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L’incapacità
di vivere dimenticando i fili spinati
di
Carlo Bertani – 5 gennaio 2009
“E
cosa sta facendo la nostra gente in Palestina? Erano servi nelle terre
della Diaspora e d'improvviso si trovano con una libertà senza limiti,
e questo cambiamento ha risvegliato in loro un'inclinazione al
dispotismo. Essi trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli
negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di
questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e
pericolose.”
Ahad
Ha'am – Zionism: the Dream and
the Reality – Harper and Row –
In
questi giorni di sgomento e rabbia, incredulità ed angoscia, stiamo
osservando l’ennesimo capitolo dell’infinito tormento palestinese,
che già sappiamo non sortirà effetto alcuno, né fra i palestinesi –
che si ritroveranno uniti per qualche tempo, per poi ricominciare
l’eterno dissidio interno – né per gli israeliani, i quali non
potranno rimanere a Gaza – sarebbe come riportare il morto in casa –
e s’accontenteranno di qualche anelito di vittoria: vera, presunta,
addomesticata dai media, velleitaria e che provocherà altri dissidi
interni.
La
partita, più che sul campo di battaglia, si gioca sulla capacità di
resistenza politica nel tempo il quale – già sanno entrambi i
contendenti – non potrà superare le poche settimane, come tutte le
guerre degli ultimi anni. Oramai, si fanno le guerre nei periodi di
vacanza – il Libano durante le vacanze estive, nel 2006, idem la
Georgia nel 2008 – ed oggi sotto Natale: come le “importanti”
riforme della politica italiana, che arrivano sempre a Luglio.
Oramai, per bastonare le popolazioni sempre più disilluse, bisogna
contare – in qualsiasi modo – sulla massima “distrazione” degli
altri. Perché, nel caso della Palestina, si tratta di un vero e proprio
vulnus al diritto internazionale.
La
pantomima internazionale prevedeva da tempo questo attacco – perché
la diplomazia israeliana non si fida della nuova amministrazione
americana (staremo poi a vedere…) – ed aveva bisogno del
“classico” veto all’ONU. Che, il “glorioso” Bush, non ha fatto
certo mancare.
Che si tratti di una colossale presa in giro del diritto internazionale,
ci vuole poco a capirlo, anche per chi non ricorda le risoluzioni
dell’ONU in materia.
Gran parte della responsabilità ricade sulla dirigenza israeliana,
inutile negarlo, perché non ha rispettato le risoluzioni[1]
n. 242 del 1967:
Ritiro
delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente
conflitto.
e
n. 338 del 1973:
2
- Richiama le parti in causa affinché immediatamente dopo il cessate il
fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di
Sicurezza, in tutti i suoi punti.
Lo
status di “territori occupati” quasi non esiste nel diritto
internazionale, giacché può riferirsi soltanto alle zone occupate dopo
la fine delle ostilità, ossia nel lasso di tempo che intercorre fra un
armistizio ed un trattato di pace. Che non può, ovviamente, durare
decenni: in epoca contemporanea, le più lunghe occupazioni
“temporanee” furono quelle della Saar, dal 1918 al 1935 e dal 1945
al 1957, entrambe però codificate nei trattati di pace e risolte con
accordi franco-tedeschi.
Lo status giuridico dei territori palestinesi è un vero e
proprio vulnus del diritto internazionale, e questo dovrebbero
saperlo anche i politici italiani che blaterano sempre le stesse facezie
in TV, ad ogni massacro. Sotto, c’è ben altro.
Immaginiamo cosa sarebbe successo se le truppe russe – scese in campo
solo dopo l’attacco georgiano, è bene ricordarlo – avessero
bombardato Tblisi – chiese, scuole ed ospedali compresi – facendo
500 morti e 3000 feriti. Immaginiamo cosa sarebbe capitato all’ONU. In
Palestina, invece, è solo “difesa”.
Il
progetto immaginato dagli israeliani per i “territori occupati”
considera gli stessi come un facile serbatoio di manodopera a basso
costo: più sono poveri, meno potremo pagarli. Così – anche se
ultimamente sono state aperte le porte ad una modesta immigrazione
orientale – i palestinesi sono stati e sono la forza lavoro per le
mansioni di basso livello in Israele. La questione etnica, sempre
rimarcata dalla destra israeliana integralista, non vede di buon occhio
la presenza stabile in Israele d’altre comunità religiose: hanno
dovuto accettare la presenza dei pochi “arabi israeliani”, ma
l’hanno accettato obtorto collo. Figuriamoci se arrivassero
schiere d’induisti, buddisti, taoisti, ecc.
Di
conseguenza, la soluzione più vantaggiosa per Israele è mantenere una
sorta di grande prigione a cielo aperto – della quale controllano
tutti i rubinetti – nella quale le condizioni di vita sono
inenarrabili e, ad ogni nuova incursione israeliana, più giovani
passano nelle file di Hamas. Chi dà più retta alla corrotta ed imbelle
dirigenza di Fatah? Ovvio che, presa coscienza del proprio status
di prigionieri, si ribellano lanciando razzi: così non sarebbe se non
si sentissero ostaggi degli israeliani. E, ad ogni nuovo attacco, Hamas
si compatta all’interno e s’espande fra la popolazione. L’attacco
israeliano, dunque, sortirà proprio l’effetto contrario rispetto a
quanto viene comunicato dalle schiere di giornalisti “embedded”.
Viene
da chiedersi, però, la ragione che spinge gli israeliani su questa
strada, poiché – a fronte di qualche vantaggio economico nello
sfruttamento dei palestinesi – ci sono spese militari che
“corrono” da decenni, ed una situazione finanziaria che non è
proprio rosea. Alcuni anni fa, le banche israeliane rifiutarono i mutui
ai Comuni, poiché ritenuti inaffidabili: parola di banchieri ebrei.
La strana “convenienza” economica di mantenere per decenni uno stato
di guerra permanente con tutti (o quasi) i suoi vicini è però
accettata dalla maggioranza della popolazione, e questo è un dato che
non possiamo passare sotto silenzio.
La
percezione israeliana del mondo arabo nasce – è impossibile negarlo
– dalla pretesa superiorità che nasce dalla Bibbia ebraica, ossia dal
Pentateuco: tanti sono i richiami al “popolo eletto”, ed altrettanti
ci credono fermamente.
Paradossalmente, pur essendo gli israeliani per la gran parte
discendenti di famiglie europee, sembrano completamente stagni nei
confronti dell’Illuminismo, fenomeno che riuscì a portare a termine
– grazie all’importanza suprema assegnata alla Ragione illuminista
– il processo iniziato nel XVI secolo con la Pace di Augusta, quel cuius
regio, eius religio che – nelle intenzioni dell’epoca – doveva
porre fine alle dispute religiose.
E’
stranissimo che un popolo formatosi in Europa e negli USA – e che
tanto ha dato alle Scienze esatte – si mostri così refrattario nei
confronti di principi universalmente accettati, quali il rispetto
dell’altrui credo e cultura. I musulmani hanno mostrato e mostrano
maggior propensione al rispetto, più dei cattolici, e l’Andalusia dei
Mori è ancora là a testimoniarlo. Gli israeliani disprezzano gli arabi
e la loro cultura – rispetto alla quale tutti abbiamo il diritto
d’affermare che non accetteremmo mai per noi – ma che non possiamo
più permetterci, dopo essere stati colonizzatori, di disprezzare.
I
veri pasticci sono venuti dopo, ed hanno avuto come attori non i
musulmani – i quali, all’epoca, erano colonizzati – ma le
cancellerie europee con le promesse d’indipendenza di Lawrence (in
cambio dell’appoggio contro i Turchi), smentite e tradite dal
successivo trattato di Sèvres del 1920.
Nonostante le rassicurazioni di Balfour, dopo la Seconda Guerra Mondiale
la Palestina si trasformò in una terra di nessuno, dove la ragione del
più forte – perché più organizzato – contava su personaggi come Menachem
Begin, il quale aveva la pessima abitudine di “dimenticare”
bombe a mano nelle case degli arabi.
La
sua “carriera” è una striscia di sangue, ed oggi parlano di
“terrorismo”. Da Wikipedia:
Il
25 aprile 1946 guida personalmente un commando che attacca un garage
inglese uccidendone tutto il personale addetto.
Il
22 luglio 1946 è alla testa del gruppo di terroristi che fa esplodere
l'Hotel King David di Gerusalemme, provocando la morte di 97 persone, in
gran parte ammalati, feriti, medici e infermiere (l'hotel era adibito a
ospedale militare).
Il
1 marzo 1947 uccide due ufficiali britannici in un circolo militare
inglese.
Il
18 aprile uccide un passante con una bomba, in un'azione intimidatoria
terrorista. Due giorni dopo lancia un'altra bomba contro un ospedale
della Croce Rossa Internazionale di Gerusalemme.
Il
12 luglio 1947, con alcuni compagni, rapisce due sottufficiali
britannici appena ventenni, Mervyn Paice e Clifford Martin: li tortura a
lungo e li impicca poi con fil di ferro. Ai due cadaveri lega una bomba
che ferisce i soccorritori sopraggiunti.
(tecnica usata anche dai finlandesi con i prigionieri russi N. d. A.).
Tre
mesi dopo dirige una rapina ad una succursale della Barclay's Bank e,
nel fuggire col bottino, uccide quattro agenti di servizio.
Nel
febbraio 1948 dirige un gruppo di terroristi in un attacco contro un
ospedale britannico di Gerusalemme: risultato, tre militari feriti
vengono assassinati nei loro letti.
Il
10 aprile 1948, il più odioso e più noto dei crimini delle lotte in
Palestina: Begin mette a punto e dirige personalmente l'azione di
rappresaglia contro il villaggio arabo di Deir Yassin, con l'uccisione a
sangue freddo di tutti i suoi abitanti, compresi i vecchi, gli infermi e
i bambini in fasce (il numero delle vittime varia, dal un minimo di
oltre un centinaio di persone a un massimo di 254).
Costui
è stato il fondatore del Likud, il partito di Sharon e Netanyahu.
I primi ad usare l’arma del terrorismo furono proprio gli israeliani,
che poi pensarono bene di promuovere Primo Ministro un simile pendaglio
da forca.
Tutto
sembra nascere da quel vasto fenomeno criminale europeo – perché non
vi parteciparono solo tedeschi, bensì polacchi, ucraini, francesi,
italiani, croati… – che fu la pietra angolare che segnò Israele: la
Shoà. C’era da aspettarselo: a quel tempo, era normale che così
fosse.
La perfidia assai strana è che coloro i quali, per anni, condussero le
tradotte al macello non pagarono lo scotto: perché, ad esempio, la
Germania non fu obbligata a cedere una parte del suo territorio per lo
stato ebraico?
No: in pieno stile coloniale, l’assassinio di milioni d’ebrei (e non
solo, è bene ricordarlo) fu pagato dai palestinesi, che c’entravano
come i cavoli a merenda. E non stiamo a raccontare storie di Gran Muftì
“nazisti” poiché, per contrappasso, potremmo ricordare chi –
finanziariamente, per due guerre mondiali – sorresse lo sforzo bellico
britannico.
Terminata
la guerra, sarebbe stato meglio onorare chi morì nei lager e rendere
così giustizia a tutti i perseguitati del tempo: cercando “un altro
Egitto”, direbbe de Gregori.
Il movimento dei kibbutzim ci provò, e suscitò scandalo – in quegli
anni – l’educazione collettiva dei giovani, la minor importanza
della famiglia, ma questa è un’altra storia, che sarebbe bello
raccontare se i kibbutz, oggi, non fossero diventati degli avamposti di Tzahal.
Ciò che avvenne in Israele, soprattutto dopo la guerra di Yom Kippur,
fu la montante importanza di una nuova destra, che nulla aveva a che
fare con la tradizione conservatrice.
La
Shoà, da evento storico – patito sulla propria pelle, ma pur sempre
evento storico – fu trasformato in fatto quasi religioso: nacque la
retorica della Shoà, che ebbe in Yad Yashem il suo tempio, il nuovo
tempio di Salomone.
Intere generazioni d’israeliani sono state cresciute in questa
retorica, e l’avvento dei media planetari ha espanso ai quattro venti
l’assioma che – un popolo così provato – avesse diritto ad un
eterno risarcimento, a scapito di chiunque.
Il
tentativo di Rabin – condurre Israele su una strada europea, perché
anche in Europa avremmo rivalse e “crediti” a bizzeffe da esigere,
la storia europea è un solo, terribile groviglio di massacri e
ritorsioni – fallì perché andò a cozzare contro un muro, quello
creato da anni di retorica: l’ebreo è sicuro solo in Israele, fuori
dai suoi confini sono sempre all’erta le forze del male, pronte a
distruggerlo. Salvo, poi, constatare che gli ebrei americani ed italiani
se la passano molto meglio di quelli israeliani; a microfono spento, vi
diranno: “fossi matto ad andare laggiù, col rischio di saltare per
aria o di precipitare in una guerra l’anno”.
Le
questioni geopolitiche contano, non lo nascondiamo, ma questi sono i
sentimenti che la popolazione israeliana avverte: semplicemente, perché
da anni viene bombardata su opposti fronti. Da una lato, quello biblico
– con tutte le citazioni di fosche profezie, sul popolo eletto, ecc
– e dall’altro per il ricordo della Shoà, la quale esige
d’essere sempre all’erta, pronti a rispondere a qualsiasi attacco,
costi quel che costi.
In definitiva, Israele non ha mai superato il trauma della Shoà, anche
se quelli che si salvarono sono oramai quasi tutti andati per età: sono
le generazioni successive che l’hanno trasformata nel cespite per
qualsiasi avventura militare.
Lo
Stato Maggiore di Tel Aviv sa benissimo che non potrà occupare Gaza (e
dopo? quanti attentati?), e nemmeno sperare d’appiattire ai suoi
voleri la popolazione palestinese, dopo tanti massacri e un così
diffuso dolore. Una seconda Shoà.
“Finché c’è guerra c’è speranza” – titolo di un film di
Sordi – sembra calcare alla perfezione per una dirigenza politica che
ha saputo creare da una tragedia un mostro, la ripetizione eterna del
ricordo. Guai a noi, se dovessimo serbare memoria e rancore per le
guerre di religione o per le bombe incendiarie degli anglo-americani.
Non ne usciremmo più: la Jugoslavia ne sa qualcosa.
La
guerra in Jugoslavia fu generata da complessi avvenimenti che
riguardarono soprattutto la divisione del debito estero fra le
repubbliche federate, ma la gran parte delle genti – gli jugoslavi
stessi – poco trassero, per odiarsi, dalle decisioni del Fondo
Monetario Internazionale.
Ciò che alimentò la fornace fu il ricordo, l’imprinting
lasciato/lanciato nelle generazioni, come ha magistralmente spiegato –
più con il sogno felliniano che con le parole – Kusturica in Underground.
Fantasmi del passato ripresero forma sorgendo da abissi che si pensavano
dimenticati: le due divisioni delle Waffen
SS islamiche, Handsar e Kama, tornarono a vivere intorno a Sarajevo, come la Skandenberg
albanese, divenuta UCK. E poi cetnici
nazionalisti della destra di Belgrado, partizan
che combattevano per l’eterna causa serba, ustascia
che sparavano nel nome della purezza etnico/religiosa croata.
Un coacervo di miasmi senza più reale valenza – nel senso del tempo
che le espresse, la Seconda Guerra Mondiale, con le sue ideologie, i
suoi nazionalismi ed i calcoli politico/strategici degli stati maggiori
– nutrì per anni le gelide notti sui monti della Bosnia, sorresse
fino all’ultimo respiro le battaglie in strada, fornì abbondanti
giustificazioni per i massacri d’innocenti.
C’è
una soluzione, al perverso e raccapricciante alimentare il ricordo per
meri scopi di bottega?
Impossibile, se non mutano le premesse.
L’alternativa?
Israele
fu per molti anni alleato del Sudafrica dell’apartheid, e la
“teoria” dei “territori occupati” sa tanto di “Bantustan”:
se non basta, rimangono a testimoniarlo le molte collaborazioni in campo
militare, anche quando l’embargo internazionale contro Pretoria non le
avrebbe consentite (i missili Gabriel, ad esempio, che armarono
le motovedette d’entrambi i Paesi).
Il Sudafrica ha saputo uscire dal suo cul de sac con gran
coraggio e lungimiranza: oggi non è certo tranquillo come un cantone
svizzero, ma non fa parlare di sé – per massacri – almeno una volta
l’anno.
Quella sudafricana è stata un’esperienza creata dal dialogo e dalla
reciproca fiducia: riconoscimento che avvenne sia dalla parte dei neri
sia da quella boera. Non dimentichiamolo.
Eppure, fu un azzardo che pagò, eccome.
Sull’altro
piatto della bilancia, i bianchi sudafricani compresero che la dinamica
demografica non li favoriva: non fu soltanto spirito filantropico, ma
anche pragmatismo. Che, in ogni modo, funzionò, e potrebbe funzionare
anche in Palestina – perché le dinamiche demografiche sono le stesse
– se venisse meno l’assurdo principio di uno Stato basato su
un’identità etnica e religiosa (peraltro, molto difficile da
identificare).
Ci
chiediamo se, tramontata ogni ipotesi d’avere due stati che vivono in
pace separati, non sia da prendere in considerazione l’ipotesi più
semplice, che qualsiasi Stato veramente democratico e moderno dovrebbe
sostenere.
Quella di un solo Stato, con pari diritti per tutti e democrazia
parlamentare: il sistema meno imperfetto che conosciamo, con tutti i
suoi difetti. Una modesta ma concreta base di partenza.
Che ci sarebbe di strano? Non dovrebbe essere la comune prassi di uno
Stato che si professa democratico? Non sarebbe una buona occasione anche
per i palestinesi, accusati d’essere “refrattari” alla democrazia?
Cosa spiazzerebbe di più le leadership integraliste (d’entrambe le
parti), bombe e razzi o una proposta che sa di sfida per la democrazia?
L’ipotesi
è meno assurda di quel che si pensi, se si riflette sulla alternative.
Israele non potrà mai vincere contro i suoi vicini: sono troppi, e la
demografia li avvantaggia. Oramai, i flussi migratori verso Israele sono
cessati da tempo.
Può solo perdere o “pareggiare” – mi si passi il paragone
calcistico – ma questo “pareggio” è la tragedia alla quale
assistiamo, che oggi avvelena di dolore e di rabbia i palestinesi e
domani, ad operazione conclusa, ci dirà quante famiglie israeliane
piangeranno un loro figlio.
Il sogno della “Grande Israele” è tramontato con il ritiro dal
Libano e la mezza sconfitta del 2006: perché continuare in questa
assurda tragedia?
Nessun morto nella Shoà ne trarrà vantaggio, e nessun israeliano potrà
mai sperare di giungere ad un così completo dominio da scapolare le sue
paure ancestrali. Nessun popolo eletto, nessun popolo massacrato.
Carlo Bertani www.carlobertani.it http://carlobertani.blogspot.com/
[1] Il testo completo delle risoluzioni è reperibile in “Libano 2006: il peggiore dei deja vu”, dello stesso autore, facilmente reperibile sul Web.