|
|
Reporters
sans frontières e l'anomalia italiana*
a cura di Anna Manao, tratto da www.osservatoriosullalegalita.org
Reporters sans
frontières è un'associazione riconosciuta, di pubblica utilità, con
sede a Parigi e sezioni nazionali o uffici nei 5 continenti. Da oltre 17
anni opera per l'affermazione del diritto all'informazione. Grazie alla
collaborazione di oltre cento corrispondenti, questa organizzazione
internazionale denuncia le violazioni alla libertà della stampa nel
mondo, informando i media, realizzando campagne di sensibilizzazione,
lottando per contrastare la censura. L'associazione inoltre difende i
giornalisti imprigionati o perseguitati per la loro attività
professionale. Si è dotata di un sito d'informazione (www.rsf.org) che
censisce ogni giorno le violazioni della libertà di stampa nel mondo.
Il 3 maggio di ogni anno, in occasione della Giornata Internazionale
della Libertà di Stampa, pubblica un rapporto completo sulla situazione
dell'informazione nel mondo (sono oltre 150 i Paesi considerati). Il
Rapporto annuale 2003 (4 pagine) dedicato all'Italia inizia
eloquentemente con una conclusione già segnata: "Il pluralismo
dell'informazione non è garantito in Italia, sola grande democrazia
occidentale in cui la maggioranza dei media audiovisivi, privati come
pubblici, sono controllati, direttamente o indirettamente, dal potere
politico dominante". Riprendendo quanto dettagliatamente
documentato nell'inchiesta dell'aprile 2003 -Italie - Conflit d'intérêts
dans les médias: l'anomalie italienne, 17 pagine estremamente
circostanziate a cura di Soria Blatmann-, il Rapporto evidenzia
l'inefficacia delle misure previste dal progetto di legge sul conflitto
d'interessi in cui incorre Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio.
Il Rapporto
sottolinea inoltre come nessuna sanzione sia prevista nel caso di
trasgressione alle disposizioni previste dalla legge. Poi aggiunge che
l'OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa)
stima che "questa dipendenza diretta dei media dell'informazione
nei confronti del governo rappresenta un pericolo per la democrazia in
Italia. Secondo Freimut Duve, rappresentante dell'OCSE per la libertà
dei media, il caso italiano costituisce un precedente per altri paesi
che non rispettano la separazione tra media e esecutivo…"
Il Rapporto entra quindi nel merito della crisi della RAI e delle
ragioni che hanno portato alle dimissioni i consiglieri di minoranza,
fino a citare lo sciopero del 20 dicembre che, lanciato da alcuni
sindacati della RAI, è assunto dalla FNSI. Ma non è finita. Il
Rapporto riferisce che "l'anno (trascorso) è segnato da numerosi
attacchi alla libertà di stampa, con la censura a 5 trasmissioni
televisive e, nel quadro alla lotta antiterroristica, la moltiplicazione
delle perquisizioni a giornali e domicili di giornalisti.
Infine, la giustizia italiana ha contravvenuto agli standard delle
Nazioni Unite, condannando due giornalisti a pene detentive per delitti
relativi all'esercizio della loro professione (il riferimento è a
Stefano Surace e Raffaelle Iannuzzi). Forse meno nota, proprio in
Italia, è la richiesta formale da parte dell'OCSE (27 giugno 2002) al
presidente del Consiglio di giustificare la decisione di sopprimere
dalla griglia dei programmi RAI "Sciuscià" e "Il
Fatto". Che questa decisione, che ha come conseguenza il
siluramento di Santoro e Biagi, sia fatta risalire alla conferenza
stampa di Sofia (19 aprile 2002), la dice lunga sulla sensibilità degli
estensori del Rapporto a collegare in una chiara prospettiva politica
tutte le iniziative che su tali vicende ha assunto personalmente il capo
di governo.
Nell'introduzione
all'inchiesta -Conflitto d'interessi nei media: l'anomalia italiana-,
oltre alla preoccupazione dell'OCSE per la situazione italiana, che
rappresenta una oggettiva "sfida all'architettura costituzionale
europea", si riporta il giudizio dell'Assemblea parlamentare del
Consiglio d'Europa che considera come "il conflitto d'interessi,
tra le funzioni politiche esercitate da Berlusconi e gli interessi
privati di quest'ultimo nell'economia e nei media, costituisca una
minaccia potenziale per la libertà d'espressione" (Rapporto sulla
libertà d'espressione nei media in Europea, 14 gennaio 2003). In
ragione di ciò, non è da meravigliarsi se l'Italia nel 2002 occupa la
40a posizione nella classifica mondiale relativa alla libertà
dell'informazione, stabilita da Reporters sans frontières su 139 Paesi.
L'inchiesta, quindi, entra nel merito e dedica il 1o capitolo al
"Conflitto d'interessi irrisolto del "Signor"
Televisione", conflitto che la sinistra al potere per 5 anni
"non ha potuto o voluto sciogliere". Ripercorsa la carriera
imprenditoriale di "Sua Emittenza" e individuate le sue, e dei
familiari, molteplici proprietà nei diversi settori dell'economia, si
liquida velocemente il progetto di legge presentato il 4 ottobre 2001
dal governo e ancora in discussione. Si sostiene, infatti, che la
formula del "blind trust" è inapplicabile al patrimonio di
Berlusconi che "conosce per definizione la natura e gli interessi
di Fininvest, Mediaset o Publitalia". La distinzione prevista tra
l'amministratore dei beni e il loro proprietario sarebbe pertanto
"perfettamente illusoria".
Il 2o capitolo ha
come titolo: Quali minacce per il pluralismo dell'informazione? Si
prendono in considerazione i principali quotidiani italiani e si
analizzano, dal punto di vista della loro rapporto rispetto al potere
(economico e politico) gli orientamenti della "stampa scritta che
risulta essere libera e pluralista, ma anche fragile a causa
dell'egemonia della televisione". Infatti, se la stampa "offre
una rappresentazione equilibrata dello scacchiere politico italiano,
essa subisce non di meno le conseguenze economiche dell'egemonia dei
media audiovisivi e questo squilibrio potrebbe rappresentare nel tempo
una minaccia per la sua indipendenza." Poiché la dimensione
economica è fondamentale per i gruppi italiani della carta stampata, i
cui proprietari sono generalmente degli industriali, si è determinata
un'ulteriore anomalia che grava proprio sulla stampa. "All'opposto
infatti degli altri Paesi europei, quasi il 60% degli investimenti
pubblicitari italiani sono attribuiti alla televisione, a scapito perciò
della carta stampata che così si vede privata di risorse
cruciali".
Continuando, l'inchiesta, condotta intervistando giornalisti italiani e
direttori, tra cui Ferruccio De Bortoli ("Corriere della
Sera") e Ezio Mauro ("Repubblica"), non evidenzia
ulteriori grossi problemi rispetto alla questione
"pluralismo", ma sottolinea le tensioni a cui sono stati
sottoposti i giornali quando si sono acuiti i già difficili rapporti
tra il potere politico e la magistratura. Per il "Corriere",
in particolare, queste si sono fatte sentire in occasione della
pubblicazione dei conti bancari svizzeri "che mostrano un
trasferimento di fondi dai conti di Fininvest a certi magistrati,
attraverso l'intermediazione del conto di Cesare Previti" o in
occasione del tentativo di far entrare Salvatore Ligresti,
"finanziere siciliano e vicino a Silvio Berlusconi" nel gruppo
di azionisti dell'HdP. "Non è uno scandalo esercitare pressioni -
dichiara Ferruccio De Bortoli -, lo scandalo è che il potere economico,
politico e mediatico sia riunito nelle mani di una sola persona".
Schiacciato dai
giganti RAI e Mediaset, un terzo polo di informazione fa fatica a
emergere. Rispetto ai problemi posti dalla carta stampata, la situazione
della televisione è molto più complessa. La sua politicizzazione
risente del fenomeno storico della "lottizzazione" (termine
lasciato in italiano…) che "è parsa [tuttavia] un mezzo per
garantire il pluralismo del servizio pubblico". Se, quindi, c'è
una forte politizzazione dei giornalisti e dei dirigenti della RAI (cosa
che è complementare alle ingerenze nella crisi della RAI), l'inchiesta
nota anche però che "l'orientamento politico dei giornali
televisivi sembra relativamente equilibrato" e plurale. Non molto
diversa la situazione attribuita ai canali Mediaset. In questo panorama,
non c'è grande spazio per altri soggetti che rompano davvero il
duopolio RAI Mediaset. Ci prova La 7, che ha puntato tutto
sull'informazione e le cui origini sono fatte risalire alle ambizioni
(presto ridimensionate) di Pellicioli e Colaninno…. Gad Lerner,
chiamato in causa, stima che "è impossibile discernere il politico
dall'economico. Certo, se avessimo troppo successo, qualcuno cercherebbe
di metterci i bastoni tra le ruote", ma, con un'audience media del
2,1%, La 7 non preoccupa ancora e fa al momento figura di
nano…L'inchiesta entra quindi nel merito delle proposte di
privatizzazione della RAI, di sviluppo del digitale e di superamento del
tetto pubblicitario (progetto di Legge Gasparri del 25 settembre 2002).
Nessuna di queste misure è però in grado di risolvere il conflitto di
interessi del presidente del consiglio e garantire maggiore pluralità,
attraverso l'accesso al mercato di nuovi operatori nel campo
audiovisivo.
Il 3o capitolo ha come titolo: Flagranti delitti d'ingerenza nella crisi
della RAI. Ripercorrendo le vicende degli ultimi mesi fino alla nomina
alla presidenza della RAI di Lucia Annunziata (che, contrariamente alle
regole in vigore, non avrebbe avuto voce in capitolo nella nomina di
Flavio Cattaneo…), l'inchiesta non risparmia nessuno dei passaggi che
hanno segnato l'insorgere di una vera e propria "crisi
istituzionale aggravata dal conflitto d'interessi del presidente del
Consiglio". Questa è stata avviata da "una ingerenza senza
precedenti da parte di un presidente del Consiglio nel processo di
nomina del consiglio d'amministrazione" della Rai. Si tratta
dell'intesa raggiunta a casa Berlusconi sulla composizione del nuovo
consiglio, comunicata durante una trasmissione da Maurizio
Costanzo……
Gli estensori
dell'inchiesta ricordano ancora le dure reazioni del Parlamento e
dell'opposizione a tale incredibile vicenda e il tentativo fallito di
Paolo Mieli a mettere tra le condizioni per l'accettazione della
presidenza RAI il diritto di esprimere un parere sulla nomina del
direttore generale e il reintegro di Santoro e Biagi, precedentemente
silurati. In questo contesto, si compie ciò che è definito l'anatema
su due giornalisti vedette della RAI (Santoro e Biagi), annunciato il 9
febbraio 2002 a Caceres, in Spagna, da un Berlusconi che dichiarava che
la RAI "aveva attentato alla democrazia" durante le ultime
elezioni e che denunciava l'offensiva della RAI di Zaccaria, con i suoi
Travaglio, Santoro, Biagi, tendente a demolire l'immagine del leader
dell'opposizione. L'inchiesta si sofferma sulle figure dei due
giornalisti allontanati, sul loro prestigio professionale (in parte
riconosciuto da alcuni direttori di giornali "vicini" allo
stesso Berlusconi) e sul successo d'ascolto che garantivano al servizio
pubblico ("Sciuscià" che si attestava sul 18% d'audience è
stato sostituito da "Destinazione Sanremo" che realizza in
media il 7%… dice la nostra inchiesta).
L'accusa di abuso di potere esercitato da parte del presidente del
Consiglio (che da Sofia avrebbe trasmesso le sue decisioni…) imbarazza
i fedeli di Silvio Berlusconi, ma non toglie niente alla sostanza dei
fatti e alla loro inevitabilità. Luciano Santilli, vice direttore di
Panorama, dichiara a tal proposito che l'allontanamento dei giornalisti
non è "il risultato di una decisione presa direttamente da Silvio
Berlusconi, ma di una interpretazione del suo discorso di Sofia"…
Tutto questo fa apparire una RAI in perdita di velocità e credibilità
(titolo dell'ultimo paragrafo). All'abbassamento dell'audience media dei
3 canali e a uno squilibrio dei proventi pubblicitari, tutto a vantaggio
di Mediaset, si aggiungono i casi di "decisione politica molto
nefasta" per l'audience e l'immagine del servizio pubblico. Tra
questi, sono citati il rifiuto della direzione della RAI di trasmettere
in diretta la manifestazione della pace svoltasi a Roma il 15 febbraio e
la decisione (marzo 2003) di trasferire RAI 2 a Milano. Solo RAI 3, che
Paolo Ruffini riconosce essere oramai una specie di "riserva
indiana" per giornalisti critici nei confronti del governo,
conserva delle trasmissioni attraenti. ("Ballarò" o
"Blob").