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Lezioni Ecuadoriane: se il debito è illegittimo
non si paga
di Andrea
Degl'Innocenti - 2 Dicembre 2011
Come
accaduto in Islanda, anche in Ecuador il popolo, guidato dal presidente
Rafael Correa, si è rifiutato di pagare il debito. Una commissione
appositamente istituita l'ha dichiarato illegittimo in quanto si
trattava di un prestito che faceva gli interessi esclusivi di banche e
multinazionali e non del paese che avrebbe dovuto aiutare. Un'altra
lezione di cui tenere conto.
In
Ecuador, come in Islanda, ci si è rifiutati di pagare un debito
contratto in maniera ingiusta
Parliamo
di vulcani. E di eruzioni. Tempo fa, in Islanda, l'impronunciabile
vulcano Eyjafjallajökull sbuffava nubi di ceneri bianche mandando in
tilt i collegamenti aerei di mezzo mondo; allo stesso tempo il popolo
islandese decideva di sollevarsi contro i poteri forti della finanza
globale. Nell'altro emisfero, in Ecuador, da qualche anno si è
risvegliato il potente Tungurahua - appena più facile da pronunciare,
ma neanche poi tanto – proprio nel periodo in cui il presidente Rafael
Correa dichiarava il debito estero che gravava sulle spalle dei suoi
cittadini “illegittimo ed illegale”.
In
una sinergia quasi sovrannaturale, sembra che la natura e gli esseri
umani si destino all'unisono, in varie parti del mondo, in un moto di
ribellione verso i propri oppressori. Che a ben vedere, per l'una e per
gli altri, sono i medesimi. Quell'elite finanziaria che controlla
l'economia globale, possiede corporazioni e multinazionali, controlla le
banche e gestisce i mercati, è responsabile da un lato dei maggiori
crimini ambientali: emissioni nocive, fallimento dei vertici
internazionali sul clima, deforestazione, disastri petrolieri;
dall'altro della schiavitù dei popoli, oppressi da debiti immensi,
privati dei propri diritti e della sovranità nazionale.
Dunque è curioso vederli sbottare all'unisono, quasi che vulcani ed
esseri umani siano due diversi strumenti nelle mani di un unico potente
flusso vitale. Ma accantoniamo la retorica e andiamo a vedere cosa è
successo. Dell'Islanda,
e di come il popolo si sia ribellato ai poteri forti internazionali e
abbia dato vita ad un percorso di democrazia partecipata, vi abbiamo già
parlato tempo addietro. Occupiamoci dell'Ecuador.
Qui
è accaduto che il paese si ritrovava schiacciato, da una trentina
d'anni circa, da un debito pubblico enorme. Nel 1983, infatti, lo Stato
si era fatto carico, di fronte ai creditori, del debito estero contratto
da privati, per un totale di 1371 milioni di dollari, ai tempi una cifra
notevole.
Talmente notevole che nei successivi sei anni il paese non fu in grado
di pagarla. Invece essa crebbe fino a raggiungere la soglia di 7
miliardi.
Ora,
i creditori erano principalmente istituti di credito statunitensi; nel
contratto stipulato con il governo dell'Ecuador esisteva una clausola
che prevedeva che dopo sei anni il debito cadesse in prescrizione. Ma il
9 dicembre 1988, a New York, in un atto unilaterale, venne abolita la
prescrizione della totalità del debito. In pratica, gli Stati Uniti
decisero che, a dispetto di ogni accordo preso in precedenza e senza
consultare l'altra parte, l'Ecuador avrebbe pagato ugualmente tutto il
debito, che intanto continuava a crescere. Nessun membro del congresso
ecuadoregno si oppose alla risoluzione, che gli organismi statali
nascosero persino alla popolazione.
Poco tempo dopo, sempre dagli Stati Uniti arrivò la seguente proposta:
che il debito estero fosse scambiato con l'acquisto dei cosiddetti Buoni
Brady. Nicholas Brady era ai tempi, siamo nel 1992, Segretario del
Tesoro americano, e stava attuando il Piano Brady, che interveniva sul
debito di molti paesi latinoamericani ristrutturandolo attraverso la
vendita di nuovi bond e obbligazioni. Molti paesi accettarono l'offerta,
che consisteva di fatto nel pagare il proprio debito contraendone un
altro, sul quale sarebbero maturati nuovi interessi. Anche l'Ecuador
accettò.
Le condizioni imposte da questo nuovo debito furono decisamente pesanti.
Fra il 1992 ed il 1993 molte delle compagnie statali venero
privatizzate. In particolar modo si stabilì che sarebbero state le
risorse di metano e di petrolio a dover garantire il debito.
Alejandro
Olmos Gaona, storico ed investigatore ecuadoregno, ha dichiarato di aver
personalmente trovato sia nel ministero dell'economia argentino che in
quello ecuadoriano tre lettere: una da parte del Fondo Monetario
Internazionale diretta alla comunità finanziaria, ovvero a tutte le
banche; un'altra della Banca Mondiale; una terza della Banca
Interamericana dello Sviluppo (BID). Cosa chiedevano? Di appoggiare il
governo argentino di Carlos Menem, che si era impegnato a privatizzare
il sistema pensionistico, a cambiare le leggi sul lavoro, a riformare lo
stato e privatizzare tutte le imprese pubbliche, specialmente quelle
riguardanti il petrolio.
Nell'accettare il Piano Brady, l'Ecuador si impegnava a rispettare una
serie di clausole molto articolate e piuttosto confuse. Ve n'era una, ad
esempio, che fissava i termini ed i tempi per i reclami. L'Ecuador
avrebbe potuto reclamare qualsiasi tipo di controversia legata al
contratto a partire dal 21° anno dopo la morte dell'ultimo membro della
famiglia Kennedy. Una clausola che suonava come una vera e propria
beffa, volta ad impedire qualsiasi tipo di reclamo futuro da parte del
paese.
Passiamo
al 2000. I buoni Brady vengono sostituiti con i buoni Global, che
aggiungono alle vecchie condizioni nuove misure di austerità e
privatizzazioni, sotto pressione di alcune banche. I
nomi? JP Morgan, Citibank, Chase Manhattan Bank, Lloyds Bank, Loeb
Roades, E.F. Hutton. Il contratto viene stipulato dallo studio legale
Milbank.
Lo
studio Milbank – il cui nome steso è Milbank, Tweed, Hadley &
McLoy - ha fra i propri clienti, guarda caso, JP Morgan e Chase
Manhattan Bank, e ha curato negli anni la maggior parte dei contratti
sul debito stipulati dai paesi dell'America Latina. Ogni singolo
contratto dell'Ecuador è uscito da quelle stanze. Fra i suoi avvocati
più brillanti sono annoverati John McLoy, primo presidente della Banca
Mondiale, William H. Webster, ex-direttore dell'Fbi e della Cia e
giudice della corte dello Stato di New York.
I
contratti venivano stipulati con gli avvocati dell'Ecuador negli Stati
Uniti: Cleary, Gottlieb, Steen e Hamilton, uno studio fantoccio che si
limitava a ratificare quanto già deciso senza mai sollevare
contestazioni.
La situazione è proseguita, uguale, fino al 2008. Poi qualcosa è
cambiato. L'Ecuador si trovava allora in una situazione particolarmente
difficile, con un debito gonfiatosi fino a raggiungere gli 11 miliardi
di dollari, decisamente troppo per un'economia relativamente povera. Il
presidente socialista Rafael Correa, in carica dal Gennaio 2007, prese
allora la grande decisione.
“L'Ecuador
non pagherà il proprio debito estero, in quanto è stato contratto in
maniera illegittima”, dichiarò davanti al mondo intero. Come poteva
fare un'affermazione così forte?
Perché nel frattempo egli aveva istituito una commissione d'inchiesta
che srotolasse il bandolo della matassa del debito, che negli anni era
andato crescendo e ingarbugliandosi sempre più.
Dalla relazione di tale commissione sono emerse tutte le alterne vicende
che hanno portato alla creazione e alla crescita del debito – le
stesse di cui vi abbiamo parlato sopra. Ed una serie di dati
interessanti.
È emerso, ad esempio, che oltre l'80% del debito è servito a
re-finanziare il debito stesso, mentre solo il 20% è stato
destinato a progetti di sviluppo. Si è reso così lampante che il
sistema dell'indebitamento è un modo per fare gli interessi di banche e
multinazionali, non certo dei paesi che lo subiscono. La Commissione è
quindi giunta alla conclusione che il debito estero dell'Ecuador è
illegittimo e dunque non verrà pagato.
Da
allora, potendo utilizzare le proprie risorse per la crescita sociale e
non più per il pagamento del debito, l'Ecuador è andato incontro ad
uno sviluppo senza precedenti; la popolazione sotto la soglia di povertà
è diminuita di quasi il 15 per cento.
Nell'ottobre 2010 il presidente Correa è riuscito a scampare ad un
colpo di stato militare grazie all'incredibile sostegno di cui gode da
parte della popolazione. Da dentro l'ospedale in cui era stato rinchiuso
dichiarava: “Il presidente sta governando la nazione da questo
ospedale, da sequestrato. Da qui io esco o come presidente, o come
cadavere, ma non mi farete perdere la mia dignità”.
Dall'Ecuador,
come dall'Islanda, ci arriva un messaggio di speranza. Il ricatto del
debito, utilizzato dai poteri forti della finanza globale per imporre
misure drastiche e impopolari - depredare così intere nazioni - può
essere interrotto. Dell'enorme debito che grava sul mondo intero, solo
una piccolissima parte è in mano a piccoli risparmiatori, cittadine e
cittadini. La stragrande maggioranza appartiene ad enormi gruppi
finanziari privati, che lo usano per alimentare e gonfiare all'infinito
questo meccanismo suicida. In Ecuador hanno deciso che a questo debito,
ingiusto, è giusto ribellarsi.