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La
miccia libanese
di
Carlo Bertani - 8 agosto 2006 www.disinformazione.it
Eccolo,
vortice identico,
identica
tempesta dello spirito l'invade.
E costerà pianto ai carcerieri
questo pigro andare.
Aaah!
Grido che arriva
a soglia di morte.
Non spreco fiato, io, a darvi la speranza
che non sia questo il senso delle cose.
Sofocle
- Antigone
Mentre
l’informazione ufficiale è clamorosamente scomparsa – e nessuno dei
molti “esperti” di strategia “targati” RAI s’affaccia dal
teleschermo per spiegare cosa sta succedendo – dal 12 di Luglio
l’intero pianeta si è messo a bruciare le tappe, come se avesse
fretta di correre verso nuove aggregazioni, alleanze, schieramenti. E
verso il disastro totale.
La guerra in Libano ha offuscato tutti gli altri scenari – è normale
che sia così – ma una tragedia che si rispetti vive anzitutto nei
movimenti dietro le quinte: l’apparizione in scena di un attore e la
battuta “ad effetto” sono soltanto i risultati del lavoro svolto
prima, nelle prove, fino alle ultime raccomandazioni che precedono gli
eventi in scena.
Per dovere di cronaca partiamo proprio dallo scenario libanese, dove
riesce difficile comprendere come sia così difficile spegnere un
incendio apparentemente appiccato dalla cattura di due soldati
israeliani: se le cose fossero così semplici, l’ONU avrebbe già
trovato il bandolo della matassa, mentre le varie risoluzioni e gli
accordi – palesi od in cantiere – sono soltanto dei cori senza senso
recitati per non apparire muti.
L’apparente
gazzarra sui tempi del “cessate il fuoco” – se prima o dopo lo
spiegamento di una “forza di pace”, se contemporanea al ritiro delle
truppe israeliane, ecc – cela il disaccordo fra i “grandi attori”
della vicenda, che per ora parlano soltanto per bocca d’Israele e di Hezbollah
e si nascondono dietro alle quinte.
Quando Israele afferma che per “finire il lavoro” sono necessarie
settimane o mesi ha ragione: ciò che fa rizzare i capelli in testa è
riflettere sui risvolti che avrà una così lunga guerra sul mondo arabo
ma anche – e questo aspetto è per lo più taciuto – in Occidente.
Inutile ricordare che il “lavoro” è stato iniziato male, senza
un’attenta riflessione sui possibili scenari e basandosi sulla
semplice evidenza che lo strapotere militare israeliano nell’area
avrebbe condotto alla solita guerra di pochi giorni, al termine della
quale Tel Aviv avrebbe – come sempre – dettato al Consiglio di
Sicurezza i termini della pace.
I
copioni e le scenografie non possono essere riproposti per anni ed anni
identici, giacché il pubblico cambia, e richiede sempre una
“rivisitazione” dei testi.
Nella strategia israeliana non era previsto l’appiattimento del
governo libanese sulle posizioni di Hezbollah: anzi, dopo aver scompaginato gli equilibri interni con
l’assassinio di Hariri, Tel Aviv s’attendeva un rapido
“divorzio” fra il governo di Beirut e le milizie sciite.
Sul fallimento israeliano pesano due errori, gravissimi: aver ridotto il
Libano in pochi giorni ad un ammasso di macerie ed aver sottovalutato Hezbollah.
Il primo errore condurrebbe il governo libanese a perdere la faccia
qualora accettasse la “pace” di Tel Aviv: cosa consegnerebbe Siniora
ai libanesi? Una nazione distrutta, anni di ricostruzione, fatiche e
sacrifici per la popolazione: il tutto – beninteso – sotto lo
sguardo attento degli israeliani. In definitiva: alla sconfitta militare
seguirebbe rapidamente quella politica, poiché nessuna classe dirigente
sopravvive ad un simile sconquasso. Da qui la decisione di proseguire
fino in fondo la battaglia, consci che ogni giorno che passa gli
israeliani avranno sempre meno obiettivi da colpire, mentre si
troveranno sempre di più esposti alla guerriglia di Hezbollah.
Il
secondo errore è stato sottovalutare Hezbollah:
a dire il vero, Tzahal ha
sempre avuto grande rispetto delle milizie sciite, ma non s’attendeva
certo una simile, organizzata resistenza, con puntuali risposte ad ogni
attacco.
Le armi più temibili di Hezbollah non sono i razzi Katjuscia
– armi semplici, già usate nella Seconda Guerra Mondiale per la prima
volta nell’attacco russo dell’inverno 1941/42, che terrorizzarono le
truppe dell’Asse per la loro potenza di fuoco – ma l’aver imposto
ad Israele la strategia che meno gli è consona: la guerra di
logoramento per il controllo del territorio.
Tzahal
può permettersi d’attuare il controllo del territorio con i
palestinesi – giacché non possiedono armi in grado di colpire i
corazzati Merkawa – mentre Hezbollah
ha distrutto carri armati, blindati ed elicotteri israeliani, cosa che i
palestinesi non sono mai riusciti a fare.
Quali
sono, allora, le armi e le strategie di Hezbollah?
Anzitutto, la consistenza militare del movimento sciita: le stime
apparse sulle menzognere agenzie di stampa occidentali riportavano una
cifra di circa 3.000 effettivi (ANSA).
E’ veramente difficile immaginare un movimento politico che – nella
scorsa primavera – portò in piazza mezzo milione di sostenitori
contro la “deriva” anti-siriana del governo (che sta ancora
cospargendosi il capo di cenere per l’errore commesso), il quale
esprima una forza combattente di soli 3.000 effettivi.
Altre analisi – di parecchi anni fa – affermavano che Hezbollah
aveva la forza di “un paio di divisioni iraniane”, ossia un esercito
di 10-20.000 uomini, che è più coerente con le dimensioni del
movimento politico e con la resistenza mostrata.
Anche
qui, se non la smettiamo di credere a quello che ci raccontano, non
riusciremo mai a spiegare nulla: secondo molti giornalisti occidentali,
in Iraq combattono soltanto pochi terroristi che sono pure malvisti
dalla popolazione. La realtà è che in Iraq combattono alcune decine di
migliaia di guerriglieri, appoggiati da gran parte della popolazione:
altrimenti – se fossero solo quei quattro gatti – come mai i 135.000
soldati americani non sono riusciti a venirne a capo?
Le armi di Nasrallah – oltre ai razzi Katjuscia,
i soliti lanciarazzi multipli che tutti gli eserciti hanno in dotazione,
compreso quello italiano – sono i lanciarazzi RPG, mitragliatrici ed
armi individuali: le armi contraeree – ossia i lanciamissili portatili
con guida all’infrarosso – hanno limitato raggio d’azione e sono
soggetti alle contromisure attive dei jet israeliani, ossia quegli
artifizi (flare) sganciati in
continuazione da aerei ed elicotteri.
Un’arma molto sottovalutata è il razzo RPG,
che ha avuto molta importanza nella guerra contro i corazzati sovietici
in Afghanistan, il quale è semplicemente un razzo portatile sparato con
puntamento ottico contro il nemico.
Si
tratta di un’arma semplice, che colpisce solo se la mira è buona ed
il tiratore ha il “fegato” d’avvicinarsi ad un corazzato fino a
poche centinaia di metri, e per questo è un’arma poco costosa,
replicabile in gran copia a bassi costi.
Queste armi furono inventate dai tedeschi al termine della Seconda
Guerra Mondiale (Panzerfaust)
per arginare le avanzate dei russi e degli anglo-americani e diedero
buoni risultati, ma nel dopoguerra furono abbandonate – in Occidente
– perché ritenute troppo rischiose per chi doveva usarle.
Furono sostituite da sistemi di lancio che prevedevano non più una
linea di mira ottica, bensì sofisticati sistemi di puntamento e di
guida per aumentare la distanza di lancio e proteggere la vita del
fante: rapidamente, i razzi Panzerfaust
od RPG divennero i sistemi
missilistici HOT e MILAN,
ossia dei missili.
Un
missile – a differenza di un razzo – ha un sistema di guida che lo
conduce fino all’obiettivo: ne esistono di varia natura –
elettromagnetica, infrarosso, laser, ecc – ma tutti questi sistemi
prevedono una sofisticata elettronica per la guida, e quindi alti costi
di produzione.
Il missile più “misero” non costa mai meno di decine di migliaia di
euro, e per questa ragione non se ne possono consegnare grandi
quantitativi alle truppe, mentre un razzo modello RPG costa forse qualche migliaio di euro: con la stessa cifra è
possibile fornire un solo missile oppure decine o centinaia di razzi.
Dal punto di vista della letalità dell’arma – ossia della testata
esplodente – non c’è differenza fra un razzo ed un missile: la
differenza è data dal sistema di guida. Ora – se affidati a soldati
coraggiosi, che accettino di rischiare la vita – è più probabile che
centrino il bersaglio un solo missile o decine di razzi?
Questa
è la prima riflessione sul modello di battaglia che Hezbollah
sta imponendo ad Israele; nessuno, però, si è posto un’altra
domanda: come fa Hezbollah a
conoscere la posizione del nemico, visto che i comandi israeliani si
lamentano spesso “d’essere attesi”? Perché gli sciiti – il 6
agosto – hanno lanciato una salva di circa 200 razzi in un’area
ristretta, proprio la zona dove s’ammassavano le truppe di riserva
israeliane? Un caso?
Può darsi che sia stato soltanto un caso ma, casualmente,
nell’ottobre del 2005 i russi lanciarono dal cosmodromo di Baykonur il
satellite spia iraniano Sinah-1,
primo di una serie di lanci concordati con i russi per disporre di una
rete di satelliti per la sorveglianza militare[1].
Non si ha notizia di successivi lanci, ma l’Iran ha tuttora in orbita
un satellite per la sorveglianza militare.
Non confondiamo le possibilità di un solo satellite con quelle della
rete americana ed israeliana, ma avere un “occhio” che può inviare
a terra immagini del territorio è ben diverso dall’essere
completamente ciechi come lo furono gli iracheni od i vietnamiti.
La
strategia degli iraniani è dunque quella d’associare la tecnologia,
quando è disponibile, alla disponibilità dei combattenti a sacrificare
eventualmente anche la vita contro il nemico sionista. Attenzione: Hezbollah
non compie attentati suicidi, ma le truppe combattenti sono coscienti di
rischiare ed eventualmente sacrificare la vita per un ideale. Insomma,
nulla di molto diverso dai molti soldati che sacrificarono la vita nelle
guerre Risorgimentali per l’ideale dell’unità d’Italia.
A questo s’aggiunge un certo fatalismo dell’Islam sulla durata della
vita ma, soprattutto, l’eredità di decenni lasciata dalle guerre di
Israele; un vero e proprio grumo d’odio attraversa i luoghi e le
generazioni, da Sabra e Chatila fino a ieri, e si è trasformato in una
sorta di colonna sonora del Medio Oriente: la lotta ad Israele fino alla
sua distruzione. Un
miliziano intervistato recentemente in Libano, da Dahr Jamail per Mother
Jones, affermava che la sua famiglia combatteva Israele da decenni:
“Il
membro di Hezbollah che stavo intervistando - chiamiamolo Ahmed - era
stato colpito tre volte durante le precedenti battaglie contro le forze
israeliane sul confine meridionale del Libano. Suo fratello è stato
ucciso in una di queste battaglie. Sono passati molti anni da quando suo
padre è stato ucciso in un attacco aereo su un campo rifugiati.”
La
“bomba”, la “polpetta avvelenata” o comunque la si voglia
chiamare – per Israele – è rappresentata dall’accumulo decennale
di odio e risentimento da parte degli arabi che nasce dalla causa
palestinese.
Se questa è la situazione – ed Israele ha deciso d’affrontare un
rischio così alto – ci devono essere validi motivi, ma la domanda che
appare ovvia è: questa guerra, viene combattuta nell’interesse di
Israele?
Un
deputato della Knesset – pochi giorni or sono – chiese al governo,
ironicamente, se Tzahal fosse
comandato dai generali israeliani o da Condoleeza Rice: quel deputato
aveva messo il dito nella piaga, perché è molto difficile affermare
che Israele possa trarre dei vantaggi da questa guerra, in qualsiasi
modo vada a finire.
La conquista di
C’è dell’altro, è evidente, e quel deputato aveva visto giusto: Tzahal,
oggi, è al comando dell’amministrazione USA con l’acquiescenza di
Olmert.
Spesso
viene sottolineata la grande importanza delle lobbies israeliane nel
Congresso USA, ma si tace l’altro aspetto della vicenda: gli USA sono
l’unico alleato completamente affidabile rimasto ad Israele, giacché
dell’Europa Israele non si fida, troppo ondivaga. L’ultimo sicuro
alleato – il Sudafrica dell’apartheid – se n’è andato con la
presidenza di Mandela: Tel Aviv e Pretoria, per decenni, collaborarono
attivamente giacché entrambi gli stati dovevano schiacciare altre
popolazioni e le strategie di repressione – dal battaglione Golani
israeliano a quello Buffalo
sudafricano – furono e sono le stesse. Israele dovrebbe riflettere
sulla “via” sudafricana scelta per uscire da quel dramma, perché
continuare con la contrapposizione frontale significherebbe andare
incontro a futuri molto foschi, ben peggiori di un accordo con i
palestinesi.
C’è invece nell’aria quel fremito di “Nuovo Medio Oriente” che
sembra uscire dagli incubi dei neocon
americani: di che cosa si tratta?
Il
“Nuovo medio Oriente” è un’area che va dal Mar Mediterraneo al
Pakistan completamente controllata dagli USA e, perché no, dal loro
piccolo alleato israeliano. La democrazia? A nessuno frega un accidente
dei sistemi politici che i governi adottano, tanto che i più retrivi
– Musharraf ed i sauditi – sono i migliori alleati.
L’unica cosa che conta è “mettere nel sacco” il 70% delle riserve
petrolifere del pianeta e, raggiunto l’obiettivo, ricattare Cina ed
India. Punto, nient’altro.
La via è obbligata poiché gli USA – a fronte di circa il 5% della
popolazione del pianeta – consumano il 40% delle risorse petrolifere:
l’UE, per avere un raffronto, con il 10% circa della popolazione del
pianeta ne consuma solo il 15%.
Il
maggior problema, però, non è acquistare l’energia bensì avere il controllo
dell’energia, poiché se il greggio prende la via cinese nel volgere
di un ventennio
Per comprendere come la guerra libanese stia scompaginando alleanze ed
equilibri, basta riflettere su due eventi accaduti negli ultimi giorni.
Il primo è la joint venture
fra Gazprom e l’Algeria per
un maggior “coordinamento” nello sfruttamento dei giacimenti e nelle
risorse del gas metano, secondo per importanza energetica solo al
petrolio. L’Europa viene rifornita quasi esclusivamente dai due grandi
gasdotti – quello siberiano e quello tunisino – che rappresentano
oramai la fonte primaria di combustibili fossili per il riscaldamento e
per la generazione d’energia elettrica.
Gazprom
viene oramai ritenuta una holding che – per giro d’affari – è
seconda solo a Microsoft, ma con una sostanziale differenza: per decenni
abbiamo estratto petrolio e gas senza computer, mentre nessun computer
funziona senza corrente elettrica.
La
definizione di “joint venture” è poi assai aleatoria, se si considerano il
“peso” economico e politico dei due contraenti: sarebbe come se
Wolkswagen contraesse un accordo “alla pari” con
Dove poteva andare a parare la superpotenza americana assetata
d’energia? Forse in America Latina – iniziando una serie di guerre
senza fine per il 5% del petrolio del pianeta, nella disastrata Africa
– oppure nel Golfo Persico dove, sommando Arabia Saudita, Iran, Iraq e
gli altri stati del Golfo si diventa padroni del “banco”
petrolifero?
La seconda vicenda è stata appena accennata dall’informazione
ufficiale, e non è nemmeno giunta all’attenzione dei TG nazionali: in
Ucraina, da anni, due Viktor – Yushchenko e Yanukovic – si
contendono il potere, con il piacevole intermezzo “rosa” di una
“pasionaria” dagli occhi di ghiaccio, ossia Julia Timoshenko.
Tutto
faceva pensare che Yushchenko – dopo un risultato elettorale assai
deludente – per salvare la coalizione “arancione” cercasse
un’alleanza con
L’Ucraina valutava – come fece lo scorso anno – di non fare
rifornimento, durante l’estate, di gas per le cosiddette “scorte
strategiche”, che a quelle latitudini sono veramente strategiche. In sostanza, gli ucraini meditavano di continuare a
spillare metano dal gasdotto siberiano che porta il gas in Europa e che
lo scorso inverno ci ha quasi condotti al collasso energetico.
Dapprima ci fu la netta presa di posizione di Prodi – che ammonì
l’Ucraina a non ripetere il tentativo, per i rischi ai quali
sottoponeva l’Europa – ed in seguito giunsero più volte gli
ammonimenti dei russi.
Oggi,
con scarse riserve strategiche e Gazprom
che acquista a furor di dollari giacimenti ed impianti nell’ex impero
sovietico e nel mondo, cosa rimaneva da fare a Kiev? Tentare
l’azzardo, sperando in un attacco russo che avrebbe condotto gli USA
ad aprire un fronte in Europa? Non è un’ipotesi peregrina: nei primi
giorni del 2006 – in concomitanza con la “guerra del gas” fra
Russia ed Ucraina – Mosca iniziò “discretamente” a muovere le sue
divisioni corazzate nei pressi del confine.
Dall’altra parte, non è un mistero che gli USA tentano da anni la
destabilizzazione dell’area: Clinton ricevette gli indipendentisti
ceceni mentre Bush finanzia gli “arancioni” in Ucraina e
l’opposizione al presidente filo russo Luckashenko in Bielorussia.
Quali
sono i termini dell’accordo interno ucraino?
L’unica richiesta di Yushchenko è stata quella che il premier
continuasse nel cammino di “avvicinamento all’Europa” che –
considerando la situazione economica ucraina, i tempi “biblici”
dell’ammissione all’UE e la poca voglia di Bruxelles d’andarsi ad
impelagare in quel ginepraio – significa rimandare tutto alle calende
greche. Quello che è invece sparito dalla politica estera ucraina è il
termine “NATO”: proprio ciò che Mosca desiderava. Quel che Mosca
non ottenne con anni di trattative, è riuscito nel volgere di poche
settimane al Dio metano.
Perché
questa repentina retromarcia? Perché proprio ora?
La sensazione che si respira leggendo fra le righe i comunicati delle
cancellerie europee è quella di grande apprensione, quasi di timor
panico. Il prossimo inverno saremo nelle mani di Gazprom, dalla Siberia
all’Algeria – ed a sua volta Gazprom è fortemente controllata dal
Cremlino – il quale è il gran fornitore d’armi e tecnologia di
Siria ed Iran. Chiusura del cerchio.
Mentre l’Europa balbetta – conscia di non poter avere una politica
estera perché praticamente disarmata e dipendente per l’energia
dall’estero, visto anche il progressivo esaurimento del petrolio del
Mare del Nord – e si rifugia nel credere alle fumose formulazioni del
Palazzo di Vetro, i giochi si fanno altrove.
Gli
USA – dopo il fallimento iracheno – non possono tornare indietro e
non rimane loro che aumentare la posta sul piatto – prima che
E Israele? Come potrebbe sopravvivere, senza la certezza che la
superpotenza americana sia sempre in grado di fermare i suoi molti
nemici?
Per questa ragione il Libano di oggi è soltanto una miccia: il vero
obiettivo è far esplodere l’intera area, per tentare il “tutto per
tutto”, salvare il predominio americano sull’energia ed il sogno
degli estremisti israeliani di Eretz
Israel. Le due visioni – l’una pragmatica, l’altra ammantata
di valori religiosi – coincidono perfettamente.
Come
in una tragedia greca, sono i capricci degli Dei a definire gli eventi
per gli umani: i desideri dei grandi gruppi industriali e finanziari,
dei patron dell’economia mondiale.
Ai molti Mohamed ed Hassan – ma anche per i tanti Shlomo e Mordecai
– non rimane che osservarsi in silenzio mentre scendono le caverne
dell’Ade, senza comprendere perché quel lampo sia riuscito a privarli
dei colori, degli odori, dei suoni. A meno di un miracolo, chissà
quanti li seguiranno, e non saranno solo arabi ed israeliani.
Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it