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Inadeguati imperialisti
di Carlo Bertani per Disinformazione.it 27/02/2006

 “Onde, chi assalta il Turco, è necessario pensare di averlo a trovare unito; e li conviene sperare più nelle forze proprie che ne' disordini d'altri.”
Nicolò Machiavelli - Il Principe

L’attentato alla moschea di Samarra rischia veramente di diventare un punto di non ritorno nella complicata situazione irachena: sciiti e sunniti si confrontano (spesso in armi) in quelle aree da più di un millennio. Riflettiamo sulla stranezza di un culto (quello sciita) che ha il proprio centro del pensiero a Qom, in Iran, ed i principali luoghi di culto in Iraq, a Najaf e Kerbala: sarebbe come se l’Università Lateranense avesse sede a Roma e San Pietro fosse a Wittenberg, dove Lutero pubblicò le sue famose tesi.
Per gli aspetti interni all’Islam, l’Iraq è proprio terra di confine, come la Germania è divisa fra una Baviera prevalentemente cattolica ed un Nord in maggioranza luterano. In Iraq, una modesta frazione della popolazione è cattolica di rito copto e ciò richiama alla mente i Balcani, con i cattolici al Nord, gli ortodossi al Sud ed un po’ d’Islam sparso a macchia di leopardo.
Per fortuna, a compensare una sorta di “balcanizzazione” religiosa interviene un forte sentimento nazionale, nato in anni lontani – sotto il protettorato inglese – e mai sopito; anche sul piano politico, però, c’è un neo: la sempre aperta questione curda, che coinvolge non solo l’Iraq, ma anche l’Iran e soprattutto la Turchia.

In definitiva, se c’è un luogo dove scorrono le “faglie” interne dell’Islam e quelle planetarie della geopolitica – sempre sull’orlo di generare terremoti – questa terra è proprio l’Iraq, la Mesopotamia , l’Alfa della civiltà che rischia di diventare la miccia dell’Omega.
Chi ha cercato di gestire questa esplosiva situazione? Un’alleanza fra Stati Uniti e Gran Bretagna, dove gli americani sono la frazione egemone grazie alla potenza delle loro forze armate.
Una domanda che nasce spontanea è: gli USA – dopo la capitolazione di Saddam Hussein – come hanno gestito la situazione? Sulla base di quale patrimonio storico hanno plasmato la loro strategia? I think-tank statunitensi cos’hanno prodotto per affrontare la situazione?
Sarebbe sin troppo facile liquidare la faccenda accusando gli USA d’imperialismo, perché nascerebbe immediatamente un ulteriore quesito: esistono degli attributi – imprescindibili – dell’imperialismo?

Sappiamo che New American Century – il think-tank più vicino ai neocon americani – si scagliò contro Clinton accusandolo di non aver saputo cogliere l’improvviso ed enorme vantaggio strategico conseguente al collasso dell’URSS. In altre parole, Huntington & soci accusarono la Casa Bianca d’immobilismo, di “resa” ai desideri degli imbelli europei, di troppa accondiscendenza con gli “appassionati” della vodka che abitavano al Cremlino.
Il multilateralismo di Clinton nasceva dalla constatazione che alla potenza militare americana non corrispondeva un parallelo prestigio economico, che iniziava ad essere minato dall’avanzata della Cina e dell’India. Se vogliamo, la visione di Clinton era più pragmatica, tesa ad “accompagnare” il declino dell’economia americana senza scossoni, così come la Gran Bretagna era uscita di scena mezzo secolo prima cercando di salvare il salvabile e passando dall’Impero Britannico al Commonwealth.
Tutto sommato, la visione più concreta e meno ideologica di Clinton avrebbe consentito agli USA più solide alleanze con l’UE e con alcuni paesi arabi: una “base” più larga e stabile per gestire un pianeta divenuto improvvisamente troppo piccolo per armonizzare le mille tensioni che, già prima della globalizzazione dei mercati, esso conteneva.

Invece, con la vittoria di Bush il pensiero neocon ebbe il sopravvento: se il nostro principale avversario, l’URSS – affermavano – non esiste più, perché non espanderci nell’intero pianeta e plasmarlo secondo le esigenze dell’unica superpotenza rimasta?
Dominare con le armi anche quando i numeri dell’economia non sembrano più a tuo favore, sostituire la potenza del dollaro con quella dei missili: una fase imperiale gestita mediante la forza, questa era la convinzione dei think-tank di Harvard.
Ciò che sfugge in questo (apparentemente) semplice sillogismo, è che per attuare quel programma era necessario cambiare radicalmente almeno due importanti fattori: la struttura militare e l’impostazione della politica estera.
La revisione della struttura militare statunitense iniziò già negli anni ’90, quando ci si rese conto che non era più necessario competere sul terreno dell’innovazione tecnologica, quanto su quello dell’organizzazione strategica.

Importanti programmi militari furono rallentati al punto di mantenerli vivi oramai solo nominalmente (si pensi al caccia stealth F-22), ed anche l’Europa diluì il programma EFA (un altro caccia) su più quinquenni. Parallelamente, le forze armate USA furono affidate all’oggi ottuagenario Andrew Marshall – una delle voci più ascoltate al Pentagono – per una “robusta” cura di snellimento.
Furono chiuse numerose basi all’estero ed in altre furono ridotti sensibilmente gli organici, per creare la nuova organizzazione che poggiava su dieci EAF (Expeditionary Aerospace Force) ciascuna delle quali conteneva reparti di terra, mare e cielo: dieci grandi task force completamente autonome, che potevano essere spostate rapidamente, partendo dal territorio metropolitano, in ogni angolo del pianeta.
In questo modo, al Pentagono si ritenne di risparmiare sui costi che derivavano dal mantenere forze armate all’estero, mentre il rapido dispiegamento delle task force – tutte fornite di mezzi ad alta tecnologia e sorrette dall’intelligence satellitare – sarebbe bastato per mantenere il controllo d’oceani e continenti.

Pur con qualche rilevante distinguo, la struttura ricalcava quella dell’Impero Britannico: la Gran Bretagna – fino alla Seconda Guerra Mondiale – spostò contingenti sudafricani in Libia, neozelandesi in Malesia, indiani in Medio Oriente, ecc.
La struttura imperiale britannica, a sua volta, ricalcava quella di Roma: come dimenticare che l’ultima battaglia per la difesa dell’Impero fu condotta sotto le mura di Orléans, dove un generale bulgaro – Flavio Ezio – condusse le legioni romane, costituite in maggioranza da Galli e Germani ed alleate con i Visigoti, contro gli Unni?
La differenza è rappresentata dalla diversa struttura politica dei due imperi (volendo attribuire la qualifica “imperiale” agli USA): mentre la Gran Bretagna spostava contingenti da un capo all’altro dell’enorme impero – che rappresentava il 23% delle terre emerse a fronte di meno dell’1% del territorio nazionale – gli USA crearono una struttura prevalentemente metropolitana in grado di spostarsi rapidamente ovunque.

Due modelli a confronto: Romani e Britannici mantennero il solo potere politico all’interno del territorio metropolitano, mentre coinvolsero le popolazioni vinte nella difesa dell’impero e, di conseguenza, l’organizzazione militare ebbe una struttura policentrica. Gli USA hanno invece optato per un modello nel quale potere politico e militare sono accentrati sul territorio metropolitano, ed eventuali “acquisizioni” non entrano a far parte della struttura imperiale.
Mentre Roma si poteva permettere d’avere generali bulgari od ispanici, nel modello americano si partecipa solo come entità subalterne (e quindi non profondamente coinvolte): un simile modello, però, comporta analisi attentissime e massima sincronia fra gli aspetti politici e militari, giacché – in ultima istanza – si può fare affidamento solo sulle proprie forze, ed è ciò che sta avvenendo in Iraq.
Quando l’amministrazione USA denuncia la “straordinarietà” della situazione irachena, la sua imprevedibilità, intende affermare che essa esula dalle analisi effettuate prima del 2003: colpire in modo rapido ed efficace, ed altrettanto rapidamente rientrare in patria dopo aver creato governi fedeli a Washington.

L’attenzione, quindi, si sposta dagli aspetti militari a quelli strategici – che richiamano alle loro responsabilità i politici – i quali non hanno compreso che la situazione sul campo era enormemente più complessa: i militari, in definitiva, hanno svolto bene i compiti loro affidati, sconfiggendo Saddam in tempi rapidissimi.
Quella che è invece mancata è stata la valutazione di una possibile alternativa – una sorta di “piano B” – qualora gli avvenimenti avessero assunto altre tinte: quando Bush dichiarò la fine delle ostilità – il 1° Maggio del 2003 – ci credeva, credeva veramente che, sconfitto Saddam, la guerra fosse finita. Qualcun altro, invece, aveva preparato una sorta di “piano B”, mentre gli USA si cullavano nell’illusione che tutto fosse terminato.
Nelle “pieghe” delle notizie si trovano a volte dei veri e propri “fari” che illuminano gli eventi: il vertice del partito Baath – Saddam compreso – fuggì verso Nord quando gli americani entrarono a Baghdad. Nella confusione di quelle ore, le agenzie riportarono una notizia che non fu valutata nella sua importanza: le casse della banca centrale irachena erano state svuotate, c’era un ammanco valutato in alcuni miliardi di dollari (forse 2 o 3).

Che Saddam si fosse appropriato dei soldi di quella che riteneva la sua banca centrale non stupisce: quel che non fu attentamente valutato fu l’impatto che quel mare di soldi avrebbe potuto avere in un paese dove si campa con meno di un dollaro il giorno e dove un Kalashnikov costa 20 dollari.
Quel campanello d’allarme non fu avvertito, anche perché nei giorni seguenti alla caduta di Baghdad il paese era praticamente tranquillo: sulla via che porta a Tikrit non fu combattuta nessuna battaglia, giacché i tank della Guardia Repubblicana furono abbandonati intatti – a centinaia – ai bordi delle strade. Insomma, una fuga generale, una sorta di “otto settembre” iracheno.
L’atmosfera di festa per la caduta del despota, unita alla resa totale di ciò che rimaneva dell’esercito di Saddam, condussero gli americani dritti dritti al loro primo, colossale errore: armarono le milizie sciite del Sud pensando che – avendo gli sciiti subito le repressioni del regime – esse sarebbero state loro fedeli. Comprendiamo che suonerà strano alle orecchie dei più, ma “l’esercito del Mahdi” di Moqtada ad Sadr fu riarmato, in quei giorni, dagli americani con gli arsenali di Saddam caduti intatti nelle loro mani. Perché?

Per capire l’azzardo bisogna prima comprendere la natura della strategia USA, che deriva dall’impostazione della politica estera, che a sua volta non può prescindere dalla storia di una nazione. Curiosamente, proprio gli inglesi misero sul “chi va là” gli americani dal compiere quel gesto – e gli inglesi d’imperi se n’intendevano certo di più – ma non furono ascoltati.
Forti della loro esperienza in campo coloniale, gli inglesi sapevano che la fase di “normalizzazione” di un paese appena vinto non dura pochi giorni, tanto meno che ci si può fidare a riarmare truppe appena sconfitte: l’organizzazione coloniale ha le sue regole, e solo rispettandole si crea l’equilibrio fra le truppe d’occupazione ed i coolies, quelle coloniali. Gli americani, viceversa, non conoscevano le regole dell’occupazione coloniale, e si cullarono nell’illusione della “liberazione” dell’Iraq dal despota, che avrebbe condotto naturalmente gli iracheni a fidarsi di loro.
Per anni inglesi ed italiani si sono mossi sul territorio forti delle rispettive esperienze coloniali: ci rendiamo conto che parlare apertamente di “colonie” può risultare offensivo, ma è l’unica strada che conduce a ricostruire un quadro della situazione che ha forti elementi di coerenza al suo interno.

Nelle aree sottoposte al controllo inglese ed italiano le violenze sono state minori: pur mantenendo il controllo militare, il comando inglese di Bassora ha sempre cercato di coinvolgere politicamente gli iracheni nella gestione del territorio. Se fosse dipeso da loro, gli inglesi non avrebbero consegnato un solo fucile agli iracheni, ma sappiamo che a fare la “frittata” furono i comandi americani.

Perché questo strano atteggiamento da parte americana?
La prima ragione è senz’altro da ricercare nell’organizzazione strategica dell’invasione: secondo Washington, bisognava colpire duro e poi ritirarsi in fretta, lasciano ad un rinnovato governo iracheno, a loro fedele, il compito di “riavviare” una sorta di normalità nel paese. Consegnare le armi era dunque – nella loro impostazione – il primo passo verso la gestione del territorio affidata ad elementi locali.
Anche in questo, però, si dimostrarono inadeguati, come per l’incredibile atteggiamento assunto nei confronti dei tesserati del partito Baath di Saddam, che furono estromessi immediatamente da qualsiasi incarico.
Come faceva ad ignorare Paul Bremer – il governatore “coloniale” americano – che tutti i medici in Iraq erano forzatamente iscritti al partito Baath ? Le camere operatorie si svuotarono immediatamente.

Dopo qualche giorno si resero conto dell’errore e reintegrano i medici ai loro posti, dando però l’impressione di non avere chiarezza sulla strategia da seguire. Dopo l’uccisione di tre americani a Falluja – i cadaveri dei quali furono straziati dalla folla – ebbero la bella pensata d’inviare alla testa di un riarmato contingente iracheno un generale di Saddam. Il risultato fu che le truppe non solo non spararono un solo colpo contro i ribelli di Falluja, bensì che parecchi militari disertarono ed andarono ad ingrossare le fila della guerriglia: proprio a causa di quegli errori, nel novembre del 2004 gli USA attuarono a Falluja il classico metodo della distruzione totale, lo stesso sistema di bombardamenti a tappeto sulle popolazioni utilizzato a Dresda, Hanoi e Belgrado. Perché tanto pressappochismo?
Poiché – nonostante gli USA siano accusati d’imperialismo – non hanno una mentalità imperiale, tanto meno hanno esperienza in campo coloniale. E, attenzione: queste sono cose che non s’inventano in quattro e quattr’otto.

A differenza degli inglesi, degli italiani e dei francesi, gli USA non hanno mai dovuto confrontarsi con la gestione di una colonia: anzi, l’unica esperienza che hanno in tal senso è una lunga guerra per liberarsi dal dominio coloniale.
Spesso, in Europa, si considera la Rivoluzione Americana con un evento interno allo stesso popolo – e così in parte fu – ma non dimentichiamo che la liberazione dal governo coloniale inglese è una delle pagine della loro storia alla quale gli americani tengono di più. La lotta contro le truppe di Lord Cornwallis, fino alla caduta di Yorktown ad opera di George Washington, è una pietra miliare della storia americana – studiata accuratamente nelle scuole e spesso ricordata – e si tratta di una vicenda che narra della liberazione dal giogo coloniale.
I fondamenti della storia americana nascono quindi da una lotta di liberazione: successivamente ci furono le cosiddette “Guerre Indiane”, ovvero lo sterminio dei Nativi americani, nelle quali incontriamo un comportamento ancora diverso.

Le Guerre Indiane narrano tout court una vicenda di sterminio: sappiamo che Oglala e Cheyenne furono relegati nelle riserve, ma quelli che finirono a Pine Ridge non furono i popoli Oglala e Cheyenne, furono i loro miseri resti. La controproducente sottovalutazione delle sevizie operate ad Abu-Ghraib porta dritti dritti alle cannonate di Wounded Knee: un’assurda schizofrenia nella gestione degli eventi – dal riarmo di Al-Sadr alle sevizie sui prigionieri – che indica proprio la mancanza di una strategia dovuta all’inesperienza. 
In definitiva, le Guerre Indiane non impegnarono gli USA in una successiva occupazione coloniale: semplicemente, gli abitanti autoctoni di quelle terre furono sterminati o deportati, ed a loro si sostituirono popolazioni d’origine europea.
Anche nella guerra contro il Messico il copione non fu molto diverso: conquistato il Texas, le popolazioni che lo popolarono furono prevalentemente d’origine nord europea. Le guerre che gli USA condussero fuori del Nord America non ebbero nessun connotato coloniale: così fu per la guerra contro la Spagna (nelle Filippine non ci fu emigrazione dagli USA) e per le due Guerre Mondiali, fino alla Corea.

Giungiamo così al Vietnam, dove per la prima volta i nodi giunsero al pettine.
La guerra in Vietnam mostrò per la prima volta l’inadeguatezza degli USA nel gestire una situazione nella quale bisognava – in qualche modo – sostenere un governo-fantoccio, assumere un atteggiamento coloniale o neo-coloniale.
Converrà riflettere che, dall’altra parte della barricata, Ho-Chi-Minh considerava tout court gli americani come degli occupanti coloniali (memore della precedente dominazione coloniale francese), solo che gli americani non si resero mai conto d’esserlo, e tanto meno adottarono delle tecniche di controllo coloniale.
Si limitarono dapprima a fornire i cosiddetti “consiglieri militari” al governo del Sud, e giunsero infine ad avere un contingente che superava le 500.000 unità senza però mai intervenire direttamente nel governo del paese.

Ovviamente il governo di Saigon era completamente succube di quello statunitense, e non si muoveva foglia senza che Washington approvasse, ma l’apparente indipendenza dei sud-vietnamiti condusse talvolta a delle frizioni ed a delle incomprensioni nella condotta delle operazioni militari, mentre era facile per il Vietnam del Nord additare gli americani come occupanti coloniali ed il governo di Saigon come traditore della comune patria vietnamita. In definitiva, gli USA finirono per apparire – al Sud come al Nord – degli occupanti perché non avevano nessun contatto con la popolazione, nemmeno con la borghesia locale.
Potremmo ancora ricordare Panama o l’attuale appoggio al regime colombiano ma questa rimane, in sintesi, l’esperienza internazionale americana in campo coloniale: con questo bagaglio d’esperienze – nessuna delle quali ha a che fare con una vera e propria occupazione coloniale – gli USA hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq, paesi estremamente complessi sotto l’aspetto sociologico, economico e religioso. Insomma, con la sola esperienza di un infermiere da campo pretendono d’intervenire in un’operazione chirurgica a cuore aperto.

Come troveranno una soluzione?
L’unica soluzione sarà un ritiro, camuffato con chissà quali artifizi mediatici: quando, nel 1943, i giapponesi fuggirono dalla Nuova Guinea, lo Yomiuri Shimbun di Tokyo titolò che il Giappone aveva ultimato “un’avanzata di ritorno”.
Come s’inquadra la distruzione della Moschea di Samarra nell’attuale situazione? Chi può cercare di trarre vantaggio da un simile evento?
Da più parti si è gridato “al lupo”: gli sciiti hanno sulle prime accusato i sunniti, gli USA non meglio definiti “nemici del processo di democratizzazione”, l’Iran ha accusato americani e sionisti, altri ancora Al-Qaeda e qualcuno ha tirato in ballo il fantomatico Al-Zarqawi.

L’Iraq è un paese dove vivono circa 12 milioni di sciiti e solo 5 milioni di sunniti: secondo quale logica i sunniti – una minoranza – avrebbero interesse a scatenare contro di loro la maggioranza sciita che, oltretutto, arma per la maggior parte le milizie statali? Appare in una luce sinistra anche il fallito tentativo d’attaccare la Moschea dell’Imam Alì a Kerbala – costato la vita alla povera gente di un mercato – e stupisce notare che l’attentatore non era un kamikaze, bensì un uomo che ha abbandonato l’auto nel mercato dopo essersi reso conto di non poter raggiungere l’obiettivo stabilito. Stabilito: e da chi? Perché – dopo centinaia d’attentati suicidi – colui che doveva colpire il massimo simbolo religioso sciita non si è sacrificato ed ha lasciato esplodere la sua auto imbottita d’esplosivo in un anonimo mercato?
Chi ha distrutto la Moschea di Samarra non c’entra evidentemente nulla con la democrazia, ma questo non significa che della democrazia irachena importi qualcosa a Washington.

Affermare che in questo modo s’arresta il processo di democratizzazione dell’Iraq potrebbe essere vero, sempre che esista qualcosa che possa essere definito “democrazia irachena”, un’entità in grado di sopravvivere all’esterno della “zona verde” di Baghdad e dei media. In realtà, esistono solo un mare di chiacchiere con le quali cercare di sorreggere ciò che non sta in piedi nemmeno con le stampelle: prima di parlare di democrazia, bisognerebbe arrestare il quotidiano martellamento d’attentati e di morti.
Tirare in ballo il sionismo, Al-Qaeda od Al-Zarqawi è come incolpare Cappuccetto Rosso o lo zio Paperone: quali prove – od anche semplici ma coerenti ipotesi – si hanno per sostenere simili tesi?

In Iraq agisce il meglio dei servizi segreti di molti paesi: nell’estate del 2003, furono uccisi sulla via di Baquba – proprio mentre la Germania tuonava contro l’intervento USA – due agenti tedeschi: cosa stavano facendo in Iraq? Chi li uccise? Sempre Al-Qaeda od Al-Zarqawi. Perché la fanteria USA sparò sul convoglio dell’ambasciatore russo che stava raggiungendo la frontiera giordana?
Lo scoppio della guerra interreligiosa fra sunniti e sciiti potrebbe essere utilizzata dagli USA per ritirarsi nelle 14 basi aeree che occupano e che – hanno chiarito – non abbandoneranno nemmeno dopo una loro partenza dall’Iraq. L’infuriare della battaglia fra sciiti e sunniti sarebbe pur sempre un alibi, ed un mezzo per deviare contro altri gli attacchi effettuati contro le truppe americane.
D’altro canto, è proprio ciò che fece nel 1941 il comandante britannico per fronteggiare la rivolta irachena: si trincerò in un campo fortificato a sud di Baghdad ed attese rinforzi dall’India, con i quali marciò – corsi e ricorsi storici – su Falluja.

E’ la stessa scelta operata dagli italiani dopo la famigerata ed occultata “battaglia dei ponti” a Nassirya: appurato che non era più possibile controllare la città senza scontrarsi con le milizie, optarono per il ritiro nella sicura base di Camp Mittica, dove tuttora vivono trincerati da quasi due anni. Peccato che quel “trinceramento” costi al contribuente italiano circa un miliardo di euro l’anno.
Qualcuno potrà obiettare che in questo modo gli USA perderebbero il controllo del petrolio iracheno ma, per come sono andate le cose, salvare le basi aeree (che consentono in ogni caso una proiezione di potenza verso i paesi limitrofi e l’Asia centrale) è già un risultato accettabile: di più, degli inadeguati colonialisti non possono proprio pretendere.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it

 
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