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Una
luce è apparsa al presidente
A cura di Lewis H. Lapham*, da "Le
Monde Diplomatique" - luglio 2003
L'inverno
scorso, prima che la 3° divisione di fanteria americana penetrasse nella valle
dell'Eufrate, il 21 marzo, ho avuto occasione di recarmi spesso in Europa. In
quattro paesi e in cinque lingue diverse, da una settimana all'altra le
manifestazioni di antiamericanismo aumentavano d'intensità e forza. Gli Stati
uniti, mi è stato chiesto, vogliono impadronirsi del petrolio iracheno o è il
Pentagono che freme per sperimentare una nuova gamma di esplosivi?
Gli Stati uniti hanno davvero intenzione di costruire nel deserto mesopotamico
un villaggio della democrazia alla Potemkin? La politica della Casa bianca è
determinata dagli amici del Grande Israele? Colin Powell pensa con la sua testa
o, come un giocattolo meccanico, viene messo davanti a un microfono perché
diffonda messaggi umanitari? Bisogna considerare George W. Bush un ladro
maldestro o una canaglia baciapile?
Secondo i sondaggi di opinione, il 46% degli statunitensi si dichiara cristiano
evangelico, come il presidente Bush, quindi al sicuro nel giardino della
Redenzione in quanto nato due volte; il 48% considera un'eresia la teoria
evoluzionista e il 68% afferma di aver visto o incontrato il diavolo. Più di 50
milioni di lettori comprano romanzi avvincenti sul miracolo del secondo avvento,
la cui trama si ispira ai profeti babilonesi che annunciavano l'Estasi e
l'Apocalisse.
Il
ministro della giustizia, John Ashcroft, afferma che negli Stati uniti «abbiamo
Gesù come re», mentre Tom DeLay, leader della maggioranza repubblicana alla
Camera dei rappresentanti, dichiara che Dio gli ha affidato il compito di dare
una «visione biblica del mondo» alla politica statunitense e che «solo il
cristianesimo offre un modo di vivere che risponda alle realtà esistenti nel
mondo». Il presidente Bush non fa mistero dell'importanza che dà a questo
credo.
Salvare il mondo sotto le bandiere della diplomazia trascendentale che gli
americani hanno fatto la guerra contro il Messico negli anni '40 dell'800, poiché
la dottrina del Destino manifesto aveva rivelato che Dio aveva benedetto cavalli
e fucili. Nel 1859, Horace Greeley ha aggiornato questa dottrina per adattarla
al massacro degli indiani delle Praterie: «questa gente deve sparire, non
possiamo farci niente. Dio ha dato questa terra a coloro che la domineranno e la
coltiveranno ed è vano battersi contro il Suo giusto comandamento». Il
presidente democratico Woodrow Wilson ha coinvolto il paese nella prima guerra
mondiale del XX secolo brandendo lo stendardo di una crociata cristiana, e si è
dato la pena di redigere i quattordici punti presentati alla conferenza di pace
di Parigi nel 1919, in quanto «l'America ha l'infinito privilegio di compiere
il proprio destino e di salvare il mondo».
Come
oggi, allora gli europei non colsero subito la connessione americana con la
divina provvidenza e, alla lettura di una bozza del manifesto di Wilson, il
primo ministro francese Georges Clemenceau alzò la testa e esclamò: «persino
il signore onnipotente si era limitato a dieci comandamenti!».
George W. Bush si sente investito del potere della virtù cristiana.
Di fronte a un microfono aperto, lasciato a se stesso o alle formule di coloro
che scrivono i suoi discorsi, non perde occasione per ripetere con toni biblici
la buona novella: «la libertà che ci sta a cuore non è il dono dell'America
al mondo, ma il dono di Dio all'umanità».
Oppure: «non pretendiamo di conoscere tutte le vie della Provvidenza e tuttavia
possiamo affidarci a essa e riporre la nostra fiducia nel Dio d'amore che
presiede alla vita e alla storia». O ancora: «gli avvenimenti non dipendono da
forze cieche né dal caso, ma dalla mano di un Dio giusto e fedele». Altro
esempio: «l'equipaggio della navicella spaziale Columbia non è tornato in
porto a terra. Tuttavia possiamo pregare perché tutti i suoi membri siano
tornati in porto a casa loro». O ancora: «esporteremo morte e violenza
dappertutto per difendere la nostra grande nazione». Da qualche parte sulla
strada del Texas o su uno stagno del Maine, una grande luce è apparsa al
presidente.
Sono
cresciuto nel culto dei padri della Repubblica americana, intellettuali
coraggiosi e innovativi. Negli ultimi cinquant'anni, vedendo i politici chinare
la testa di fronte a un altare o a una croce, mi sono accontentato di leggervi
come una forma di gentilezza della ragione nei confronti della superstizione. Il
candidato è venuto a cercare voti e non vuole offendere le tradizioni locali.
Quando il presidente Ronald Reagan esibiva sulla manica della giacca la propria
appartenenza religiosa, il gesto poteva essere interpretato come un complimento
rivolto al coro. Ma, a meno di prendere alla lettera il linguaggio enfatico e
messianico del presidente Bush, è difficile spiegare come si sia potuti
arrivare al punto in cui l'America si attribuisce la missione di combattere la
lotta di Armageddon in Iraq e altrove. Stabilire un legame tra il paradiso
sognato dall'evangelista e l'utopia dell'uomo politico richiede un certo sforzo.
La maggior parte degli europei non vuole ammettere che le
corde che legano l'America all'Illuminismo si stiano allentando così
pericolosamente.
Che
ne è stato della storia raccontata da Thomas Paine o della speranza di una
repubblica democratica fondata sulle leggi della natura e il regno della
ragione? Dove è finita la saggezza di Abraham Lincoln o l'idealismo di Franklin
D. Roosevelt?
Queste domande non trovano risposte rassicuranti. La visione del presidente Bush
che agita il pugno della virtù in direzione dei quattro cavalieri
dell'Apocalisse non evoca la teoria politica di James Madison: fa pensare
piuttosto al puritano Jonathan Edwards che fa un sermone astioso di fronte a
un'assemblea di peccatori nel Massachusetts coloniale: «l'arco della collera di
Dio è teso e la freccia pronta sulla corda e la giustizia tende l'arco verso il
vostro cuore...»; o piuttosto ad al-Hadjaj, governatore di Baghdad nel 694, che
accoglieva gli abitanti con un messaggio destinato a provocare schock e paura:
«oh popolo d'Iraq... attraverso Dio ti spoglierò come una scorza d'albero, ti
affastellerò come una fascina di legna, ti batterò come si battono i cammelli
erranti... Attraverso Dio, ciò che prometto, compio; ciò che mi propongo di
fare, lo realizzo; ciò che misuro, taglio».
Dalla
preistoria a oggi Gli artefici delle libertà americane erano scopritori di
piante e stelle, incantati da ciò che Thomas Jefferson chiamava «l'inimitabile
libertà dello spirito umano». Studiavano scienza e filosofia con lo stesso
entusiasmo degli esploratori che disegnavano la cartografia delle sorgenti del
Missouri o misuravano il passaggio di Venere.
Non sapevano che farsene dei preti e insistevano sulla separazione della chiesa
dallo stato, non per timore che il potere dello stato minacciasse la religione,
ma, più giudiziosamente, per paura che il potere della religione minacciasse lo
stato.
Senza dimenticare le guerre di religione, il massacro della notte di san
Bartolomeo, i fuochi dell'Inquisizione cattolica e la croce insanguinata delle
crociate medievali in Europa, Jefferson assimilava il potere della religione a
una tirannide che «è stata duramente subita dall'umanità e ha riempito la
storia di dieci o venti secoli con troppe atrocità per non meritare che le
venga proibito di immischiarsi negli affari di governo».
Il presidente Bush parla a nome della preistoria statunitense, dall'alto di una
cattedra eretta nella foresta del puritanesimo, in un'epoca in cui l'America non
aveva ancora ricevuto il dono dei libri. Se crediamo ai suoi biografi, abbiamo
oggi alla Casa bianca un presidente così convinto che il corso degli
avvenimenti della storia si trovi «nelle mani di un Dio giusto e fedele» da
scambiare la propria ignoranza per virtù e la mancanza di curiosità per segno
di forza morale.
Un
modo di pensare così primitivo (un misto di paura, intolleranza e attrazione
per la magia) oscura lo spirito degli sciamani che disegnano i piani del
Pentagono per sconfiggere il Male, e spiega il regno punitivo della virtù che
ministero della giustizia, Congresso e Corte suprema impongono oggi alla società
statunitense.
Questo ripiego collettivo nelle brume di un passato semplificato rivela
l'esaurimento dello spirito che aveva ispirato la Costituzione e sorretto per
due secoli l'esperienza statunitense di libertà. I nostri esperti in
geopolitica a Washington si esaltano immaginando la loro guerra contro il
terrorismo come uno «scontro tra civiltà».
In realtà si tratta di uno scontro tra superstizioni, e quando li ascoltiamo
sentiamo il rullare dei tamburi di guerra e l'eco dei corni di bronzo che
risuonano nella notte dei tempi.
(Traduzione di A. M. M.)