D. Esiste una guerra
visibile e una invisibile in Afghanistan?
R. Il problema della visibilità
della guerra è, per la verità, la cosa che mi preoccupa di meno
perché la guerra è visibilissima. Io non sono fra quei giornalisti
che si lamentano perché non vedono la guerra abbastanza da vicino. E
tra l'altro non credo che sia questo il problema, perché non è una
questione di andare a mettere il naso sotto i bombardieri che buttano
le bombe. Non è questo il problema. Il problema è: la guerra si vede
benissimo, quello che manca è capire che cosa significa questa
guerra, perché viene fatta e che scopi ha. Questo sì che non è
visibile. E questo è largamente manipolato. E sarebbe meno manipolato
se ci fossero dei giornalisti capaci di decifrare i messaggi che
vengono dai poteri, non dalla guerra in sé, dai bombardieri. Una
seconda questione riguarda la comprensione dei fenomeni sul campo. Nel
caso specifico l'Afghanistan è una civiltà, una cultura
completamente diversa dalla nostra e sarebbe augurabile che i
giornalisti che vanno lì ad illustrare quello che accade sapessero di
che cosa si tratta.
Spesso non conoscono né la geografia, né la storia anche recente, né
la cronaca di questo paese: come possono essere dei buoni raccontatori
e cronisti se non hanno criteri di interpretazione, se non sanno
distinguere le forze in campo?
Quindi la visibilità è l'ultimo problema: il primo problema
dell'informazione è capire quello che succede e capire coloro che
sono impegnati in questo conflitto, lo soffrono, lo vivono, lo
partecipano e questo è decisivo per capire anche tutto il resto.
D. Secondo te la
motivazione data della guerra come 'guerra al terrorismo' è una
giustificazione che ha convinto l'opinione pubblica italiana e quella
americana?
R. Quella americana sicuramente sì,
a giudicare dai sondaggi di opinione e purtroppo anche dalle reazioni
del mondo intellettuale. Salvo qualche eccezione, praticamente tutta
l'intellighenzia americana ha accettato le spiegazioni che le sono
state date. Peccato, perché secondo me quelle spiegazioni sono
largamente insufficienti. È chiaro, comunque, che ci ha creduto la
stragrande maggioranza dell'opinione pubblica americana ed è anche
comprensibile perché il paese è stato duramente colpito nella sua
percezione della propria sicurezza nazionale. Un po' meno è stata
accettata la dizione di guerra al terrorismo in Europa e meno che mai
in Italia. Mi sembra che in Italia ci sia un'opinione pubblica che ha
reagito molto criticamente, non accettando le spiegazioni date, o
accettandole con riserva. Più o meno tutti percepiscono che la cosa
è più grave di quello che appare, molti capiscono che
l'argomentazione della lotta al terrorismo non spiega il comportamento
degli Stati Uniti e quindi che c'è dell'altro.
Una parte (forse un'altra metà) invece ha accettato tutto così com'è,
come accetta qualunque altra cosa che viene dai media. Cioè c'è una
parte della popolazione che è già stata in qualche misura
intellettualmente 'lobotomizzata', che non ha strumenti per difendersi
e che è costretta a nuotare in un mare informativo che non vede e dal
quale non riesce a prendere le distanze, perché non ha strumenti di
interpretazione del messaggio, e quindi ne è puramente e
semplicemente oggetto.
Si potrebbe usare un'espressione più
forte: vittima del messaggio. Perché questo non è un messaggio né
neutro, né oggettivo, né vero: è un messaggio falso, prostrato agli
interessi di coloro che hanno i poteri e ovviamente neanche obiettivo.
Quindi si tratta da vittime: milioni di persone che sono sottoposte a
questo flusso del quale non conoscono le motivazioni, il meccanismo,
il funzionamento e assorbono quello che arriva.
Naturalmente questo significa dire
che più si estende questo messaggio e la sua influenza, meno ha
valore un discorso sulla democrazia. Cioè riconoscere questo
significa dire implicitamente e inesorabilmente giungere alla
conclusione che gli spazi di democrazia si stanno riducendo. In Italia
c'è una società che per ragioni storiche ha tradizionalmente
sviluppato una dialettica politica molto ricca e una società civile
molto ricca che continua, pur affievolendosi, a influenzare parte
rilevante dell' opinione pubblica.
Altri paesi, che non hanno avuto tutto questo, sono molto più
indifesi e sono già stati travolti da questo fiume informativo che ha
azzerato o ridotto quasi a nulla la democrazia. In Italia esiste
questa resistenza che si va affievolendo perché lo strapotere dei
mezzi di comunicazione è tale che i loro metodi, le loro forme, le
immagini e i loro concetti diventano dominanti, però c'è ancora uno
spazio democratico su cui si può lavorare per frenare questo processo
degenerativo e in prospettiva tentare di ricostruire un'offensiva
democratica, diciamo così, per il controllo democratico dei media.
Questa possibilità in Italia ancora esiste anche se il contesto
mondiale non è rassicurante, perché i processi che sono andati
avanti di concentrazione e di dominio del sistema della comunicazione
di massa in pochissime mani rende la battaglia molto difficile ed
anche pericolosa, perché è pericoloso mettere il piede in questi
ingranaggi. Però è un terreno di risposta che io ritengo
inevitabile, a meno di non arrendersi.
D. C'è secondo te un
filo, anche dal punto di vista comunicativo, che lega Seattle, Praga,
Genova, l'11 settembre e Kabul?
R. In qualche misura c'è. Ti
rispondo per come l'ho vissuta io. Ho scritto il libro 'Afghanistan,
anno zero' dopo il viaggio di febbraio scorso, fra marzo e aprile con
Vauro lo abbiamo scritto. In quei mesi avvertivo che una crisi si
stava avvicinando. Non immaginavo quale sarebbe stata, ma la
avvertivo. Infatti, nel libro scrivevo che i talebani erano ormai in
crisi e potevano crollare da un momento all'altro. L'editore, quando
decidemmo di fare il libro,
si chiedeva e mi chiedeva se non saremmo arrivati fuori tempo massimo
pensando che sull'Afghanistan non si sarebbe poi detto molto altro. Io
ero convinto che in ottobre-novembre sarebbe avvenuto un disastro.
Dietro questa previsione c'era una profonda riflessione. Dopo questo
passaggio io sono andato a Genova, perché intuivo che Genova sarebbe
stato un appuntamento molto importante, ho visto gli eventi di Genova
e tra l'altro nel libro che ho scritto subito dopo le giornate di
Genova racconto ai lettori che una delle ragioni che mi avevano
portato a Genova era stata la lettura del libro di Karl Kraus Gli
ultimi giorni dell'umanità. Dopo aver visto gli eventi di Genova io
ho cominciato a riflettere su quello che era accaduto lì: cioè mi
sono reso conto di quello che stava accadendo, non tanto e non solo la
repressione, quanto il distacco abissale tra i poteri e la gente.
Quello che mi sembrava di vedere chiarissimo era una personificazione
di una tremenda scollatura: da un lato la gente che confusamente
avverte il pericolo, anche a livello istintivo, dall'altro un sistema
di governo che rende gli uomini che hanno il potere lontani dal resto
del mondo. Quelle barriere fisiche che erano state innalzate intorno
alla zona rossa erano l'immagine visibile di uno stato che non poteva
stare in equilibrio: quello spettacolo non mi faceva pensare a un
mondo in pace, mi faceva apertamente pensare a un mondo che stava
andando verso la guerra.
Per tornare alla tua domanda, quello che voglio dire è che c'è una
continuità. In realtà se uno provava a mettere insieme tutti i
segnali che arrivavano, erano tutti segnali di guerra, di crisi, di un
dramma terribile che si sta consumando.
Quello che è avvenuto dopo non fa che confermare che questi segnali
erano evidenti: i movimenti di Seattle, di Genova, di Assisi sono,
visti da un altro angolo visuale, tutti segnali di allarme. Cioè la
crisi produce effetti inevitabili che si possono tenere nascosti, si
possono comprimere, manipolare, ma questi effetti hanno una valenza
automatica. Inoltre la crisi produce una risposta molteplice,
multidirezionale. Quello non è un movimento compatto, non è un
partito. È una cosa molto diversa, dove ci sono dentro striature di
ogni genere: praticamente ciascuna delle grandi sfide con le quali
l'umanità è confrontata, quella ecologica, quella dello sviluppo
sostenibile, la sfida dell'energia, quella dei diritti. Sono tutte
sfide che producono una reazione e nel movimento ci sono tutte queste
cose. Non un fiume, ma centinaia di fiumi diversi dove confluiscono
cose diverse, spinte e moralità diverse. Questo movimento è una
febbre, un sintomo di una malattia. Questa malattia qualcuno ha deciso
di curarla con la guerra, con i bombardamenti. La follia più
completa.
Quelli che stanno sul ponte di
comando non capiscono che la malattia va curata, non certo estirpata
ammazzando il paziente. Solo dei pazzi possono pensare di uscirne in
questo modo: e sono questi pazzi che comandano. Cosa possono sperare?
Di salvarsi? E i loro figli? Voglio dire che c'è un punto oltre il
quale l'aria è la stessa, anche immaginando visioni fantasiose e
apocalittiche di un mondo in cui i ricchi vivranno sotto delle campane
protette e infrangibili e assolutamente impenetrabili al resto del
mondo fatto di formiche che tentano di assaltare le cupole.
Io dico che non può esserci pace senza un mondo solidale, senza un
mondo che si autogoverna. Si autogoverna con la partecipazione di
tutti e non solo dei più ricchi perché questo non è autogoverno, è
imposizione.
Noi abbiamo di fronte due varianti: l'impero, che si sta costruendo
attraverso la guerra e un mondo solidale, cioè un nuovo ordine
economico, morale intellettuale mondiale. Tutti gli uomini dovrebbero
essere portati a scegliere tra queste due varianti: l'ostacolo che noi
abbiamo è che non si può scegliere se non si conosce. La chiave di
tutto è lì: nel poter conoscere le varianti.
E tutto quello che si fa nel sistema mediatico impedisce che si arrivi
alla consapevolezza delle alternative.
D. Secondo te c'è stata una differenza nella
rappresentazione mediatica di questo conflitto rispetto a quelli
recenti che lo hanno preceduto (Kossovo, Iraq)?
R. No, penso di no. La
rappresentazione di questa guerra è, se possibile, in modo più
massiccio e più esplicito la ripetizione del Kossovo.
Rispetto all'Iraq forse sì. In realtà penso che l'impegno mediatico
per la preparazione della guerra dell'Iraq è stato debole. La guerra
in fondo era una guerra di passaggio, perché anche in quel momento il
presidente Bush padre non era ancora entrato nella logica dell'impero.
Questa è la differenza. Ai tempi della guerra dell'Iraq l'impero non
era ancora formato, perché l'Urss era caduta da poco e l'America non
si era ancora adattata all'idea di essere l'unico potere. Quindi il
presidente Bush era ancora parte del vecchio mondo e ha costruito la
guerra con i vecchi sistemi.
Nel caso della guerra del Kossovo e nel caso di questa guerra la
preparazione mediatica è stata decisiva. Non ci sarebbe stata la
guerra del Kossovo se non ci fosse stato un immenso lavorio mediatico:
qui sì consapevole, organizzato, programmato, progettato
minuziosamente.
E siccome il sistema mediatico è
diventato determinante per le decisioni degli stessi poteri, è chiaro
che i poteri stessi usano i meccanismi del sistema mediatico, non c'è
da stupirsi. Io vedo una differenza netta fra Saddam Hussein, piccolo
esperimento delle vecchie guerre e Milosevic e bin Laden, che sono i
grandi satana delle nuove guerre mediatiche.
Vorrei fare un piccolo esempio di come l'inganno mediatico diventa
parte di ogni rappresentazione del potere. Il presidente Clinton
quando incontrava Eltsin amava sempre sottolineare il grande coraggio
da lui mostrato salendo su un carro armato contrapponendosi al potere
autoritario del partito comunista dell'Urss. La cosa è divertente
perché tutto l'episodio del carro armato è un esempio di inganno
mediatico: quando Eltsin salì sul carro armato sotto non c'era il
popolo, c'era un gruppo di giornalisti occidentali e la sua salita,
presentata come un atto eroico, è totalmente ridicola, perché fu
contrattata con i militari. Non solo non c'era nessun pericolo, ma non
c'era nessun atto clamoroso: era solo un'immagine costruita per i
giornalisti.
E i giornalisti infatti la costruirono, la ripresero, la mostrarono al
mondo e su questo presentarono Boris Eltsin come l'eroe della libertà.
Lo stesso Clinton spesso ha fatto nei suoi discorsi su Eltsin
riferimento a quell'immagine, presentandola come la prova di un evento
storico: un'immagine falsa come prova provata di un evento storico. È
talmente assurdo, ma è così: alla fine Clinton finisce per crederci,
pur sapendo che è falsa.
Quando escogitano e progettano le loro operazioni politico-militari,
lo fanno in base alle immagini che hanno introiettato loro stessi.
Insomma noi stiamo vivendo in un sistema virtuale che è falso e che
influenza i comportamenti di tutti. Un altro esempio più vicino a
noi: i 'nostri' parlamentari, che hanno bulgaramente votato per
la guerra hanno subito esattamente la stessa legge dello spettacolo.
Identica. Perché la gran parte di loro non sa per che cosa ha votato.
D. Colpevolmente, però…
R. Colpevolmente perché sono
disonesti e hanno preso una decisione che riguarda il nostro futuro
senza neppure essersi documentati. Ma quello che voglio dire, al di là
di questo, è la questione che lì ci sono 600 persone che sono i
nostri rappresentanti, che noi abbiamo eletto perché loro
interpretino le nostre esigenze che sono in primo luogo vittime del
sistema mediatico, al quale hanno creduto. Questo circolo vizioso
rischia di essere assolutamente ingovernabile. Se persino quelli che
dovrebbero prendere le decisioni nelle periferie non sono capaci di
emanciparsi rispetto al messaggio mediatico, allora la cosa diventa
davvero molto preoccupante.
D. Un'ultima domanda.
Tra gli osservatori critici del sistema mediatico c'è la sensazione
che vi sia una censura su questa guerra. Quale pensi sia la chiave di
lettura: i reporters che sono pressati dai direttori o che si
autocensurano, oppure che raccontano quello che vedono, ma non vedono
tutto quello che ci sarebbe da vedere?
R. In parte il problema sta nella
debolezza del sistema della formazione politico-culturale-intellettuale
degli stessi giornalisti. Si richiederebbe un altro livello etico
soprattutto e un altro livello conoscitivo da parte di persone che
hanno una così grande responsabilità. In realtà credo che i
maggiori responsabili siano coloro che hanno in mano i media e cioè i
direttori, i capi delle strutture perché sono loro, in definitiva,
che fanno l'informazione. Sono loro che decidono cosa la gente può e
non può vedere. Ciò che la gente deve vedere e ciò che non deve
assolutamente vedere. Quindi la responsabilità maggiore è negli
staff dirigenti dei giornali e delle televisioni. Dietro,
naturalmente, ci possono anche essere i proprietari, ma io mi
chiederei anche perché questi staff dirigenti si comportano in questo
modo pur non ricevendo per forza delle veline. Il caso della CNN di
poche settimane fa è quello che lo staff dirigente ha imposto delle
veline ai suoi giornalisti (di non mostrare immagini troppo cruente
della guerra in Afghanistan, ndr), ma lo staff non aveva ricevuto
a sua volta veline da qualcuno. Non hanno bisogno di riceverle perché
lo sanno già quello che devono dire, automaticamente. Perché c'è
una coazione generale che stabilisce le regole. Questi uomini che
dirigono i giornali sono tutti a stretto contatto di gomito con i
grandi centri di potere: si consultano, si toccano, si guardano, si
sorvegliano vicendevolmente e basta una parola per capire da che parte
si deve stare. Non occorre che il direttore di un giornale dica
all'editorialista quello che deve scrivere: lo sa già. E se non lo ha
capito la prima volta non lo chiameranno più.
Nel caso specifico: l'America dice che ci vuole la guerra e loro
automaticamente sanno che si deve dire che ci vuole la guerra. Ho
testimonianze di numerosi colleghi, anche ad alti livelli, che leggono
con attenzione i giornali americani per sapere qual è il messaggio
che viene dai giornali americani e poi lo applicano, nei dettagli
anche.
E quindi, c'è un allenamento formidabile al quale questa gente si
sottopone. In più. Chi vuole fare carriera, sa quali sono gli scalini
che devono essere fatti: li impara cammin facendo. Scalini che
compiuti uno dopo l'altro lo fanno diventare 'affidabile'. Affidabile
vuol dire uno che non sbaglia mai. Che sa sempre da che parte si deve
collocare. Ogni scalino è un passo nell'avvicinamento alla tua
affidabilità, cioè al fatto che tu devi capire che cosa devi
scrivere e che cosa non devi scrivere. Che cosa devi scegliere e che
cosa non devi scegliere. E quando sei arrivato in cima tu sei un uomo
totalmente affidabile e a quel punto tu sai a memoria come ti devi
schierare, in ogni momento e su ogni questione. Dalla crisi dei
magistrati alla guerra.
Non c'è bisogno a questo punto di dare loro la velina perché la
sanno automaticamente.
Quello che succede anche ora in
Afghanistan, oltre al fatto che come in tutte le guerre gli americani
fanno in modo che alcune cose non si possano vedere e dire, è che i
direttori ti dicono che devi scrivere certe cose e non certe altre. E
molti colleghi sono irritati di questo perché sanno che se
scriveranno in un certo modo i loro pezzi verranno pubblicati in un
certo modo, se scriveranno in un'altra maniera i loro pezzi andranno
in prima pagina. Considera che il discorso che ho fatto prima sugli
scalini non riguarda gli inviati sul terreno: queste persone spesso
subiscono degli ordini e se tu scrivi delle cose un po' diverse da
quello che dovresti scrivere te lo fanno anche capire chiaramente. In
un pezzo è richiesto il 'colore', anche se viene dalla guerra. È
l'interpretazione degli eventi che ti viene imposta e in ogni caso tu
non sei quello che determina il contenitore: il contenitore dove vanno
a finire i tuoi pezzi lo determinano loro e questo contenitore li può
anche travisare.
Questo è quello che è successo anche a me con le mie corrispondenze
dalla guerra in Afghanistan: io facevo le mie corrispondenze con il
mio taglio, e poi loro sopra le mie corrispondenze ci mettevano il
commento di Gianni Rondolino che se ne stava lì a disquisire su
Tacito e sui grandi storici della guerra dell'antichità romana e
scriveva per lo più delle pure scemenze.
Però i suoi commenti erano sopra il mio pezzo e non in fondo alla
pagina, per cui chi apriva il giornale leggeva prima Rondolino e poi
la mia corrispondenza.
E quello era un contenitore buono per far capire la guerra? Neanche
per sogno, perché Rondolino è un personaggio che scrive quello che
interessa ai padroni del giornale o altri, io provavo a scrivere la
verità su quello che avevo visto in Afghanistan. Il lettore veniva
sottoposto a una scelta che sovvertiva il rapporto corretto: prima si
imponeva il commento e poi il racconto degli eventi. Il contrario
della logica.
Quindi gli inviati che sono sul
terreno fanno quello che possono. Per quanto mi risulta nelle
redazioni di tutti i giornali ci sono molti giornalisti che sono
insofferenti della situazione alla quale sono costretti. Gente che non
vorrebbe altro che fare il suo lavoro un po' meglio, ma non glielo
lasciano fare. E quindi se ci fosse qualche sponda esterna che li
aiuta a difendersi sarebbe molto utile. Ma non sono loro il problema
centrale. Il problema centrale sono i gruppi redazionali che comandano
i giornali: quelli decidono, quelli stabiliscono e i lettori sono
soggetti a loro, come tutto il resto del paese inclusi i loro
giornalisti.
Insomma è lì che si deve puntare perché se si deve sparare qualche
bordata bisogna spararla lì.
3.12.2001