|
Home Page - Contatti - La libreria - Link - Cerca nel sito - Pubblicità nel sito - Sostenitori |
Chi
semina vento raccoglie tempesta
di
Carlo Bertani - 13 luglio 2006
www.disinformazione.it
La
notizia dell’attacco di Hezbollah in Galilea non è cosa di poco conto
nel panorama del Vicino Oriente: la maggior parte di noi è oramai
abituata a queste notizie, e le caccia tutte nell’informe calderone
dell’infinito conflitto fra Israele ed i vicini arabi.
La notizia appena battuta dalle agenzie, invece, è una di quelle che
fanno rizzare i capelli in testa per gli sviluppi che può avere. Se
Israele avesse una leadership un poco più affidabile si potrebbe
ipotizzare che – dopo la rabbiosa rappresaglia – tutto tornerebbe
come prima, ma così non è. Dall’uscita di scena di Sharon Israele è
governato da una classe politica insicura, timorosa di compiere
qualsiasi passo, e non si rendono conto che alimentando la fornace
dell’odio chi a lungo termine ne farà le spese sarà proprio lo stato
ebraico.
Riflettiamo
sul fatto – assai sintomatico – che a voler chiudere la questione
con i palestinesi furono due ex generali: Rabin e Sharon, non proprio
due “colombe” poiché il primo – durante la prima Intifada –
ebbe a dire «spezzate gambe e
braccia ai ragazzi palestinesi che tirano pietre ma non uccideteli, per
non tirarci addosso le ire dell’Europa». Sul secondo, Sabra e
Chatila parlano per lui.
Eppure, proprio due generali cercarono ostinatamente di “chiudere”
la questione palestinese: il primo fu tolto di mezzo dagli israeliani
stessi – e non vengano a raccontare che l’attentatore era un “cane
sciolto” – il secondo da un misterioso ictus.
Il
potere è tornato nelle mani di politici incapaci: una sequela che parte
dall’inconsistente Barak, passando per lo scellerato Netanyau fino al
tremolante Olmert. Il problema è che, più un politico è indeciso, più
crede che la forza militare colmi le sue debolezze. Bush ne sa qualcosa.
Ciò che Tel Aviv non riesce a comprendere è che la stagione delle
guerre arabo/israeliane è definitivamente tramontata: dopo la delusione
dei fallimenti – da Oslo in poi – nel mondo arabo e musulmano è
cresciuta la convinzione che trattare con Israele sia tempo perso.
Tel
Aviv ha lavorato decenni per scavare la fossa all’ANP di Arafat, ed
oggi si trova a dover trattare con Hamas al potere in Palestina: può
anche non farlo, ma ogni giorno che passa il rischio di una nuova
“palude” medio-orientale, di un nuovo Libano “fotocopia”
dell’Iraq, cresce.
Le novità nello scenario sono tante, e gli israeliani continuano ad
interpretarle con modelli troppo semplici: chi non riconosce lo stato
d’Israele, chi pone condizioni, chi pretende il ritorno nei confini
del 1967 è un terrorista. Lo decidono loro, e basta.
Per
continuare a sostenere le loro tesi hanno venduto l’anima al diavolo,
ossia proprio a quella destra americana che con gli ebrei non fu mai
molto tenera. Ciò che dovrebbe allarmare Tel Aviv – se solo
trovassero un attimo di riflessione – è che i loro più fedeli
alleati sono oggi i neocon
americani, figli del Ku Klux Klan e delle sette razziste e xenofobe.
Il Pentagono è loro grande alleato, ma fino a quando tornerà comodo a
Washington: non dovrebbero dimenticare, gli ebrei, che l’USAF fotografò
più volte il campo di sterminio di Auschvitz/Birkenau ma non inviò un
solo bombardiere per interrompere le linee ferroviarie che portavano la
carne umana al macello nazista.
Le
ragioni – Tel Aviv – le conosce ma fa finta di non saperle: negli
equilibri politici americani non era “gradito” un intervento a
favore degli ebrei perché – semplicemente – una consistente parte
dell’elettorato americano era antisemita. D’altro canto, il Mossad
conosce bene quali furono i rapporti fra il nonno dell’attuale
presidente USA – John Prescott Bush – ed i banchieri nazisti,
Thyssen in prima fila.
La ragione stessa della nascita d’Israele non fu soltanto una sorta di
“riparazione” per le persecuzioni naziste, ma anche perché nel
medio Oriente del dopoguerra era necessaria una presenza affidabile –
una sorta di Fort Apache nel Far West del petrolio – poiché la
crescita mondiale del dopoguerra dipendeva in larga misura dall’oro
nero.
Oggi
tutto è mutato, ma a Tel Aviv nessuno pare accorgersene e si continua
facendo finta che il mondo si sia fermato e che bastino poche centinaia
di F-16 per dominare l’area più “calda” del pianeta.
Se vogliamo, potremmo affermare che gli islamici hanno copiato il
modello israeliano – ossia l’interdipendenza fra lo stato
d’Israele e gli ebrei della diaspora – ed oggi le strutture
transnazionali come Al Qaeda e le varie Jiad si rifanno proprio al loro
modello, ossia la raccolta di fondi e d’accoliti in tutto il pianeta
per una causa politica cementata dal collante del credo religioso. In
fin dei conti, gli stati basati sul fondamentalismo religioso – nel
pianeta – sono pochi: l’Iran, l’Arabia Saudita ed Israele.
Proprio
la nuova realtà generatasi dopo il conflitto iracheno dovrebbe far
trillare più di un campanello d’allarme in Israele: perché Hezbollah
attacca apertamente Israele in Galilea? Sa benissimo che la reazione
dell’aeronautica israeliana sarà terribile, ma sa anche che Tel Aviv
ha molta paura a cacciarsi nuovamente nel pantano libanese, ed avrebbe
ottime ragioni per non farlo.
La guerra irachena ha dimostrato che dall’aria non si vincono le nuove
guerre – forse una guerra convenzionale contro un nemico che ha
qualcosa da perdere (
Senza
l’intervento di terra Saddam Hussein regnerebbe ancora in Iraq, ma per
spodestare Saddam Hussein gli americani si sono cacciati in un pantano
senza fine. L’attacco di Hezbollah – giustificato con la necessità
di “alleggerire” la pressione sui palestinesi a Gaza – racconta
invece un’altra vicenda, quasi un invito: benvenuti nel Grand Hotel
del Libano, pronto a diventare un secondo Iraq tutto per gli israeliani.
Proprio quello che i generali israeliani – Sharon in testa – hanno
sempre cercato d’evitare.
D’altro canto, continuando la mattanza di palestinesi senza nessuna
remora umanitaria – uccidendo famiglie sulla spiaggia, seppellendo
donne e bambini sotto le macerie – Israele si sta tirando addosso le
ire anche dei cosiddetti musulmani “moderati”, che non hanno più
ragioni da opporre a chi chiede solo violenza nei confronti di Tel Aviv.
Cosa
possiamo attenderci?
Le condizioni economiche dello stato israeliano non sono floride –
tanto che circa un anno fa le banche israeliane cessarono di concedere
mutui ai comuni, non considerando più “affidabilissimo” l’erario
centrale – e quindi una guerra su due fronti sarebbe una ulteriore
“tegola” per l’economia israeliana.
Dall’altra parte, possiamo facilmente comprendere che – con il
greggio intorno ai 75$ il barile – non mancano certo i fondi per
sorreggere qualche decina di migliaia di combattenti: l’Iraq insegna.
L’unica
soluzione della vicenda era e sempre sarà il rientro di Israele nei
confini del ’67, ma è una condizione che farebbe saltare gli
equilibri politici interni dello stato ebraico. Le colonie in
Cisgiordania costano allo Stato più di quel che rendono, ma la destra
fondamentalista israeliana usa i coloni come “massa di manovra” in
politica interna, condizionando con i loro 200.000 voti qualsiasi
apertura.
Se i carri armati israeliani varcheranno il confine libanese per una
breve rappresaglia tutto tornerà come prima – ovvero alla quotidiana
mattanza di palestinesi – ma se rimarranno invischiati in territorio
libanese allora non ci sarà il due senza il tre: Afghanistan, Iraq e
Libano.
Carlo
Bertani
bertani137@libero.it
www.carlobertani.it