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Se
questo è l'imperatore
di Giulietto Chiesa - «Il Manifesto» 10 febbraio 2004
«Era
in grado di fare le armi. Era pericoloso, e io non sono proprio uno che
lo lascia al potere, o che ha fiducia in un pazzo». George Warbusto ha
sciorinato davanti al mondo la sua drammatica visione del diritto
internazionale, che, mutatis mutandis, l'oppone all'altezza del
ministro italiano della giustizia. La lettura dell'intervista,
effettuata sulle pagine del Herald Tribune è però molto più
divertente di quella - ben educata e con le virgole a posto - data da
alcuni giornali italiani. A un certo punto l'intervistatore, Tim Russert,
richiede, molto rispettosamente, se ritenga che la guerra sia stata una
scelta o una necessità. La prontezza di riflessi dell'imperatore appare
eccezionale. «Penso che sia una domanda interessante. Non potrebbe
elaborare un pochino meglio?», ci deve pensare sopra. Poi, forse - non
è sicuro - si accorge che qualcosa deve pur dire, e continua da solo:
«Una guerra per necessità. L'Iraq era un posto pericoloso».
Basta questo piccolo florilegio per farci
capire in che mani siamo. Costui ha mandato un esercito a conquistare un
paese sulla base di una fila di menzogne che farebbero arrossire i
soliti ignoti. E adesso ci comunica che Saddam Hussein era in grado di
fare le armi. Quanti sono, in giro per il mondo, a cominciare da lui
stesso, quelli che sanno fare le armi e le usano a sproposito? Che
facciamo? Li facciamo fuori tutti?
Ma
ormai la logica, perfino la sintassi, sono oltre l'orizzonte dei
dirigenti del pianeta. Che ne è di Osama Bin Laden?, chiede malizioso
l'intervistatore. E George prontissimo: «Non so se è vivo o morto, ma
lo prenderemo». E come mai la commissione d'inchiesta deve finire i
suoi lavori l'anno prossimo, a elezioni avvenute? «Deve esserci il
tempo a sufficienza per fare un ritratto ampio... che servirà ai
prossimi presidenti».
Un vero spettacolo di varietà, come l'intervallo del Super Bowl,
dove Janet Jackson ha fatto come Cicciolina e si è tirata giù, per
caso, il reggiseno, per la gioia (o il raccapriccio) di un centinaia di
milioni di spettatori americani, più altri cento milioni di stranieri
che si interessano di football americano.
In fondo ha ragione quel fior fiore di reazionario intelligente che si
chiama Thomas Friedman che ieri sul New York Times ha avuto un
attimo di sconforto e di vergogna: «Noi, che siamo così ricchi e così
forti e così nel giusto», ci vediamo consegnare dalla Casa bianca un
messaggio che è «moralmente e strategicamente da bancarotta», e che
suona più o meno così: Tutti voi continuate a occuparvi dei vostri
affari, fate shopping, cercate la felicità, guardatevi le tette di
Janet nell'intervallo del Super Boal, compratevi il fuoristrada
di Shwarzenhegger. «Nessun sacrificio vi è richiesto, nessuna attacco
da pagare per questa cuccagna infinita. Neppure il bisogno di ridurre il
consumo di benzina, anche se ciò consentirebbe di tagliare i
finanziamenti alle forze di intolleranza islamica che ammazzano i nostri
soldati».
L'imperatore,
a domanda, risponde: «Credo che in Iraq noi siamo i benvenuti». In un
paese normale, uno che ha 115mila uomini sul terreno, e che deve
registrare mediamente uno o due morti al giorno, sarebbe stato sommerso
di invettive o di lazzi, o di entrambi. Ma un paese normale (una
democrazia normale) non affiderebbe a uno così le sorti del proprio
destino e di quello dei 115mila uomini.
Lui,
l'imperatore, sa perfettamente che quello non è già più un paese
normale. E' per questo motivo che, sorridendo con sincero entusiasmo, ha
detto :«Io non perderò». Nonostante i sondaggi lo diano in basso, e
l'economia vada maluccio. Guardando quelle immagini mi sono ricordato la
descrizione della famiglia Bush al completo, la sera della vittoria (si
fa per dire) del 2000 fatta da Michael Moore. Bush stava perdendo, ma
tutti sorridevano compiaciuti, come gatti che sapevano, loro soltanto,
dove stava il topo che avrebbero mangiato di lì a poco.