidi e dei grovigli neuro fibrillari nel cervello.
Ipotiroidismo
La
tiroide regola tutti i processi metabolici e una sua disfunzione può
avere ripercussioni in tutto l’organismo. Gli ormoni tiroidei possono
influenzare la funzione dell’ippocampo e una loro diminuzione causare
torpore mentale, perdita di memoria, depressione e ansia.
Epilessia
Farmaci
contro l’epilessia possono provocare un rallentamento psicomotorio e
deficit di memoria.
Carenza di calcio
Il
calcio serve a mantenere l’eccitabilità della membrana neuronale che
consente la trasmissione degli stimoli elettrici tra i neuroni. Una
carenza di calcio può produrre un malfunzionamento neuronale.
Alcolismo
Nel
cervello degli alcolisti si osservano alterazioni strutturali e
funzionali come nell’AD.
Cosa possiamo fare?
Invece
di imbottire gli anziani di neurolettici, antidepressivi dobbiamo
cominciare a integrare le cure con nuove forme di terapia di tipo
umanistico: terapia narrativa, arte terapia, pet-therapy e altre che
favoriscono il contatto con altri essere umani.
Tenere in attività il cervello significa anche evitare tutto quello che
lo atrofizza e lo rende apatico come la televisione (Use
it or lose it, Usa il cervello se non vuoi perderlo).
La lettura di libri, risolvere i cruciverba, come pure impegnarsi in
qualche attività (teatro, ecc,), fare volontariato, è molto importante
per il mantenimento elastico del cervello.
Le
ultime scoperte dimostrano che il cervello degli anziani è ancora in
grado di generare alcuni tipi di cellule e di stabilire nuove
connessioni, soprattutto nell’ippocampo.
La maggior complessità dell’ambiente stimola la formazione di nuove
cellule nervose, quindi continuiamo ad apprendere per tutto l’arco
della vita.
Un
valido aiuto dalle metodiche complementari può arrivare
dall’omeopatia, agopuntura, tecniche di rilassamento come yoga,
meditazione e soprattutto il Tai-chi che non richiede movimenti
difficili ma lenti e armonici.
E’ bene ricordare che la nostra dieta abituale costituisce uno dei più
importanti fattori di rischio modificabili per la demenza.
“Un uomo può
reputarsi felice se il suo cibo è anche la sua medicina”
Henry david Thoreau
Ridurre il consumo di grassi
saturi
Le
ricerche epidemiologiche hanno dimostrato che gli elementi chiave per
proteggere la salute cognitiva e il cervello in generale è una dieta a
basso contenuto di grassi saturi animali (carni, uova, formaggi). Diete
ricche di grassi e povere di frutta e verdura sono associate a patologie
vascolari, processi infiammatori, produzione di radicali liberi, poco
apporto di sangue e ossigeno al cervello à neurodegenerazione!
Aumentare il consumo di frutta
e verdura fresca di stagione
La
frutta e verdure contiene vitamine, minerali organici, enzimi,
antiossidanti, acidi grassi fibra e ormoni.
Aumentare il consumo di
Omega-3
Il
cervello è composto per il 50% da grassi e gli acidi grassi essenziali
come gli Omega-3 costituiscono il 30% della membrana dei neuroni,
assicurando la fluidità e la permeabilità. Le giunzioni sinaitiche
sono formate per il 60% da Acidi grassi Omega-3.
Gli acidi grassi sono neuro protettivi anche a livello vascolare,
aumentano l’elasticità dei vasi sanguigni, diminuiscono la viscosità
del sangue e riducono i livelli ematici dei lipidi.
Oggi nella dieta umana il livello Acidi Grassi idrogenati, degli Omega-6
(pro infiammatori) surclassa quello degli Omega-3.
Gli Omega-3 si trovano: semi di lino, lattuga romana, cavolo, semi di
senape, chiodo di garofano, noci, mandorle, pistacchi, anacardi, pinoli,
pesce, cavolfiore, zucca, spinaci, cavolo cappuccio, verza e fragole.
Curcuma
Gli
effetti neuro protettivi del curry sono attribuiti alla curcumina che è
un polifenolo dalle potentissime proprietà antiossidanti,
antinfiammatorie.
Ginko Biloba
Sembra
esercitare un effetto positivo sulle funzioni cognitive e sulla memoria
promuovendo l’apporto di sangue al cervello.
Attività fisica
Il
nostro corpo è strutturato per il movimento. L’attività fisica fa
bene al cervello quanto al corpo. Aumenta il flusso sanguigno cerebrale
e protegge i circuiti neuronali.
Negli anziani una buona forma fisica è associata a bassa incidenza di
mortalità, ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari, diabete,
depressione e disabilità.
Nelle donne che praticano un’attività fisica intensa il rischio di AD
si riduce del 60%
“Abbi
cura di apprendere la filosofia
perché
in essa è racchiusa la conoscenza dell’uomo, il soggetto primo della
medicina”
Codice di condotta per i medici che studiavano
a Oxford e Cambridge nel Medioevo