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Assumersi
la responsabilità della propria salute e della propria felicità
Tratto
da «Ogni sintomo è un messaggio»
ed. Amrita
Non
possiamo parlare di metamedicina senza tener conto della legge di
responsabilità, giacché essa costituisce la condizione di base per una
vera guarigione.
Quando studiavo microbiologia, interrogavo i miei professori per sapere
dove provenissero i microbi (batteri, virus, parassiti, eccetera), e mi
rispondevano che questi agenti patogeni provenivano da contaminazioni.
Accettavo la cosa continuando però a chiedermi dove la prima persona
avesse potuto contrarre il microbo. Mi adeguai, paga della massa di
conoscenze che esploravo nel mondo affascinante dei microrganismi, ma i
miei interrogativi erano latenti; quando cominciai a lavorare in
ospedale, ricominciai a chiedermi perché il tale si ripresentasse di
continuo con infezioni urinarie, e la tal altra con vaginiti a
ripetizione.
Ricordo in particolare un uomo anziano, con la tubercolosi, che
praticamente non usciva mai di casa; i pochi visitatori che riceveva non
avevano il bacillo di Koch a cui si attribuiva la sua malattia: dove mai
avevano potuto contrarre quell’infezione?
Intuitivamente, sapevo che gli esseri umani possiedono la capacità di
sviluppare la malattia sia attirando l’agente infettivo mediante la
frequenza vibratoria, sia destabilizzando le molecole delle proprie
cellule, consentendo in tal modo lo sviluppo di una patologia. Ma quando
azzardavo a proporre questa ipotesi, tutti mi deridevano.
Il Mahatma Gandhi diceva: «L’errore non diventa verità solo perché
si propaga e si moltiplica. E la verità non diventa errore solo perché
nessuno la vede».
Assumere la responsabilità di ciò che viviamo significa riconoscere e
accettare che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, i nostri
atteggiamenti – proprio come le lezioni che bisogna imparare nella
nostra evoluzione – abbiano dato luogo sia alle situazioni felici e
infelici in cui ci siamo imbattuti sia alle difficoltà o alle gioie che
viviamo attualmente.
Quando
nei seminari e nelle conferenze tocco questo tasto, spesso la gente
ribatte: «Sarei io che mi sono attirato un padre violento?», «Se un
bambino nasce malato, non sarà mica colpa sua?». «Se mio marito ha
perso il lavoro, è perché l’azienda in cui lavorava ha chiuso: non
ha nulla a che vedere con lui», «Come a dire che, se ho mal di
schiena, sarebbe colpa mia!», «Non pensavo che uno potesse fabbricarsi
una malattia!», «E’ davvero ingiusto. Mio figlio, che no ha fatto
male a nessuno, sarà handicappato tutta la vita, mentre ci sono dei
criminali che stanno benissimo».
Il mio secondo padre diceva: «C’è un’unica giustizia sulla terra,
ed è la morte».
Tutte queste riflessioni traducono un’incomprensione della legge
fondamentale della responsabilità, molto spesso confusa con il senso di
colpa: è questa confusione a renderla difficile da accettare agli occhi
di molte persone, che la leggono così: «Se questa situazione o questa
malattia me la sono creata io, allora sarebbe colpa mia se sto male».
Questa chiave di lettura è sbagliata, ed è – per molti di noi –
dovuta al tipo di educazione religiosa in cui siamo cresciuti. La
cultura giudaico-cristiana ci ha insegnato ad affidarci a un potere
superiore, Dio, e che se agiamo secondo i suoi comandamenti e
pratichiamo azioni meritorie, veniamo ricompensati in questa stessa vita
o dopo la morte; se invece non obbediamo ai suoi comandamenti o a quelli
della Chiesa ci attende la punizione! Con questa base alla prima
difficoltà inattesa e inspiegabile automaticamente ci viene da pensare:
«Cos’ho fatto di male perché debba capitare questo proprio a me?»
Oppure cerchiamo un responsabile esterno, ci dev’essere per forza un
«colpevole».
Così,
quando una situazione ci fa soffrire, abbiamo preso l’abitudine di
colpevolizzarci (credendolo di essercela meritata) oppure ne accusiamo
altri, o addirittura Dio.
Quando dico che essere responsabile della situazione significa che mi
riconosco quale creatore di ciò che vivo, non intendo insinuare che ho
creato deliberatamente una situazione gradevole o sgradevole, ma che
bisogna accettare e riconoscere che i nostri pensieri, il nostro
sentire, i nostri atteggiamenti o le lezioni che è necessario integrare
nella nostra evoluzione, hanno generato le situazioni felici o infelici
che ora stiamo vivendo. La legge della responsabilità, di conseguenza,
non ha nulla a che fare con il merito o la punizione, con la fortuna o
la sfortuna, con la giustizia o l’ingiustizia, oppure con la colpa:
riguarda solo il concatenarsi delle cause e degli effetti.
Non siamo forse
liberi di accettare
una credenza o rifiutarla? Di scegliere le parole di cui ci serviamo? Di
interpretare una parola o una situazione?
Non siamo forse
liberi di amare e di
odiare? Di accusare o comprendere? Di dire del male o del bene?
Non siamo forse
liberi di guardare
la verità in faccia o di mentire a noi stessi? Di reagire o di agire?
Di alimentare la paura o di avere fiducia?
Si, siamo liberi dei
nostri pensieri, dei nostri sentimenti, delle nostre credenze, dei
nostri atteggiamenti, delle nostre scelte.
Sebbene abbiamo, tutti quanti, questa libertà intera, non possiamo
sfuggire alle conseguenze di ciò che scegliamo di dire, fare, credere.
Forse
sei pronto a rinascere il peso delle tue scelte e delle loro
conseguenze, ma forse penserai: «Se una persona è al volante e
un’altra la investe in pieno, non avrà mica scelto lei di avere un
incidente?». No, certamente. E tuttavia, che cosa è accaduto prima dell’incidente
perché questa persona si trovi in quel contesto?
(…)
«Nulla
è frutto del caso»
Questa verità
fondamentale è a volte manipolata, per esempio da certi leader che, per
far leva sui loro adepti, dicono: «Il caso non esiste, e se sei venuto
qui è perché hai bisogno di noi». E’ giusto che non esiste il caso,
e tuttavia l’interpretazione che si può dare di questa affermazione
non è necessariamente quella giusta. Può darsi che una persona si
trovi in un gruppo per imparare a dire di no oppure per impiegare il
proprio discernimento.
Lo stesso Buddha diceva: «Non credete a me, verificate, sperimentate, e
quando saprete da voi stessi che qualcosa è favorevole, allora
seguitelo; e quando saprete da voi stessi che qualcosa non vi è
favorevole, allora rinunciatevi».
Un senso di colpa può essere la causa di incidenti, problemi e oltre
forme di autopunizioni? Osserva, e trai le tue conclusioni. Puoi
verificarlo, se hai già avuto un incidente, che cosa stavi vivendo
prima di esso? Un incidente a un piede o alle gambe può essere
facilmente collegato a un senso di colpa, per il fatto di precedere
qualcuno che invece fa da freno, magari perché a sua volta si rifiuta
di avanzare. Un incidente a un dito può essere collegato a un certo
perfezionismo; ci si sentire colpevoli per aver eseguito un lavoro
troppo in fretta o senza troppa cura.
La simbologia del corpo può aiutarci a stabilire questo collegamento
fra un incidente e ciò di cui si sentiamo colpevoli.
(…)