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“Miseria umana della pubblicità: Il nostro stile di vita sta uccidendo il
mondo”
A cura del
Gruppo MARCUSE, Elèuthera, 144 pp.,
€ 12,00
Link originale http://www.informationguerrilla.org/miseria-umana-della-pubblicita-il-nostro-stile-di-vita-sta-uccidendo-il-mondo
Il sistema pubblicitario nella società industriale
La pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere
qualsiasi cosa a chiunque e con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è
il marketing nella sua dimensione comunicazionale. Passando attraverso
la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione».
La critica alla pubblicità si estende quindi alla critica contro il
marketing e contro la comunicazione: questi tre flagelli compongono
insieme il sistema pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato
dal capitalismo industriale, che finanzia i media di massa di cui
orienta il contenuto. Il problema perciò non si riduce
all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione
mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la
pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario,
ovvero di quell’oceano glaciale nel quale si sviluppa ed espande la
società consumista con la sua crescita devastante. E se siamo contro
tale sistema e tale società, è perché il nostro stile di vita sta
uccidendo il mondo.
L’effetto principale della pubblicità è la propagazione
del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita riposa
sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento crescente delle
persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che consumiamo comporta
meno risorse e più scarti, più nocività e più lavoro depauperante.
Il consumismo porta così alla devastazione del mondo, alla sua
trasformazione in deserto materiale e spirituale: un ambiente dove sarà
sempre più difficile vivere e sopravvivere in modo umano. In questo
deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e morale. Gli
immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la
solidarietà si decompone, le competenze personali diminuiscono,
l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.
La miseria umana della pubblicità è, dunque, sia questa
vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente, sia la miseria
degli ambienti pubblicitari stessi, che illustrano in modo caricaturale
l’impoverimento morale di cui soffre la società mercantile. Per
questo motivo citeremo abbondantemente i discorsi di vari pubblicitari.
Il cinismo - di cui alcuni menano vanto - fa parte a tal punto del loro
«folclore professionale» che, ad esempio, nessuno osa contestare la
descrizione romanzesca che ne fa Frédéric Beigbeder. Secondo François
Biehler, pubblicitario sempre in servizio, essa è «rigorosamente
esatta». Come può giustificare la sua professione, allora?
«La pubblicità serve anche a rilanciare i consumi». I
pubblicitari stessi non negano che ciò implica una buona parte di
manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare
qualcosa che non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare
inutilmente merce futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine
giustifica i mezzi. Biehler deve quindi ritenere tollerabile questa
manipolazione, in quanto si compie in nome di un fine eminentemente
consensuale: «Rilanciare i consumi e far funzionare l’economia, il
che, a priori, non è condannabile».
Ecco che si tocca l’assioma che viene sotteso nella
schiacciante maggioranza dei discorsi sulla pubblicità: è bene, anzi
necessario, stimolare
La pubblicità è indissolubilmente legata alla
devastazione del mondo, di cui è uno dei motori. Essa vi contribuisce
doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale, favorisce
lo sviluppo di un’economia devastatrice; e dissimulandone le
conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si
vuole evitare il peggio. Essa deve dunque essere oggetto di una critica
radicale, cioè di un’analisi che risalga fino alle sue radici. Solo
coloro che identificano saggezza e acquiescenza, spirito critico e
consenso mediatico, possono accontentarsi della denuncia dei suoi
eccessi più flagranti.
Ma soltanto risalendo alle radici si potrà comprendere la ragione dei
suoi abusi così ordinari, in particolare dell’estrema violenza che fa
subire alle donne. Ma nessuno ne esce indenne, come mostrerà questo
manifesto contro la pubblicità e contro «la vita che vi si rispecchia».
Capitolo 6 - LE RELAZIONI PERICOLOSE
La storia insegna che ciò che può spezzare vecchie catene
spesso forgia nuove schiavitù. L’industria avrebbe potuto
risparmiarci i lavori più penosi, ma di fatto ci ha asservito a un
lavoro senza tregua. La pubblicità ha giocato un ruolo di catalizzatore
in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia di consumare,
ci ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva fosse al
nostro servizio. Al tempo stesso, tuttavia, essa non ha fatto altro che
rivelare, aggravandoli, i pericoli inerenti a questo modo di produzione.
La propaganda industriale non poteva limitarsi alle merci classiche e
rispettare l’indipendenza di quelle tre sfere fondamentali e vitali
che simboleggiano ciò che di positivo si è inventata la modernità: il
giornalismo, la democrazia e la medicina. Non meraviglia che essa ne
abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è
riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale.
Grazie alla sua azione, i media sono diventati macchine per far
spendere, invece di diffondere il libero pensiero. Con l’avvento del
mondo della comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica e svuotato
la democrazia della sua sostanza. Infine, impadronendosi della
farmacopea, ha trasformato la medicina in sistema patogeno. Ma la
pubblicità non avrebbe potuto fare il suo abituale lavoro di becchino
se tali istituzioni non avessero già mostrato delle falle: di fatto,
essa ha semplicemente catalizzato le insufficienze di cui soffrono gli
ambiti che essa travolge con tanta facilità.
L’indipendenza illusoria dei media
Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano
finanziati dai loro lettori e redattori, in quanto non si trattava di
ricavarne un profitto, ma di formare un contropotere di fronte
all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la
pratica che fonda la stampa di massa moderna: introduce degli annunci a
pagamento alla fine del giornale allo scopo di diminuirne il prezzo di
vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di
attrarre più pubblicità e così via. Questa pratica si è
generalizzata e oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50%
dalla pubblicità, mentre alcuni vivono esclusivamente di pubblicità,
come quei giornali «gratuiti» la cui funzione è esclusivamente di
diffonderla presso un pubblico più vasto.
Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per questa «associazione
a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner dominante »,
in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitizzare» lo
spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di supporti pubblicitari. La
simbiosi è ancora più marcata nelle riviste, trasformate in negozi
virtuali che permettono di fare lo shopping restando seduti; appare
incontenibile nelle riviste aziendali distribuite alla clientela (da
parte di società ferroviarie, linee aeree, ecc.); e diventa infine
caricaturale nei magalogues, espressione di Naomi Klein derivata dalla
fusione dei termini magazine (rivista) e catalogue (catalogo), cui la
scrittrice ricorre per definire quelle «fanzines» con cui le grandi
marche americane vendono i loro «stili di vita» ai propri «fan». Nel
2004 Leroy Merlin fa uscire il suo Du côté de chez vous, abbinato
all’omonimo programma televisivo su TF1. È l’apoteosi di una
sinergia industrial-mediatica particolarmente pericolosa per quanto
riguarda l’informazione.
La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta
mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari mantengono la
confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli
articoli giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina
(stretto equivalente della propaganda nera che opera falsificando le
fonti), la legge ha imposto che le pubblicità vengano presentate come
tali; tuttavia esse continuano a camuffarsi nella forma di «dossier
pubblicitari», di «supplementi omaggio», di «tavole rotonde», ecc.
Ma se la pubblicità scimmiotta l’informazione, l’informazione non
si tira certo indietro. Alcuni sedicenti «giornalisti» accettano
bustarelle per moltiplicare nei loro articoli i riferimenti a quelle
marche che vogliono accrescere la propria notorietà; altri praticano il
«reportage pubblicitario» o il «giornalismo promozionale»: ibridi
linguistici che oscurano la frontiera tra gli spazi promozionali e
quelli redazionali. Il giornalismo diviene così un business come tutti
gli altri, tanto che alcune redazioni si rivolgono ai consulenti di
marketing per determinare le aspettative dei «consumatori
d’informazione».
Inevitabilmente la politica viene considerata come meno
fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo e su altri «temi
sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment,
l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in inglese
entertainment) piuttosto che istruire. Queste tendenze sono
particolarmente marcate nella televisione.
Tramite la mediazione dei consulenti pubblicitari, gli inserzionisti
organizzano, almeno in parte, i palinsesti della programmazione: più
una trasmissione è seguita, più attira pubblicità e quindi denaro;
viceversa, le trasmissioni meno adescatrici vengono relegate a orari
impossibili. Gli inserzionisti influenzano anche i contenuti, rifiutando
che i loro spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni
negative, nel timore che queste ultime facciano impallidire i loro
prodotti.
Quanto alla carta stampata, gli inserzionisti impongono che
gli annunci non siano inseriti in contesti che contengano critiche
dirette alla marca o a ciò che le viene associato: il Paese
d’origine, quello di produzione, ecc. La pubblicità rafforza così il
monopolio di fatto che tende ad avere sull’«informazione» in materia
di prodotti. In questo caso i protagonisti sono i consulenti
pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e redazioni) e,
ancor più, le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai «piani
mediatici» (con i quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati
per raggiungere l’obiettivo prefissato, organizzando poi il
bombardamento), sono infatti loro che possono influenzare e ricattare le
redazioni, minacciando di tagliare i viveri. Il loro potere di pressione
è ancora più elevato per il fatto che questo settore è estremamente
concentrato: in Francia cinque agenzie centrali hanno «il controllo di
quattro quinti del volume totale». Poiché la pluralità degli
inserzionisti, ritenuta garante della libertà di stampa, è un aspetto
in effetti secondario e illusorio, l’argomento classico in favore
della pubblicità dev’essere rimesso in discussione.
Fieri di ricevere finanziamenti per la loro missione, che
è quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi
giornalisti rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La
pubblicità, strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante
dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai poteri
politici. Ma tale finanziamento comporta un’altra dipendenza: quella
dalle potenze economiche. E se parrebbe logico, nel caso di un giornale
finanziato dallo Stato, che il giornalista si trattenesse dallo sputare
nel piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero andare diversamente
quando il piatto lo fornisce il capitale?
Circa mezzo secolo fa, il fondatore di «Le Monde» faceva questa
dichiarazione: «Mi sembra pericoloso che la vita del giornale sia
assicurata per una porzione eccessiva dalla pubblicità, perché ciò lo
pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento da parte dei soli
lettori è infatti l’unica garanzia di una completa indipendenza
redazionale. È appunto per questa ragione che un giornale come «Le
Canard enchaîné» rifiuta la manna pubblicitaria; non meraviglia
dunque che sia il solo giornale che informa il pubblico sull’influenza
nociva di quest’ultima all’interno dei media.
La giornalista Florence Amalou spiega bene come la
pubblicità possa diventare un mezzo di pressione, o meglio di
repressione, nelle mani degli inserzionisti intenzionati a influenzare
una linea editoriale: rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate in
seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che
si smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato,
giornalisti licenziati o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie,
«limatura» o mutilazione dei loro articoli, che possono anche essere
corretti o direttamente cestinati. Altre tecniche sono più dolci e
sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni
privilegiate con i vertici. Insieme al bastone, quelli che vogliono
crearsi un «terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la
carota della «lubrificazione pubblicitaria»; una volta interiorizzate,
queste pressioni portano a un’autocensura che gli stessi giornalisti
non negano.
Ovviamente queste pratiche sono possibili solo da parte dei
grandi inserzionisti, cosa che mette fortemente in discussione
l’affidabilità dell’informazione che li concerne. E quanto più la
stampa permane in una posizione di fragilità finanziaria, tanto più la
pubblicità può comprarne il silenzio e la compiacenza. Più un
inserzionista fa pubblicità, più le redazioni gli accordano un
trattamento di favore. Così, Jean-Marie Messier, l’ex monarca di
Vivendi Universal, è stato servilmente corteggiato dai media quando era
al culmine della sua breve carriera: prime pagine, interviste all’«uomo
dell’avvenire» e ritratti elogiativi si sono moltiplicati nel periodo
in cui era uno dei principali inserzionisti in Francia.
La dipendenza della maggior parte dei giornali nei confronti degli
inserzionisti è ancora più problematica per il fatto che sono le
marche, e non i politici, a essere oggi giuridicamente intoccabili. Le
grandi imprese sono infatti le potenze politiche più nocive in
assoluto, nel senso che sono loro a trasformare il mondo. Le decisioni
che modificano o rischiano di modificare in profondità la vita
quotidiana (OGM, nanotecnologie, flessibilità, ecc.) non vengono prese
in seno ad assemblee nazionali, ma a monte, vale a dire nei consigli di
amministrazione e nei laboratori tecnico-scientifici; le istanze
politiche tradizionali avranno tutt’al più il compito di far ingoiare
la pillola.
Beninteso, ci sono notevoli differenze tra i media e perciò
diversi gradi di vassallaggio, ma guardiamoci bene dal credere che la
pubblicità sopraggiunga a pervertirli dall’esterno.
L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna
pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per
rivolgersi alle masse. Ma soprattutto c’è una profonda analogia nel
loro modo, pur problematico, di trasmettere i propri messaggi a masse di
destinatari anonimi e atomizzati. E in effetti, più siamo connessi ai
media in modo verticale e impersonale, meno siamo legati tra noi in modo
orizzontale e personale. Un’atomizzazione che accresce la nostra
dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass media, che
sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi
d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più
favoriscono la concentrazione oligarchica della parola pubblica,
conferendo un immenso potere di disinformazione a coloro che la
detengono. Offrendo «pane e giochi circensi», gli imperi
mediaticoindustriali minacciano la democrazia: la situazione
dell’Italia berlusconiana non fa altro che manifestare in modo
particolarmente acuto la norma che predomina ovunque. Il verme è nella
mela. Se la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire,
come ci invita a fare Christopher Lasch, le insufficienze
dell’informazione stessa:
Ciò che la democrazia esige, è un dibattito pubblico vigoroso, non
informazione. Certo, essa ha anche bisogno di informazione, ma il tipo
di informazione di cui ha bisogno può essere prodotto solo attraverso
il dibattito. Non sappiamo quali cose abbiamo bisogno di sapere finché
non abbiamo posto le domande giuste [.]. Quando ci impegniamo in
discussioni che catturano interamente la nostra attenzione e la
focalizzano, ci trasformiamo in avidi ricercatori d’informazione
pertinente. Altrimenti assorbiamo passivamente l’informazione, ammesso
che lo facciamo.
La comunicazione all’assalto della democrazia
Siamo giunti alla questione politica, e anche qui è la
pubblicità che ha aperto dei varchi. La distinzione che, malgrado
l’identità dei loro metodi, sussisteva tra pubblicità e propaganda
si è andata sbiadendo. Due cose le differenziavano: innanzi tutto il
loro ambito di applicazione (commercio/politica); poi il fatto che la
pubblicità costituiva una professione autonoma (in quanto le imprese
affidavano la loro pubblicità ad agenzie esterne), mentre la propaganda
veniva fatta dai politici e dai militanti stessi. Al giorno d’oggi, i
pubblicitari fanno «marketing politico» o «elettorale» e
s’incaricano della propaganda dei partiti. La confusione delle
categorie è giunta a un punto tale che i messaggi di propaganda
politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla menzione «pubblicità»,
mentre quelli della propaganda commerciale lo sono dall’indicazione «comunicato»,
normalmente riservata alle istituzioni pubbliche.
Negli anni Ottanta i pubblicitari si compiacevano nel
constatare che «la politica è entrata in pubblicità e viceversa». Le
prospettive di arricchimento per la vita civica appaiono esaltanti: «In
una società fondata sul consumo di massa quasi obbligatorio tutto si
vende, e di frequente per ragioni molto lontane da quelle che sono le
qualità intrinseche: dall’uomo politico alla saponetta…». Per i
nostri strilloni della democrazia adulterata, «l’atto elettorale è
un atto di consumo come un altro».
Questa prospettiva, che vede la politica passare dal dominio della
convinzione a quello della seduzione, non incanta più di tanto i
cittadini, tanto che in Francia vengono votate alcune leggi in materia.
La pubblicità politica è così bandita da televisioni e radio, e poi,
nel 1990, anche dalle affissioni murali. Immediatamente, la «comunicazione»
si sostituisce alla pubblicità, troppo chiassosa. La furbata è ben
evidente: «comunicare» suona meno unilaterale. Ed è certamente molto
più insidioso. Come spiega un «comunicatore», «il consiglio in
comunicazione non si esprime necessariamente sotto forma pubblicitaria e
non è per forza di cose vistoso». La comunicazione è discreta, ma si
tratta sempre di «influenzare le attitudini e i comportamenti dei
diversi tipi di pubblico». Jean-Pierre Raffarin, ex pubblicitario
divenuto primo ministro, incarna questa convinzione: «La comunicazione
pubblicitaria è divenuta per molti la soluzione a tutti i gravi
problemi della società». Tutto sarà sistemato d’ora in avanti a
colpi di comunicazione, modalità in grado di «gestire» i conflitti
sociali, di render possibile il «management» dell’opinione pubblica.
Governare vuol dire apparire. I consulenti in materia di
comunicazione applicano ora tecniche che si sono provate efficaci nel
campo del commercio. Così vengono organizzate «riunioni Tupperware»
per insegnare a piccoli gruppi di politici la demagogia del sorriso su
misura; si ricorre al telemarketing, o alla pubblicità postale, per
fare due chiacchiere con i cittadini; se poi ai politici è vietato
comparire nei jingles pubblicitari delle catene televisive e
radiofoniche, non per questo essi hanno perduto ogni speranza di
ficcarcisi in qualche modo. Il ruolo di comunicatore assume qui tutta
l’ampiezza possibile. Si negoziano interventi in trasmissioni valutate
in anticipo sulla base della loro capacità di veicolare il messaggio.
Essendo il tempo per parlare limitato, ci si applica per renderlo
altamente redditizio ricorrendo alle regole pubblicitarie: per «vendere
un’idea» bisogna a) esprimere una promessa e una soltanto, che sia b)
confacente al target, c) semplice, d) credibile, e) durevole,
declinabile, f) opportunista. Il che spiega perché le campagne si
concentrino solo su pochi temi e il discorso sia ridotto a slogan.
Sotto la pressione dell’Auditel, le trasmissioni
politiche si fanno più rare; i comunicatori devono allora far passare i
loro clienti in altre trasmissioni, naturalmente di intrattenimento.
Niente viene più escluso per far parlare di sé, migliorare la propria
«immagine» e imprimerla nella testa degli spettatori. Quando poi, come
di norma accade, i partiti di governo standardizzano i propri programmi
per impadronirsi del «centro», tutto si gioca in termini di «personalità»
dei candidati, l’equivalente dell’«immagine di marca», e non si
parla più di politica, ma delle mogli, dei bambini, degli hobbies.
Questo degrado della vita politica raggiunge l’apice in Paesi dominati
da giunte violente che ricorrono spesso e volentieri ai servizi delle
agenzie di «relazioni pubbliche» occidentali, per raffinare la loro «comunicazione»
interna ed esterna o per scegliere la marionetta che avrà le migliori
possibilità di «sedurre» le masse locali. Il Guatemala è tra quelli
che ne hanno fatto le spese: il fondatore dell’industria di public
relations ha mobilitato l’opinione pubblica americana per preparare il
rovesciamento, a opera delle élite locali e della CIA, del suo
presidente democratico, che aveva osato proporre una riforma agraria in
questa repubblica delle banane della United Fruit.
Per quanto i media abbiano in seguito riconosciuto di
essersi lasciati trasformare in altoparlanti delle fucine di propaganda
alleate, le operazioni d’intossicazione si sono poi moltiplicate. Al
fine di giustificare l’intervento della NATO, le agenzie di relazioni
pubbliche si sono sfiancate per «far coincidere serbi e nazisti»,
alimentando così le campagne di disinformazione sull’esistenza di un
genocidio in Kosovo. E i media, gli intellettuali e le opinioni
pubbliche si sono lasciati beffare. In seguito, il Tribunale penale
internazionale dell’Aja ha trovato solo 2.108 corpi e nessuna fossa
comune: il famoso «Piano Ferro di cavallo» sarebbe un’invenzione dei
servizi segreti occidentali, e peraltro l’abbietto Milosevic? è stato
perseguito esclusivamente per crimini di guerra. L’Office of Global
Communication anglo-americano ha svolto bene il suo lavoro anche durante
la seconda guerra in Iraq: se le frottole sulle armi di distruzione di
massa non hanno attecchito più di tanto in Europa, il bluff dello
smontaggio della statua di Saddam (organizzato in anticipo dalla
coalizione e dai media) ha comunque procurato un effetto istantaneo di
giustificazione della guerra, recuperando il potenziale emotivo delle
immagini sulla caduta del comunismo.
La prima cosa di cui ci si deve riappropriare è il senso
delle parole. I governi hanno sempre fatto propaganda: in Francia, prima
della seconda guerra mondiale, c’era un ministero che portava questo
nome. Il termine è in seguito divenuto peggiorativo, e non casualmente
i propagandisti si sono acconciati con il grazioso nome di «comunicatori»
(o «esperti in relazioni pubbliche»), ponendo un’aureola di onestà
sul carattere manipolatore di un lavoro difficilmente controllabile.
Pur essendo la situazione già abbastanza deteriorata, i venditori di
comunicazione hanno da poco fondato in Francia la lobby Démocratie et
Communication con l’obiettivo di far cadere le restrizioni imposte
alla pubblicità in campo politico (come il divieto di spot, rimosso in
occasione delle elezioni europee del 2004). Tra costoro Jacques Séguéla,
che ama presentarsi come un «figlio della pubblicità», un «mercenario
garantito », un «camaleonte». Costui ha fatto la pubblicità per François
Mitterrand («Generazione Mitterrand») e per innumerevoli partiti nel
mondo intero, vantandosi di cambiare campo per essere sempre dalla parte
del vincitore. Come tanti comunicatori francesi, ha sguazzato nella rete
dei rapporti franco-africani, lavorando per quei dittatori che servono
così bene, anche loro, gli interessi della nostra industria nazionale,
precisamente quella petrolifera.
Se si pongono queste evoluzioni in una prospettiva storica,
si può parlare con Jürgen Habermas di «rifeudalizzazione dello spazio
pubblico». Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano prese nei
segreti arcani del potere: ciò che veniva concesso al popolo erano
sfilate e feste in cui i potenti davano spettacolo di sé per accrescere
il proprio prestigio. Con l’età dei Lumi, si costituisce una sfera
pubblica che non si accontenta di acclamare passivamente il potere, ma
lo contesta e lo discute: sta qui l’origine delle moderne rivoluzioni
politiche. Tuttavia, con la crescente concentrazione economica e con
l’emergere di un nuovo potere politico, quello delle grandi imprese,
lo spazio pubblico ha velocemente ripreso il suo aspetto di scena ludica
dove i potenti si pavoneggiano per ottenere un consenso plebiscitario. I
grandi orientamenti politici non sono più discussi, bensì imposti con
tattiche di comunicazione che ne dissimulano le poste in gioco: è la
fabbricazione del consenso, the manufacturing of consent.
Ci si può indignare del «passaggio dalla democrazia
rappresentativa alla democrazia consumista» annunciato da Séguéla, ma
questo stravolgimento si limita a esacerbare fino al parossismo quelle
insufficienze intrinseche alla democrazia rappresentativa, la quale non
esige affatto l’impegno di ciascuno nella sfera politica, ma il suo
esatto contrario. Poiché il concetto di partecipazione si è ormai
ridotto ad andare a votare ogni cinque anni, non ci si può meravigliare
che il potere sia stato confiscato da professionisti della politica,
esperti e altre figure chiave del mondo della comunicazione. Lo spirito
«progressista» ha la sua parte di responsabilità in questa deriva: ha
disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non ha dato
prova di alcuna chiaroveggenza di fronte allo sviluppo industriale e
mediatico, assimilandolo al Progresso e trascurando i suoi effetti
nefasti sulle condizioni concrete del dibattito pubblico e della
sovranità popolare.
È quindi logico, purtroppo, che la politica si sia ridotta sempre più a uno spettacolo; e la cancrena pubblicitaria non fa che rivelare i limiti di una concezione poco esigente e troppo mediatizzata (cioè indiretta) della democrazia. La via per manipolare l’opinione pubblica, mascherando qualsiasi politica, statale o industriale, dietro il velo dell’interesse generale, è ormai libera. Nel 2004 Sanofi-Synthélabo ha lanciato una OPA ostile su Aventis: se si deve credere alla campagna di comunicazione condotta in quest’occasione, solo l’interesse umanitario a salvare delle vite avrebbe motivato la costituzione di questo quasi-monopolio farmaceutico.
La creazione industriale di nuove malattie
Nel Medio Evo, ciarlatani e cavadenti promettevano già
bellezza e salute, per non dire dell’eterna giovinezza, grazie a
pozioni miracolose e a elisir di lunga vita. Si sarebbe potuto sperare
che simili pratiche declinassero con il progresso; al contrario, la
pubblicità le ha esacerbate. Se non vale la pena attardarsi
sull’esempio caricaturale dei cosmetici, ben altra attenzione merita
il modo, misconosciuto, con cui l’industria farmaceutica utilizza il
sistema pubblicitario per pervertire la medicina. In Francia, la vendita
e la pubblicità diretta dei medicinali sono teoricamente limitate: in
realtà lo sono sempre meno. Gli industriali del settore stanno cercando
di raggiungere il grande pubblico e lo fanno, come chiosano ammirati i
pubblicitari, «a suon di sotterfugi per raggirare una regolamentazione
restrittiva». Sarebbero tutti soddisfatti se si raggiungesse il livello
degli USA, dove la deregulation liberale ha autorizzato il direct to
consumer. In dieci anni, i budget pubblicitari si sono decuplicati e il
giro d’affari dei medicinali coinvolti si è triplicato…
Non siamo ancora a questo punto, ma il sistema
pubblicitario non è meno attivo in Francia, dove mira al target che la
legge gli consente: il medico che fa le ricette. I medici sono tampinati
da una legione di rappresentanti dei laboratori farmaceutici. Si parla
spesso della carenza di personale medico negli ospedali. Ricordiamo che
in questo caso c’è un rappresentante ogni nove medici! Si parla
spesso della «dura necessità», per poter finanziare la ricerca
medica, di far pagare ai Paesi poveri i diritti di brevetto, che
moltiplicano per dieci o anche più il prezzo dei medicinali. Ricordiamo
che i laboratori destinano soltanto dal 9 al 18% del loro budget alla
ricerca, ovvero tre volte meno di ciò che viene destinato al marketing.
A lungo persuasi di far bene il loro mestiere, cioè di
fare del loro meglio per la salute del paziente, i medici si sono resi
conto che vengono reclutati per fare consumare il più possibile
determinati prodotti. Un sistema pubblicitario efficace mira a fare di
chi prescrive le ricette un braccio affidabile della tenaglia che
stritola certi malati. Ecco come si svolge il lavaggio del cervello,
spiegato da chi l’ha subìto in prima persona. All’inizio dei suoi
studi, il futuro medico scopre con piacere tutto un mondo di regali, di
loghi che gli divengono familiari e di sponsor generosi che
sovvenzionano serate e settimane bianche. La contropartita sembra
minima, basta far finta di ascoltarli mentre abbozzano una graziosa «verità
scientifica» su un dato prodotto.
Comunque, «fanno parte della nostra formazione», come
dicono i più vecchi, in generale già ben formattati. Più tardi, lo
studente comincia a conoscere seriamente le patologie. I libri su cui
studia raccomandano certi medicinali in grassetto, gli stessi di cui si
ritrova la scintillante pubblicità nella sovraccoperta o inserita tra
le pagine. Libri scritti dal «fior fiore della medicina», che ha
acquisito notorietà grazie alle sovvenzioni di laboratori legati alle
loro specializzazioni gli stessi che producono quei medicinali. Ma per
lo studente quel testo è il riferimento indispensabile, e siccome la
medicina s’impara a memoria, tutto ciò entra a far parte del sistema!
Durante l’internato, volente o nolente, frequenta i laboratori più
volte a settimana (in occasione di «visite di cortesia», di uscite
organizzate, di «riunioni d’informazione», ecc.). Inoltre, il
primario può esercitare pressioni dirette o indirette affinché si
orientino le prescrizioni a favore del laboratorio X, amico del
primario.
Lungo tutta la sua vita lavorativa, il medico sarà corteggiato per il
suo stesso bene: riunioni, pranzi, «soggiorni di formazione» lo
arricchiranno di un sapere preconfezionato, abilmente truccato alla
bisogna nelle riviste di riferimento o nei dépliant che vantano le
proprietà del medicinale (che talvolta «dimenticano» di menzionare
taluni effetti secondari).
Quando sono state lanciate le pillole contraccettive di
terza generazione (meglio tollerate delle precedenti, ma considerate a
rischio per un possibile aumento delle malattie cardiovascolari), un
laboratorio spiegava nelle sue schede promozionali come, contrariamente
alle pillole concorrenti, il tasso di colesterolo non fosse aumentato
con i suoi prodotti. Un esame più attento della spiegazione segnalava
che questa prova «scientifica» era stata riscontrata… nella femmina
del coniglio. Le cavie sapranno apprezzare. Quindi, anche se i medici
hanno appreso (molto di recente) ad avere uno sguardo critico, i trucchi
del mestiere funzionano sempre. Allorché i rappresentanti cessano di
incentivare i medici, il volume dei medicinali prescritti nella zona
geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei farmacisti e
delle mutue) precipita. Sono dunque i rappresentanti ad acuire il senso
critico dei medici? Sì, nei confronti di malattie che non esistono e
che vengono create a colpi di convegni e articoli «scientifici»
ratificati da rinomati professori. Una creazione particolarmente facile
quando la frontiera tra il normale e il patologico è così sottile. A
partire da quali soglie bisogna prendere in considerazione il tasso di
colesterolo o la tensione arteriosa?
La minima flessione può creare un mercato immenso…
Philippe Pignarre, che ha lavorato per diciassette anni nell’industria
farmaceutica, ci ricorda che quest’ultima costituisce il «gioiello
della corona del capitalismo». I suoi tassi di profitto sono più alti
di quelli di qualsiasi altro settore, banche comprese. Ma per
mantenerli, tenendo conto della scadenza dei brevetti, bisogna innovare
di continuo e spingere con urgenza, a dispetto di ogni prudenza, al
consumo di nuovi prodotti. Pignarre ci spiega in dettaglio le strategie
impiegate: si pubblica uno stesso articolo, sotto firme diverse, per
aumentare la notorietà di una nuova molecola e suggerire ai medici che
i suoi vantaggi sono stati davvero confermati; poi la si può
addirittura commercializzare sotto due nomi diversi per imporla più
rapidamente (strategia detta di co-marketing); infine si fa pressione
per farla prescrivere in prima battuta, ecc. Quando le molecole
divengono di pubblico dominio, si procede alla «cosmesi» dei
medicinali, scommettendo sulla celebrità del nome di marca; ad esempio,
si fa di tutto per far dimenticare che
Davanti alla difficoltà di trovare nuovi medicinali, i
laboratori si accingono dunque a inventare nuovi pazienti per vendere i
loro vecchi prodotti. A questo fine, essi ricorrono a tutti gli
stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando le tattiche di
comunicazione che si indirizzano direttamente alle masse per il tramite
dei media. Negli Stati Uniti è così improvvisamente comparsa una nuova
malattia: «la turba da fobia sociale». Tra il 1997 e il 1998 vi si fa
riferimento, nei media, una cinquantina di volte ma, nel 1999,
l’epidemia sembra dilagare tanto che vi si fa riferimento più di un
miliardo di volte. Cosa è successo? Niente, se non lo sviluppo di una
vivace strategia di relazioni pubbliche per conto di un laboratorio che
cerca nuovi sbocchi per un antidepressivo, il Paxil, le cui vendite
aumentano del 18% nell’anno 200024.
Queste strategie sono pericolose, perché i medicinali
possono innestare una caterva di effetti indesiderabili, che vanno dagli
effetti collaterali benigni a quelli mortali. Ad esempio, un laboratorio
propone degli ormoni per occuparsi della «menopausa maschile»; le sue
pubblicità giocano sul desiderio degli uomini di «restare giovani» e
di conservare tutta la loro libidine. Ma c’è da temere che il
testosterone proposto comporti a lungo termine un drammatico aumento
dell’incidenza del cancro alla prostata. Allo stesso modo, anche sul
breve termine, i sondaggi clinici su un campione di 2.500 persone sono
statisticamente troppo deboli per accertare eventuali effetti negativi
gravi (con i laboratori che, in caso di problemi, fanno tutto il
possibile per spiegarli tramite le caratteristiche delle cavie piuttosto
che delle molecole). Un farmaco tagliafame ha ottenuto nel 1985
l’autorizzazione alla distribuzione sui mercati (AMM): trombe e
tamburi, congressi sul prodotto miracoloso che migliorerà
l’alimentazione di milioni di persone, malate per aver troppo
consumato o più spesso schiave di un conformismo fisico propagandato
proprio dalla pubblicità.
In pochi anni viene consumato da sette milioni di persone e
qui ci si accorge della sua pericolosità: 200 persone moriranno o
subiranno gravi conseguenze. L’ingegnosità dispiegata per
massimizzare la redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è
terrificante. Il predominio dell’immagine sulla verità è un tratto
indiscutibile della pubblicità, ma nel campo della salute è criminale,
perché i medicinali sono potenzialmente delle vere e proprie mine
antiuomo.
Il principio di precauzione va a farsi fottere grazie a un’ondata di
pubblicità che stimola l’iperconsumo dei medicinali, il quale a sua
volta comporta 1.300.00 ricoveri (cioè il 10% del totale!) e 18.000
decessi all’anno solo in Francia. Coccolando l’illusione ossessiva
della salute perfetta, della bellezza e della gioventù eterne, Big
Farma ha creato di fatto delle nuove malattie.
Il cinismo dei laboratori trova l’eguale solo presso i
loro marketers, che sacrificano coscientemente la nostra indipendenza, e
anche la nostra vita, al Dio Profitto. Eppure sarebbe sbagliato e
ingiusto imputare al solo sistema pubblicitario questa deriva del mondo
della medicina. Di nuovo, essa non fa che svelare, aggravandole, le
insufficienze di una concezione della medicina come assistenza
focalizzata sulla prescrizione di composti chimici la cui aggressività
è causa di patologie e dipendenze. Ora, le statistiche provano che i
progressi della salute pubblica non sono legati in modo decisivo ai
medicinali moderni, ma molto più al miglioramento delle condizioni di
vita e specialmente dell’alimentazione, vale a dire a cose che gli
individui possono controllare da sé. Un’altra concezione della salute
si profila a questo punto, una concezione fondata sull’autonomia
personale e garantita da una sana igiene di vita che prevede il ricorso
all’assistenza medica solo in certi casi particolari.
Gli «spettacolari progressi» della tecnica medica non
solo non hanno contribuito granché all’aumento della speranza di
vita, ma hanno avuto effetti nefasti non voluti o previsti dai medici.
Da un lato questi effetti, invece di spingere gli individui a prendere
in mano la loro salute per costruire un modo di vivere più sano, hanno
rinforzato l’idea che la salute è assicurata al meglio tramite il
consumo quotidiano di cure prodigate da istanze specializzate.
Dall’altro lato, sono stati sistematicamente usati per giustificare le
condizioni di vita moderne: condizioni che sono sempre più patogene! Il
cancro, causa di morte per 150.000 francesi ogni anno, è un’epidemia
legata all’industria, più precisamente a quella chimica, che è anche
alla base della farmacopea. Come scriveva Ivan Illich, “la civiltà
industriale crea nuove malattie e il sistema medico stesso è ben lungi
dall’essere sano: Una struttura sociale e politica distruttiva trova
il suo alibi nel potere di appagare le proprie vittime con terapie che
esse hanno imparato a desiderare. Il consumatore di cure diviene
impotente a guarirsi o a guarire chi gli sta vicino”.
CONCLUSIONI
Era ora che la pubblicità provocasse una reazione
proporzionata alla ripugnanza che ispira a molti di noi: la pubblicità
è in sé infame, è propaganda industriale che si spaccia per
informazione e talvolta passa per tale. È infame per ciò che promuove:
l’edonismo adulterato, il narcisismo delle apparenze mercantili, la
noncuranza cool e il disprezzo del passato che sta dietro alla beata
nostalgia della «vera vita campestre». È infame soprattutto perché
è un potente motore di quel consumismo e di quel produttivismo che sono
all’origine del saccheggio della natura e delle società, al quale
contribuisce in misura ancora maggiore mascherando la devastazione del
mondo che ne consegue e che, malgrado tutto, salta agli occhi.
Non ci si può che rallegrare del lavoro di tutte quelle
associazioni che si sforzano di sensibilizzare la popolazione su questa
peculiare nocività e che lottano compatte contro il suo imperialismo.
Ma questa battaglia resta troppo spesso parziale; condotta per vie
legali e giuridiche, essa è simile a quella di Sisifo contro il suo
masso, che rotola sempre giù dal pendio. Non ci si può limitare a
criticare la pubblicità, come ha ben capito l’associazione Casseurs
de pub che, traendo le dovute conseguenze dalla sua attività iniziale,
oggi pubblica un giornale intitolato «
La pubblicità è una componente a pieno titolo di quella produzione
industriale su cui poggia il nostro laborioso comfort.
È indissolubilmente legata alla divisione del lavoro, alla
concentrazione economica, al ruolo del denaro nella nostra società; in
breve, al fatto cruciale che noi affidiamo alle grandi imprese, dietro
pagamento, il diritto di occuparsi della nostra vita al nostro posto.
Non ci si può dunque accontentare di rompere la vetrina pubblicitaria,
perché dietro di essa c’è il potere ideologico e pratico che
esercitano le grandi marche sul nostro quotidiano, ed è questo che va
messo sotto accusa. Non bisogna aspettarsi nulla dalle marche,
soprattutto quando, come sottolinea Stuart Ewen, recuperano le critiche
per darsi un’immagine di «imprese responsabili» che s’ingegnano
per mettere una spruzzata di etica sulle loro etichette, o per passare
una mano di pittura verde sulle lamiere ondulate delle loro fabbriche:
La cultura di massa ci interpella nella stessa lingua della
nostra critica, invalidandola giacché propone le soluzioni della grande
impresa ai problemi della grande impresa. Finché non ci confronteremo
con l’infiltrazione del sistema mercantile fin nei più reconditi
meandri dell’esistenza, lo stesso cambiamento sociale resterà un
prodotto della propaganda delle marche. Abbiamo assistito ai primi passi
di una politica della vita quotidiana; ma questa politica è subito
divenuta un pupazzo nelle mani della controparte. […] Bisogna restare
vigili e rigettare ogni forma di progresso sostenuta dalle marche.
Una volta che si sia presa coscienza del carattere devastante del
sistema industriale, cosa si può fare per evitare di essere complici
della sua espansione? Oggi è impossibile non fare compromessi, tenuto
conto delle costrizioni implicite nelle nostre condizioni di vita. Ma la
necessità di fare tutto il possibile per riprenderne il controllo non
è per questo meno pressante.
Bisogna cercare di uscire dalla nostra dipendenza
quotidiana da una megamacchina statal-industriale che ci assiste in
tutti i nostri atti. E dunque imparare a vivere altrimenti: lavorare e
consumare diversamente, al tempo stesso meno e meglio; preferire, quando
è ancora possibile, il mercato al supermercato, gli artigiani agli
industriali, gli indipendenti alle catene e alle grandi case di
produzione, il rigattiere e il mercato delle pulci agli asettici centri
commerciali. Non è infatti risibile scandalizzarsi della pubblicità e
degli abusi del sistema industriale che vi fa ricorso, continuando nel
frattempo a favorire l’espansione di entrambi con i propri atti di
consumo?
Ma per comprendere il fenomeno pubblicitario, e pretendere
di opporvisi, bisogna vedere più in là della dittatura del profitto e
del produttivismo; o meglio, bisogna sforzarsi di coglierne tutte le
manifestazioni concrete, comprese quelle che intaccano, a causa della
venalità generalizzata e della logica della redditività, il nostro
quadro di vita e l’esistenza che vi conduciamo. Una critica seria
della pubblicità non può inoltre esimersi da una critica dei mass
media e della stampa contemporanei, progressivamente divenuti una
gigantesca pagina pubblicitaria. Come non può tralasciare una critica
all’urbanismo e all’organizzazione moderna dello spazio, con le sue
reti di trasporti peraltro tanto propizie al martellamento
pubblicitario.
E tale critica, non ci conduce forse a interrogarci sul
valore di certe infrastrutture che il mainstream dell’oscurantismo
sedicente «progressista» pubblicizza in maniera costante? Pensiamo a
tante cose, e in particolare - per non esitare a rimettere in
discussione un consenso tanto cieco quanto universale (soprattutto nei
francesi) - agli aeroporti, alle autostrade, alle linee ad alta velocità,
alle antenne per le reti di telefonia mobile, e ovviamente ai progetti
internazionali per costruire in Francia nuove centrali nucleari a basso
costo o sperimentali (progetti EPR e ITER). Non è il caso di
interrogarsi, per ogni singola situazione e in modo preciso, sui «benefici»
che queste infrastrutture ci apportano in relazione a quelle che
rimpiazzano e in relazione alle alternative di cui impediscono lo
sviluppo? Di domandarsi se questi benefici non si realizzano in realtà
solo a vantaggio di una minoranza? Di confrontare tali presunti benefici
con i costi di queste infrastrutture per la collettività in termini di
budget colossali, di ricadute nocive, di risorse mobilitate e
soprattutto di rischi indotti? Perché, di nuovo, il loro effetto è
quello di favorire l’espansione dello sviluppo industriale e della
logica concorrenziale, quando sembra invece urgente frenarli e deviarli
per evitare il disastro ecologico e umano che si profila
all’orizzonte.
Certo, questa messa in discussione non deve essere fatta
solamente in nome dei disagi e delle ricadute nocive subite dalle
popolazioni locali, ma nella prospettiva di una critica globale di un
sistema universalmente nocivo (e in che misura!) che esige queste
infrastrutture per svilupparsi. I movimenti locali vengono così spesso
sconfitti perché restano prigionieri di rivendicazioni troppo private
che immediatamente li discreditano. Se è facilmente comprensibile che
essi non abbiano voglia, e a buon diritto, di avere questi sconci vicino
casa, perché altri dovrebbero invece volerli?
Da questo punto di vista, la lotta contro la pubblicità, in particolare
nelle forme che ha assunto a partire dalle azioni dell’autunno 2003,
è interessante a più livelli. Intanto ha consentito di prendere le
distanze dalle rivendicazioni corporative avanzate dalla maggior parte
dei sindacati. Poi si è affrancata, quanto meno nei discorsi dei suoi
promotori più conseguenti, dalle contraddizioni classiche della critica
della pubblicità, quella che si adombra pudicamente per i metodi più
scandalosi come la «persuasione occulta», continuando però a ripetere
docilmente l’assunto delle nostre operose élite: «La crescita non è
il problema ma la soluzione». Se si pensa veramente che la crescita sia
un obiettivo auspicabile, allora bisogna attrezzarsi con mezzi adeguati,
e una scialba réclame utilitarista e informativa non ne fa parte. Se
s’intende accettare il saccheggio del mondo da parte dell’iperconsumo,
allora è meglio che esso venga mascherato con sfavillanti spot
pubblicitari, tanto sensazionali quanto mistificatori.
Intendiamo denunciare con fermezza anche le altre illusioni
di cui si nutrono le critiche ingenue della pubblicità. Allo stato
attuale dei rapporti di forza, non c’è alcuna ragione perché la
pubblicità arretri o fermi la sua avanzata. Non c’è alcuna ragione,
ad esempio, perché i bambini delle scuole francesi sfuggano, quando sarà
il momento, al trattamento pubblicitario shock che viene già
somministrato ai loro coetanei negli Stati Uniti. Le riforme
dell’istruzione pubblica hanno attivamente promosso tutte le
condizioni affinché le scuole francesi abbiano sempre più bisogno del
denaro dei poteri forti privati, e ben presto molte saranno attaccate a
flebo commerciali. È possibile che talune iniziative riescano, almeno
in certi istituti, a ritardare la scadenza, ma da sole non potranno
cambiare il problema di fondo. Concentrandosi su un capro espiatorio
facile come la pubblicità, esse anzi contribuiscono a occultare la
funzione cui l’istruzione pubblica tende a restringersi, con la
benedizione dei genitori preoccupati per il «futuro» dei loro bimbi:
quella di preparare questi ultimi a diventare impiegati «competitivi»
e consumatori «razionali».
La questione della pubblicità illustra in modo crudo
quanto sia oggi difficile apportare dei miglioramenti a un aspetto
particolare della vita sociale senza chiamarne in causa anche tutti gli
altri. La pubblicità rappresenta perfettamente la vita che conduciamo!
Il riflusso pubblicitario non potrà ovviamente risultare se non da un
regresso della produzione mercantile e dall’emergere di altri rapporti
sociali (dove sarà magari più consueto venire in aiuto dei propri
vicini che accettare denaro per far installare un pannello pubblicitario
in uno spazio di cui si è proprietari). Non potrà verificarsi se i
rapporti di forza e l’organizzazione della vita non muteranno
profondamente. E perché questo avvenga, non basterà certo invocare lo
Stato, nella speranza che limiti il bombardamento in atto e difenda quei
cittadini impotenti che ha largamente contribuito a espropriare di ogni
potere sulle loro vite. Per arrivare a toccare questioni cruciali, la
pubblicità non dev’essere contestata isolatamente, bensì usata come
una interessante via d’accesso per arrivare a una critica radicale del
capitalismo. […]
In un contesto storico in cui il sabotaggio ci sembra
nuovamente chiamato a ritrovare i suoi titoli nobiliari, le azioni
contro la pubblicità hanno anche saputo riallacciarsi alla critica
dello spettacolo. Iconoclaste e profanatrici, esse hanno aggredito -
spesso inconsapevolmente, ma talvolta in modo del tutto cosciente - il
cuore del capitalismo: il feticismo della merce. Al capitalismo non
basta sfruttare gli uomini dall’esterno, con l’appoggio dello Stato
e delle sue coorti armate; esso è anche una religione, e il suo
principale supporto, oggi, è ognuno di noi, persi come siamo nella
massa dei fedeli-consumatori ammaliati dai miracoli dell’industria
hi-tech.
Nel 1921, Walter Benjamin aveva già capito che il capitalismo è «la
celebrazione di un culto senza sogni e senza pietà». Tale culto è
quello del denaro e della sua incarnazione in forma di merce: «senza
pietà», cioè inesorabile e permanente, «senza sogno», cioè senza
utopia e senza speranza. Un culto che non promette alcun superamento
verso un altrove, ma soltanto la propria intensificazione; che organizza
un mondo chiuso nel «qui e ora» mercantile, un mondo esposto in un
presente senza memoria. Per dirla con Herbert Marcuse, si tratta di un
mondo unidimensionale nella misura in cui è privo di ogni ideale che lo
trascenda e che permetta dunque di uscirne per giudicarlo e criticarlo.
L’uomo a una sola dimensione che gli corrisponde non fa altro che
proiettarsi verso nuove spese. E non potrà mai ribellarsi: senza sogni,
non c’è rivolta.
I grandi sacerdoti di questo culto senza tempi morti sono
indubbiamente i pubblicitari. San Cathelat considera le sue contorte
opere come le vetrate di quelle «cattedrali moderne» che sono gli
ipermercati. San Séguéla, profeta esaltato della pubblicità «divina»,
«missionaria» e «immortale», ci assicura che essa è precisamente «l’eucarestia
di quella grande messa pagana che è il consumo». La prova dell’«essenza
divina» del sistema pubblicitario, ci spiega, è che esso «fa il mondo
a sua immagine». E così «ipnotizza la nostra infanzia, manovra la
nostra gioventù, abbrutisce la nostra maturità». Nessun sacrificio è
sufficiente per questo idolo, tanto vorace quanto spietato.
Evangelizzatori delle masse, questi pastori dei centri commerciali
guidano le loro pecorelle verso le casse, santificando da bravi curati
al passo coi tempi un capitalismo ipersviluppato.
Davanti alla miseria umana che questo propaga, loro
promettono ciò che può solo intensificarla: la consolazione attraverso
il consumo, fondamento di questo miserabile surrogato di religione che
è appunto il consumismo, nuovo oppio dei popoli. Blando euforizzante e
potente narcotico, questo procura soddisfazioni illusorie e instilla una
rassegnazione reale. I pubblicitari sono mercanti di sabbia che lavorano
per espandere il deserto.
Nei secoli XVIII e XIX, i pensatori illuminati ritenevano che la critica
della religione fosse la premessa di ogni critica. In un opuscolo
situazionista del 1966, intitolato De la misère en milieu étudiant,
Mustapha Khayati delineava una nuova configurazione storica, nella quale
ci ritroviamo oggi più che allora:
«Nell’epoca del suo dominio totalitario, il capitalismo
ha prodotto la sua nuova religione: lo spettacolo». Il sistema
pubblicitario è solamente il vettore più manifesto di questa
contemplazione medusea provocata dalla vita autonoma di un’economia
che si rivela mortale per ogni vita decente. Criticarla è la condizione
preliminare di ogni altra critica sociale. Preliminare, perché bisogna
essersi già liberati di questo contesto di accecamento per poter aprire
gli occhi sul mondo immondo generato dalla crescita mercantile. Ma solo
preliminare, perché una volta rotto l’incantesimo resta da
ricostruire, negli interstizi e sulle rovine della devastazione, un
mondo umano. Ciò che è infame ha cambiato maschera, ma la parola
d’ordine di Voltaire non ha perduto nulla della sua attualità: «Schiacciate
l’infame!».
Fonte: MISERIA UMANA DELLA PUBBLICITA’. Il nostro stile
di vita sta uccidendo il mondo, Gruppo MARCUSE, Elèuthera, 2006, 144 pp.,
€ 12,00