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Mercanti di utopie
Di Nadia Betti da «Pi Kappa», anno II, nr. 3, 1973

La Terra fu visitata in epoche remotissime da esseri di altri pianeti, in possesso di conoscenze a cui soltanto ora gli uomini stanno faticosamente giungendo?
Si debbono interpretare in tale senso gli innumerevoli e circostanziati accenni che in tutte le religioni antiche e in tutte le tradizioni mitologiche, cosmogoniche e folcloristiche, ricordano esseri sovrumani, viaggi e veicoli spaziali, eventi straordinari, poteri miracolosi? Che cosa dire, poi, di tanti misteriosi reperti archeologici, di tante nozioni inspiegabilmente acquisite nelle civiltà antiche, delle costruzioni ciclopiche, dei graffiti, dei disegni, delle sculture che, nei luoghi più impensati, ci propongono figure ed ordigni analoghi a quelli divenuti a noi familiari solo nell’era spaziale?
A chi si è accostato a questo problema attraverso recentissime opere vorremmo regalare un’emozionante primizia, riferendo le dichiarazioni di uno scrittore, che danno alle nostre domande una risposta esplicita ed esauriente oltre ogni aspettativa.

Biblioteca cosmica
Nella foresta vergine ecuadoriana, ai confini col Perù, si apre l’accesso ad un gigantesco sistema di gallerie che, con le sue innumerevoli diramazioni, si prolunga per centinaia di chilometri sotto il continente. La prima caverna si trova a 240 metri di profondità; di lì si dipartono i vari corridoi, tutti con pareti e soffitti diligentemente levigati e forniti, a distanze regolari, di fori per la ventilazione. Uno dei corridoi conduce in una sala gigantesca, di 110 metri per 130; e nel mezzo della sala c’è un «tavolo per riunioni». Il tavolo, come le sette sedie che lo circondano, appaiono fatti di un materiale sconosciuto: non è di pietra, né legno, né metallo, ma di pesantezza e durezza metalliche. Il tutto è attorniato da una specie di giardino zoologico: sculture di animali di ogni razza, comprese alcune specie estinte.

A sinistra, dietro il tavolo, la «biblioteca»: migliaia di sottili lamine metalliche, coperte di segni che ricordano quelli dei nostri computers, probabilmente caratteri di una scrittura con i quali gli extraterrestri vollero lasciare importantissimi messaggi agli uomini di un lontano avvenire.
Dappertutto, nelle gallerie, si levano strane sculture: esseri impugnanti misteriosi ordigni, cubi con simboli matematici, geometrici, astronomici. E poi c’è l’oro: oro puro, a mucchi, a tonnellate, lavorato e grezzo. Alcune lamine hanno gli stessi segni impressi su quelle della biblioteca, altre mostrano stelle, lune, soli, elefanti (estinti nell’America meridionale da 12 mila anni), schemi di macchine che ricordano i più moderni aerei.
Perché quegli esseri di un altro mondo si sarebbero seppelliti sotto la foresta ecuadoriana? Lo scrittore non può fare che una supposizione, che sarà forse confermata (dice lui) dalla decifrazione, certo ardua, della loro scrittura. E’ noto che in molte mitologie si racconta di una guerra nel cielo: noi la chiameremmo, oggi, guerra spaziale. Gli sconfitti del cosmo riparano sul pianeta Terra, e, con strumenti analoghi a quelli recentemente inventati, si scavano un rifugio, sottraendosi così alla caccia data loro dai vincitori. Molti anni dopo, cessato il pericolo, decisero di entrare in contatto con i terrestri per contribuire alla loro evoluzione.

L’archeologo della domenica
Anche a prescindere da quest’ultima ipotesi, il racconto sembra troppo bello per essere vero, steso per accontentare coloro che da tempo stanno studiando la possibile esistenza, in Sudamerica, di una vasta rete di gallerie: quasi quasi appare inverosimile allo stesso narratore, il quale si ripromette, comunque, di fornire ulteriori ragguagli.
Li abbiamo avuti con l’ultimo del signor Erich von Daniken, e ci siamo accorti che si tratta di una grossa e maldestra mistificazione. Lo scrittore si autodefinisce un «archeologo della domenica», a cui molti attribuiscono troppa fantasia. Noi gli attribuiremmo, piuttosto, molta disinvoltura: i suoi primi libri sono dovuti a saccheggiamenti e rimanipolazioni di testi altrui; malgrado ciò, è riuscito a presentarsi presso un certo pubblico sprovveduto, come elaboratore di suggestive ipotesi che, invece, aveva soltanto assimilate rozzamente
In alcuni anni di attività (interrotta dai venti mesi di carcere a cui lo costrinse una condanna per appropriazione indebita, falso e truffa), il Daniken confezionò un paio di volumi nei quali di suo non c’è che qualche sciocchezza e qualche bugia; il testo è rubato ad autori come Kolosimo, Pauwels e Bergier, Charroux ed altri.
E’ naturale, quindi, che qualcuno abbia pensato di controllare la veridicità delle esperienze dell’ex albergatore. Lo ha fatto il settimanale tedesco «Stern», inviando sui luoghi visitati dall’autore svizzero Hero Buss, un giornalista che ha potuto smentire una per una le «sensazionali scoperte». Non solo: anche una spedizione scientifica, guidata dal geologo Otto G. Geyer, è giunta a constatare l’inattendibilità di tali asserzioni.

Rontgen nella preistoria
Forse il Daniken riteneva che l’ingresso al suo gigantesco sistema di gallerie fosse al sicuro da indagini indiscrete, sepolto com’era nella giungla ecuadoriana e vigilato da feroci indi che, «acquattati nella boscaglia, soffiano con cerbottane frecce avvelenate contro gli stranieri». Il posto, poi, era conosciuto solo dallo stesso Daniken e dall’argentino Juan Moricz, il quale lo aveva assai sommariamente esplorato anni fa, ventilando l’ipotesi che esistesse un complesso sistema di gallerie sotterranee intercomunicanti.
Nel marzo 1971 il Daniken piombò in Ecuador alla ricerca di materiale per il suo nuovo libro e si incontrò con Moricz ed un suo conoscente, l’avvocato Garardo Pena Mathaus. L’argentino, «malgrado la sua scontrosità e la sua diffidenza verso giornalisti e scrittori», si intrattenne amichevolmente con lo svizzero.

Qualche mese dopo i due sudamericani si videro arrivare il volume di Daniken sulle «esperienze» ecuadoriane e rimasero allibiti. L’amico non aveva mai visto le gallerie di cui magnificava le meraviglie. Moricz e Pena si erano addirittura rifiutati di accompagnarlo davanti all’ingresso principale del sistema sotterraneo (davvero impressionante nella sua perfezione) sepolto nel profondo della foresta a sei giorni di faticoso cammino da Cuenda, e si erano limitati a condurlo ad un’«entrata secondaria» nei pressi della città, un luogo accessibilissimo in cui si poteva entrare – citiamo lo «Stern» - «in giacca e cravatta».
Neppure le dichiarazioni di Moricz e Pena sono degne di fede; la speculazione germanica ha infatti appurato che l’accesso principale alle gallerie non è stato scoperto dall’argentino; la sua esistenza era nota a molta gente del posto.

Ma torniamo al Daniken: se avesse davvero esplorato il sotterraneo che descrive così bene, non vi avrebbe potuto notare tracce di opere umane (o di extraterrestri). Nel tratto conosciuto i cunicoli e i corridoi appaiono scavati da un fiume ora asciutto, non contengono tavoli, sedie, biblioteche. Egli, però durante il suo soggiorno in Ecuador, vide alcuni reperti archeologici, in parte veri, in parte falsi, e generosamente li promosse a venerabili meraviglie.
Così fece, ad esempio, con un rilievo rupestre rappresentante uno scheletro umano, sul quale contò ben dieci paia di costole e dal quale trasse la convinzione che i nostri preistorici dovevano conoscere i raggi Rontgen: come spiegare altrimenti tanta precisione?
Non c’è nemmeno da pensare – è ovvio – che avessero in qualche modo visto uno scheletro umano: in quel tempo non c’erano che invertebrati o immortali. Se, comunque, avesse provato a tastarsi semplicemente il petto, il Daniken avrebbe trovato le costole anche senza Rontgen: addirittura dodici paia, quante ne avrebbe viste sul bassorilievo rupestre se avesse contato un po’ meglio.

E l’oro? Quello lo svizzero lo ha davvero ammirato, a mucchi se non a tonnellate, lavorato in modo egregio. Purtroppo non era proprio oro.
Nel villaggio di Cuenda c’è un vecchio missionario italiano padre Crespi, che in tempi lontani aveva raccolto preziosi manufatti dell’antichità india, per inviarli ai musei vaticani. A novant’anni, continua a collezionare oggetti di ogni genere.
Ma il povero padre non è più in grado di distinguere il nuovo dall’antico, l’oro dall’ottone; e gli indigeni sfruttano il suo entusiasmo e la sua ingenuità. Ad un noto archeologo, Olaf Holm, padre Crespi mostrò con orgoglio un radiatore d’automobile, presentandolo come un pregevole manufatto preistorico.
Così il Daniken fotografò, nel cortile della chiesa del missionario, lastre scolpite, lamine e statuette di bronzo, di ottone e di latta, di piombo e di stagno, tutte più o meno luccicanti. Moricz, che pure lo aveva avvertito della decadenza senile del sacerdote e del valore del «tesoro», non resistette al penoso spettacolo e se ne andò.
Ci si domanda: perché il Daniken si ostina a spacciare per oro tutto il suo stagno? A che cosa mira con le sue «scoperte?».
La risposta non è difficile. Lo svizzero punta su un pubblico, che accontentandosi di sensazioni spicce, provvede a trasformare per lui stagno e latta in oro.

 
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