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Maledetta
primavera
di Carlo
Bertani – www.disinformazione.it
Maledetta primavera, verrebbe da dire:
dal lontano 2003 – dall’attentato di Nassirya – non c’erano più
stati attacchi specificatamente diretti contro i militari italiani,
anche se in zona di guerra, purtroppo, ogni tanto “ci scappa il
morto”, è inevitabile.
Questa sarebbe già una riflessione “pesante” da proporre a chi inviò
i nostri soldati in una missione “di pace”, in un territorio che
dire sconvolto dalla guerra significa usare il più edulcorato degli
eufemismi.
Nassirya fu l’attentato principe, l’attacco con
il quale la guerriglia irachena volle indicare l’uguaglianza delle
forze italiane alle altre che avevano condotto le operazioni belliche:
in sostanza – comunicarono gli attentatori – chiunque occupa il
suolo iracheno è da considerare un invasore.
La natura bellica della missione
italiana è stata chiara sin dall’inizio, giacché il comando
americano sapeva che il controllo militare dell’Iraq sarebbe stato
lungo, sanguinoso e, oggi, aggiungiamo anche incerto.
Lo spiegamento delle forze italiane a Nassirya è
importante – nel quadro generale del controllo del territorio – per
controllare dal sud la penetrazione verso le aree centrali (Baghdad) e
viceversa, mentre gli inglesi a Bassora devono soprattutto porre
attenzione ai contatti con il vicinissimo Iran, distante poche decine di
chilometri.
Questo spiegamento tattico doveva lasciare “mani libere” agli
americani per controllare il centro dell’Iraq, poiché essi
immaginavano che le forze curde sarebbero state in grado da sole di
controllare le aree settentrionali.
La natura militare dell’intervento
italiano risulta chiara addirittura dall’analisi dei documenti
approvati dal Parlamento per il finanziamento della missione: costata
circa un miliardo di euro l’anno, la ripartizione dei fondi assegna
agli interventi di ricostruzione il 6% dei finanziamenti ed il 94% alla
parte essenzialmente militare. E poi raccontano siamo andati ad
“aiutare” gli iracheni.
Molto strano fu anche l’atteggiamento della
guerriglia dopo la cosiddetta “battaglia dei ponti”, nella quale
perse la vita un nostro lagunare: fu un episodio cruento, nel quale gli
italiani spararono indistintamente su guerriglieri, dimostranti e
popolazione civile. Molto probabilmente la guerriglia si servì dei
civili come “scudo”, ma fu comunque un errore cadere in quella
provocazione.
Dopo la “battaglia dei ponti” – risolta con
l’intervento di un C-130 Spectre, una “cannoniera” volante
americana in grado di sparare dall’aria colpi da
Dal campo trincerato uscivano ed escono
in convogli di mezzi blindati per controllare le principali vie
d’accesso alla città, protetti dall’alto dagli elicotteri, ma è
del tutto evidente che il controllo del territorio è loro sfuggito da
tempo.
D’altro canto, un maggior impegno nel controllo
capillare del territorio (sul quale premevano i comandi USA) si sarebbe
inevitabilmente trasformato in un maggior tributo di sangue che il
governo italiano non poteva sopportare: anche se l’elettorato italiano
è diviso a metà, le statistiche ci dicono che più dei 2/3 degli
italiani sono favorevoli al ritiro delle truppe.
Ciò che avvenne dopo la “battaglia dei ponti” fu
una sorta d’armistizio – o meglio, quasi un protocollo d’intesa
– fra le forze italiane e le autorità locali che – come tutti sanno
o possono facilmente immaginare – sono quelle che hanno contatti con
la guerriglia.
Da quasi un paio d’anni la situazione
nella provincia di Nassirya era tranquilla: i caduti italiani che ci
sono stati in questo lasso di tempo sono da addebitare all’inevitabile
pericolo che corre chi opera in zona di guerra, così come è capitato a
giornalisti e civili.
Improvvisamente, nel maggio del 2006 la situazione
muta; non più sporadici colpi d’arma da fuoco, bombe di
“avvertimento” o qualche isolato colpo di mortaio: l’attacco nel
quale hanno perso la vita i nostri militari era una trappola
accuratamente preparata per uccidere, per uccidere degli italiani.
Pochi giorni dopo ed un nuovo attacco – fotocopia di quello iracheno
– colpisce in nostri soldati in Afghanistan: fatalità? Si noti che in
entrambi i casi sono state usate vere e proprie mine anticarro, che non
lasciano scampo agli occupanti dei mezzi.
In una comunicazione dei servizi
italiani – resa pubblica il 6 maggio 2006 – si afferma che gli
attentati sono da mettere in relazione con il “cambio di governo”
che sta per avvenire. Perché la guerriglia islamica dovrebbe colpire le
forze armate di una nazione pur sapendo benissimo (almeno per l’Iraq)
che il nuovo governo ritirerà le truppe?
Una forma di pressione per accelerare il ritiro delle
truppe? Difficile da dimostrare: anzi, una recrudescenza del conflitto
contro gli italiani avvantaggia chi quelle truppe vorrebbe lasciarle in
Iraq, che potrà così accusare il prossimo governo d’essere fuggito
“con la coda fra le gambe” senza onorare con l’impegno per la
“democrazia irachena” il sangue versato.
Se l’Iraq è comunque un terreno sul quale è
difficile imbastire queste speculazioni – vista la decisione
d’entrambi gli schieramenti di terminare la missione – per
l’Afghanistan le cose si presentano diverse, giacché le forze
italiane fanno parte di una coalizione con compiti di sorveglianza che
ha avuto l’imprimatur dell’ONU.
Spesso sentiamo affermare la
“sostanziale” differenza fra le due missioni proprio per l’avallo
che le Nazioni Unite diedero dopo la cacciata dei Taliban da Kabul e
l’insediamento di Karzai come presidente, in un paese che si riteneva
“pacificato”.
Il nesso che lega le due situazioni e che le rende
entrambe pericolose per chi vi partecipa risiede proprio nel significato
del termine “pacificazione”, che è vago, troppo vago.
I due paesi saranno “pacificati” quando lo stato funzionerà su un
modello di tipo occidentale – ossia Parlamento, Governo, elezioni
democratiche, ecc. – oppure ci si accontenterà della tregua delle
armi? E come si pensa di giungere alla soluzione?
L’impressione che i media hanno cercato di fornire
in occidente della situazione è fuorviante: se per l’Iraq era
impossibile sostenere qualsiasi tipo di ritorno alla “normalità”,
per l’Afghanistan si è lasciato credere per molto tempo che la
situazione fosse tranquilla – come in Bosnia, ad esempio – e che si
trattasse oramai solo di definire i “dettagli” della
“normalizzazione”.
L’inganno nasce dalla scarsa
conoscenza che l’opinione pubblica occidentale ha di quel lontano
paese: per certi versi, è più pericolosa la situazione afgana di
quella irachena poiché l’Afghanistan è un’entità statuale assai
incerta – a differenza dell’Iraq e del suo nazionalismo, che nacque
già prima della seconda guerra mondiale – dove l’unico paragone che
in qualche modo regge per comprendere la situazione è quello dei
Balcani. Il che, ad un osservatore attento, dovrebbe far correre un
brivido lungo la schiena.
Anche in Afghanistan incontriamo il solito pudding
di lingue, etnie e confessioni religiose interne all’Islam: i pashtun
di lingua urdu sono la maggioranza, ma una consistente parte di
quell’etnia risiede oltre confine, in Pakistan. All’est vivono
popolazioni semi-nomadi di fede sciita, che dunque si sentono più
vicine agli ayatollah iraniani che al governo di Kabul. Ci sono poi le
popolazioni del nord, tagiki ed uzbeki, che hanno combattuto a lungo i
sovietici per poi riaprire il sipario contro i Taliban, questa volta
sorretti dai russi, gli ex sovietici.
I Taliban, a loro volta, furono
finanziati dagli USA fino alla fatidica data del settembre 2001, per poi
essere definitivamente abbandonati in favore del nuovo “alleato” –
il Pakistan – sul cui programma nucleare, a differenza dell’Iran,
nessuno trova niente da ridire.
Noi italiani usiamo per comodità il termine
“casino” per definire simili situazioni: il problema è che, se non
riusciamo a penetrare meglio nelle pieghe di questo “gran casino”,
non sapremo mai se è meglio lasciare i nostri soldati a Kabul oppure
ritirarli.
Lo strano appoggio ai Taliban da parte degli USA
coincideva con un nome: UNOCAL, ossia una società che avrebbe dovuto
costruire un oleodotto che, partendo dalle repubbliche ex sovietiche
dell’Asia centrale, sarebbe proseguito in Afghanistan da Herat e
Kandahar – tagliando il paese da nord a sud – per poi entrare in
Pakistan nella zona di Quetta e terminare nel porto di Karachi. Sono le
stesse aree dove oggi si muore apparentemente senza ragione, per
conquistare aree desertiche senza nessun valore intrinseco.
Ufficialmente, UNOCAL sosteneva che la
costruzione del grande oleodotto fosse funzionale allo sviluppo delle
economie asiatiche: il lontano 12 febbraio del 1998 un dirigente della
UNOCAL – John J. Maresca – si presenta di fronte al sottocomitato
del Congresso USA per l’Asia ed il Pacifico ed espone le sue tesi.
In sostanza – afferma Maresca – dato che
l’incremento economico di Cina ed India crescerà in modo esponenziale
e condurrà – in assenza di un aumento dell’offerta – ad una
levitazione dei prezzi dell’energia (cosa, poi, puntualmente
avvenuta), sarebbe meglio pensarci anzitempo, creando un terminal
petrolifero nei pressi di Karachi ed alimentandolo, mediante
l’oleodotto afgano, con il petrolio del Caspio e delle ex repubbliche
sovietiche.
Non dimentichiamo che a quel tempo al Cremlino
regnava un “appassionato” della vodka che portava il nome di Yeltsin,
al quale era facile far “digerire” qualsiasi accordo, anche se fosse
stato un accordo-capestro: nessuno immaginava, allora, il prorompente
ingresso in scena di Vladimir Putin.
Passano appena due anni e gli USA
cambiano amministrazione: guarda a caso, i nuovi dirigenti americani
provengono quasi tutti dal mondo del petrolio, da Condoleeza Rice (Chevron)
a Cheney (Halliburton) fino allo stesso presidente Bush.
La nuova amministrazione si mostra subito molto
attenta al progetto della UNOCAL, al punto d’incontrare il
rappresentante del Mullah Omar – Sayed Rahamatullah Hascimi – più
volte: l’ultimo incontro avviene il 2 agosto 2001 ad Islamabad, dove
gli afgani rifiutano di partecipare al progetto americano (che richiede,
in cambio, di liberarsi dell’ingombrante presenza di Bin Laden) e
dicono di no al 15% degli utili dell’impresa. E’ la guerra.
Perché si giunge a tanto?
Per capire il “mutar del vento” bisogna per prima cosa capire da
dove spira: mentre UNOCAL progetta di costruire il suo oleodotto in
Afghanistan, i cinesi prolungano importanti tratti ferroviari che,
partendo dalle aree centrali cinesi, dovranno varcare i confini
occidentali in vari punti, in Tagikistan, Kirghizistan e forse anche
Afghanistan. Insomma, mentre gli americani progettano un oleodotto con
direzione nord-sud, i cinesi costruiscono i primi tratti di un
collegamento est-ovest che chiamano – senza alcuna remora – “Pechino-Parigi”.
In sintesi, la guerra afgana avviene sullo sfondo (abilmente celato) di
una contesa per il controllo delle vie d’accesso all’Asia centrale:
siano oleodotti, strade o ferrovie, il nesso della situazione è
stabilire chi controllerà quelle aree, ossia le potenze occidentali,
La guerra per liberarsi degli
ingombranti Taliban, però, non viene condotta dagli occidentali in
prima persona: con sotterranee trattative si riescono a mettere
d’accordo i resti della componente tagika (che aveva come leader
l’unico, vero uomo politico afgano, Ahmad Shah Massud, ucciso da
Al-Qaeda il 9 settembre 2001) con gli uzbeki del “generale” Dostum:
nasce la cosiddetta “Alleanza del Nord” che, sorretta dagli
americani e dai russi, libera l’Afghanistan dagli studenti col mitra.
Il primo, evidente errore strategico sta proprio
nell’illusione che una lotta interna afgana possa sfociare in una
“liberazione” dalla quale potrà nascere una entità statuale super
partes, ossia non condizionata dalle fazioni interne.
Per tentare una normalizzazione del paese gli USA inviano un manager
petrolifero dei Bush, Ahmid Karzai, che cerca – terminate le ostilità
– di mediare fra le varie “anime” afgane convocando
La partita interna afgana si gioca su più
fronti: da un lato bisogna accontentare le esigenze dei clan –
In realtà la lunga lista non terminerebbe nemmeno
qui, giacché anche il Pakistan e l’Iran fanno parte della contesa, ma
il problema più evidente e tragico riguarda i cosiddetti “signori
della guerra”. Chi sono costoro?
L’uzbeko Abdul Rashid Dostum è un ex paracadutista
sovietico, del quale non si sa nemmeno con certezza il grado che
rivestiva nell’Armata Rossa: taluni affermano che fosse generale,
altri optano per un più umile “sergente”. Dostum, terminate le
ostilità, si ritira a Shebergan, nel nord del paese, e da lì inizia ad
esigere i dazi doganali con il vicino Uzbekistan (circa 200.000 dollari
l’anno) ma non invia un centesimo a Kabul ed a nulla servono le
blandizie e le minacce di un impotente Karzai per convincerlo a scucire
la borsa. Come nel più tradizionale Medio Evo, Dostum destina metà
della cifra ai suoi vassalli delle milizie di Jamiat e di Hezb i Wahad
ma non può lamentarsi, perché controlla anche il traffico d’oppio
(16.000 dollari ad ettaro coltivato) e le risorse di gas naturale.
Un altro “sostenitore” del governo
di Karzai sarebbe dovuto essere Gulbuddin Hekmatyar, signore delle aree
meridionali, grande amico dei Taliban e dei wahabiti sauditi che li
finanziavano. Questo “brav’uomo”, nel 1990 bombardò per settimane
Kabul per spianare la strada ai Taliban, provocando la morte di 25.000
persone ed il ferimento di altre 100.000. Quando i Taliban entrarono in
Kabul conquistarono una città spettrale, completamente abbandonata
dagli abitanti, nella quale si dedicarono alla ricerca degli ex
sostenitori dei sovietici, che impiccarono ai ganci dei carri-attrezzi
dopo aver tagliato loro i testicoli ed averglieli ficcati in bocca.
Hekmatyar, in quel panorama, si vantava di girare per le
vie di Kabul con una bottiglietta di acido solforico in tasca, per
spruzzarlo sulle donne che non avevano il viso completamente coperto.
Oggi, questo signore ha “giurato” fedeltà ad Osama Bin Laden: ma
sarebbe questa una notizia? Al-Zawahiri ed Hekmatyar si conoscono da
almeno trent’anni, ossia da quando entrambi erano adepti della
Fratellanza Musulmana: sa mai, bisognerebbe domandare agli americani
come pensavano di governare il nuovo Afghanistan con simili tipacci in
giro, che riconobbero ufficialmente come “leader regionali”. Forse,
nella loro visione del nuovo Afghanistan, sarebbero dovuti diventare
delle specie di “governatori”: a nulla valsero gli avvertimenti
della Loya Girga e dell’ex sovrano Zahir Shah (che consigliavano di
“disfarsi” dei “signori della guerra”), perché gli americani
non li ascoltarono.
La lista dei feudatari è lunga e
potremmo continuare con altri nomi, presenti e passati nella storia
afgana – Ismail Khan, Abdul Rasul Sayyaf, Haji Kadeer, Mohammed Fahim,
Mohammed Daud, Ustad Atta Mohammad ed altri ancora – chi legato
all’Iran, chi ai tagiki, chi al Pakistan…ma la sostanza non cambia:
feudatari medievali che, per giunta, non riconoscono nemmeno l’autorità
dell’imperatore-Karzai.
Questa situazione implica gravi problemi economici
giacché, se nessuno versa le tasse al governo centrale, non si
comprende come lo stesso possa sopravvivere. Finora Karzai ha “tirato
avanti” con gli aiuti internazionali, ma anche questo doloroso tasto
rivela più un fallimento che rosee prospettive.
Già nel lontano 2002, alla conferenza di Tokyio, i fondi destinati dai
paesi occidentali per la ricostruzione dell’Afghanistan furono scarsi:
circa 5 miliardi di dollari, mentre ne sarebbero serviti almeno il
doppio, ma – ad oggi (2006) – non è giunto a Kabul nemmeno il 30%
di quei fondi.
La successiva guerra irachena – dove
la fragile unità raggiunta per l’Afghanistan andò in frantumi –
finì per riflettersi anche su Kabul: gli USA iniziarono a lamentarsi
dell’alto costo della missione per le loro forze (1 miliardo di
dollari l’anno) ed a chiedere sempre di più agli altri paesi i quali,
memori dello scontro in Consiglio di Sicurezza dell’ONU, strinsero i
cordoni della borsa.
In Afghanistan, tutto ciò ha condotto al quasi
totale fallimento delle opere di modernizzazione del paese: la
costruzione della grande strada che doveva congiungere Herat a Kandahar
(guarda a caso, lo stesso percorso dell’oleodotto UNOCAL) è ferma e
ne è stato costruito poco più del 2%.
Se si esclude l’area di Kabul, il resto del paese è completamente
abbandonato alle milizie locali: siccome sta risorgendo con forza la
coltivazione del papavero da oppio, l’Afghanistan si sta trasformando
in uno stato di narcotrafficanti come
Le operazioni militari contro i Taliban
sono condotte con scarsi mezzi: non ci sono sufficienti soldati per
imbastire vere e proprie campagne militari, ed allora si ricorre al
solito controllo dall’aria, sparando nel mucchio su tutto quello che
si muove.
Quel “tutto quello che si muove” possono essere
oggi guerriglieri di Al-Qaeda e domani semplici contadini che girano
armati, perché in Afghanistan non è possibile permettersi il lusso di
girare disarmati: la povera giornalista italiana Cutuli non fu uccisa da
un gruppo di terroristi, ma da una banda di comuni tagliagole per
rapina, per pochi dollari e per rivendere le attrezzature sui banchi di
qualche mercato locale.
Le forze d’occupazione – dopo tanti “tragici
errori” – sono oramai guardate con sospetto: chi può fidarsi di
questi soldati, gli stessi che sparano con le mitragliatrici dagli
elicotteri?
Come ricordavamo, la campagna afgana
nacque con un grave difetto d’origine, ossia l’assurda teoria che
uno scontro fra fazioni interne avrebbe condotto ad uno stato
pacificato, ed oggi ne scontiamo le conseguenze.
Per risolvere la situazione bisognerebbe sconfiggere
ad una ad una le varie milizie ed occupare l’intero territorio con
contingenti che non permettessero il riformarsi delle stesse: inoltre,
bisognerebbe per anni sostenere economicamente l’Afghanistan con
consistenti finanziamenti internazionali.
Questa strategia militare potrebbe avvenire soltanto
con un consistente aumento dei contingenti occidentali, che dovrebbero
passare dalle poche decine di migliaia alle centinaia: ricordiamo che
Westmoreland, in Vietnam, ebbe al suo comando 530.000 soldati americani.
La conseguenza sarebbe però una lunga
guerra che provocherebbe molte migliaia di morti fra le forze
occidentali e che nessuno oggi – nel panorama politico interno
occidentale – può permettersi. Inoltre, ci vorrebbe un corrispondente
aumento dei fondi destinati alla ricostruzione: ricordiamo che
La risposta ai molti dubbi sull’avventura afgana
non spetta dunque a chi ne ha sempre sostenuto la sostanziale inutilità
– perché è inutile garantire i diritti minimi della popolazione
nella sola area della capitale, soprattutto se non sai per quanto tempo
potrai ancora farlo – ma a coloro che sostengono la missione: sono
coloro che decisero d’aprire il vaso di Pandora a dover trovare
soluzioni, non coloro che mettevano in guardia dallo scoperchiarlo.
Altrimenti – di là della dolorosa
pietà per i nostri soldati morti così tragicamente e dall’empatia
per chi oggi rimane nel paese – cosa racconteremo ai soldati che
restano in Afghanistan? Che nessuno caccia un soldo e che la situazione
non potrà che incancrenirsi ancor più? Con gli attuali, altissimi
prezzi del petrolio, quanti soldi giungeranno nelle casse dei wahabiti
e, da lì, in quelle di Al-Qaeda?
Nel silenzio assordante di chi promosse la missione,
e di chi ne tesse ancora oggi gli elogi con una retorica che non ha
nessi con la realtà, non possiamo far altro che ricordare ciò che
affermarono gli inglesi dopo la loro spedizione nel paese alla fine
dell’Ottocento: «Non è difficile entrare in Afghanistan: il problema
è uscirne.» Un secolo dopo i sovietici fecero loro eco: e domani?
Carlo Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it