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Le
guerre del petrolio
di
Michael T. Klare da TomDispatch – tratto da www.nuovimondimedia.com
Trasformare
l'esercito americano in un servizio globale di protezione del petrolio.
A distanza di un anno e mezzo dal primo attacco sferrato in Iraq, i
soldati americani combattono per mantenere il controllo sugli impianti
petroliferi, e il sangue continua a scorrere copioso. Ma l'Iraq non è
certo l'unico paese in cui le truppe americane si adoperano per
salvaguardare il loro costante rifornimento di petrolio. Avviene anche
in Colombia, Arabia Saudita, Georgia, Azerbaijan, Iran, Kazakistan,
Turkmenistan, Senegal, Ghana, Mali, Uganda, Kenya...
Il primo attacco, durante la guerra in Iraq, è stato condotto da un
commando della marina contro una piattaforma petrolifera in mare aperto.
«Sbucati in silenzio dalla notte ormai calata sul Golfo Persico»,
scriveva, il 22 marzo, un giornalista infervorato del New York Times «i
Navy Seals (truppe speciali della marina, NdT) hanno preso il controllo
di due terminali petroliferi. Il raid è terminato all’alba di questa
mattina con la sconfitta delle guardie irachene, peraltro poco armate.
Le truppe americane si sono così aggiudicate una vittoria senza
spargimento di sangue nella battaglia per conquistare il vasto impero
petrolifero iracheno».
A
distanza di un anno e mezzo, i soldati americani stanno ancora
combattendo per mantenere il controllo su questi importantissimi
impianti petroliferi, e il sangue ora inizia a scorrere copioso. Il 24
aprile due marinai americani e un guardacoste sono rimasti uccisi in
seguito all’esplosione, nei pressi della piattaforma petrolifera Khor
al-Amaya, di una barca che cercavano di intercettare. Si presume che a
bordo vi fossero dei kamikaze. Altri americani sono stati attaccati
mentre proteggevano alcuni dei numerosi impianti dell'«impero
petrolifero» iracheno.
In effetti, la guerra in Iraq si è divisa su due fronti: da una parte,
coloro che combattono per il controllo delle città irachene,
dall’altra le continue battaglie per proteggere le vaste
infrastrutture petrolifere da sabotaggi e attacchi. Il primo scenaio è
stato ampiamente documentato dalla stampa americana; non altrettanto si
può dire della seconda. Eppure, il futuro delle infrastrutture
petrolifere irachene potrebbe essere importante quanto quello delle città
assediate. Se l’operazione dovesse fallire, verrebbero a mancare le
basi economiche per la nascita di un governo iracheno stabile. «Nel
complesso», riferisce un ufficiale superiore al New York Times, «è
probabile che nessun altro posto, in cui sono impegnate le nostre forze
armate, rivesta altrettanta importanza strategica». A conferma di
questo, si consideri che un numero consistente di soldati americani sono
stati assegnati alla protezione delle infrastrutture petrolifere.
Alcuni funzionari insistono che queste mansioni potranno, in futuro,
passare alle forze irachene ma, col passare dei giorni, questo momento
glorioso sembra diventare sempre più remoto. Fin quando le forze
americane rimarranno in Iraq, una parte consistente di esse dovrà
certamente difendere gli oleodotti, le raffinerie, gli impianti di
caricamento e le altre infrastrutture petrolifere molto vulnerabili. Con
migliaia di chilometri di oleodotti e centinaia di infrastrutture a
rischio, questo incarico sarà sempre arduo e pericoloso. Al momento, i
guerriglieri sembrano capaci di colpire gli oleodotti del Paese quando e
dove vogliono, spesso causando enormi esplosioni e incendi.
Difendere gli oleodotti
È stato fatto
notare che il nostro ruolo di protezione degli oleodotti è una
caratteristica peculiare della guerra in Iraq, dove gli impianti
petroliferi sono ovunque e l'economia nazionale dipende ampiamente dagli
introiti del petrolio. Ma l'Iraq non è certo l'unico paese in cui le
truppe americane rischiano ogni giorno la vita per salvaguardare il loro
costante rifornimento di petrolio. Anche in Colombia, Arabia Saudita e
in Georgia, i soldati americani sono impegnati a proteggere gli
oleodotti e le raffinerie o a sovrintendere sulle forze locali assegnate
a questa missione. La Marina americana sta vigilando sulle piattaforme
petrolifere nel Golfo Persico, nel Mar Arabico, nel Mar Cinese
Meridionale e su altre rotte marine che riforniscono di petrolio gli
Stati Uniti e i suoi alleati. Di fatto, le forze americane si stanno
trasformando sempre più in un servizio globale per la protezione delle
infrastrutture petrolifere.
La situazione in Georgia è un chiaro esempio di questa tendenza. Subito
dopo la caduta dell'Unione Sovietica nel 1992, le compagnie petrolifere
americane e alcuni funzionari governativi hanno cercato di accedere alle
immense riserve di gas naturale del bacino del Mar Caspio, specialmente
in Azerbaijan, Iran, Kazakistan e Turkmenistan. Alcuni esperti stimano
che dal Mar Caspio si possano estrarre ancora non meno di 200 miliardi
di barili, circa 7 volte la riserva statunitense. Ma il Caspio è privo
di sbocchi, quindi il solo modo per trasportare il petrolio ai mercati
occidentali è l’utilizzo di oleodotti che attraversino il Caucaso,
un’area che include Armenia, Azerbaijan, Geogia e le repubbliche russe
devastate dalla guerra quali Cenenia, Dagestan, Inguscezia e l'Ossezia
del Nord.
Le
società americane stanno costruendo un importante oleodotto attraverso
quest'area instabile. Snodandosi per oltre 1500 km di pericoli, da Baku
in Azerbaijan passando per Tbilisi in Georgia fino a Ceyhan in Turchia,
è destinato a fornire all’Occidente un milione di barili di petrolio
al giorno; affronterà, però, la costante minaccia di sabotaggi da
parte dei militanti islamici e dei separatisti etnici lungo tutto il suo
percorso. Gli Stati Uniti si stanno già impegnando per la sua
salvaguardia, fornendo milioni di dollari in armi e attrezzature
all'esercito georgiano e inviando militari specializzati a Tbilisi per
addestrare e consigliare le truppe georgiane assegnate alla protezione
di questo condotto così importante. Nel 2005 o nel 2006, quando
l'oleodotto entrerà in funzione, la presenza americana molto
probabilmente aumenterà e i combattimenti nella zona si
intensificheranno.
Consideriamo invece la Colombia devastata dalla guerra, dove le forze
USA si stanno assumendo sempre più la responsabilità di proteggere i
vulnerabili oleodotti. Questi condotti, di vitale importanza,
trasportano il greggio dai giacimenti interni, dove imperversa la
guerriglia, ai porti sulla costa caraibica dalla quale può essere poi
trasportato agli acquirenti negli Stati Uniti e altrove. Per anni i
guerriglieri hanno sabotato questi oleodotti – l’espressione dello
sfruttamento straniero e del governo elitarista di Bogotà, a loro detta
– per privare il governo colombiano di entrate essenziali. Al fine di
sostenere il governo nella lotta alla guerriglia Washington sta già
spendendo centinaia di milioni di dollari per migliorare la sicurezza
delle infrastrutture petrolifere, a partire dall'oleodotto Caño-Limón,
l'unico che collega i ricchi giacimenti petroliferi occidentali nella
provincia dell'Arauca con la costa caraibica. Sempre in questa
direzione, truppe speciali americane provenienti da Fort Bragg, Carolina
del Nord, stanno aiutando ad addestrare, equipaggiare e guidare un nuovo
contingente di forze armate colombiane la cui unica missione sarà
quella di combattere i guerriglieri e proteggere l’oleodotto lungo
tutti i suoi 770 km di lunghezza.
Petrolio
e stabilità
L'impiego di
truppe americane per proteggere le vulnerabili infrastrutture
petrolifere nelle aree a rischio di conflitti ha sicuramente lo scopo di
incrementare tre fattori di importanza fondamentale: la sempre maggiore
dipendenza americana dal petrolio importato, lo spostamento globale
della produzione di petrolio dai paesi ricchi a quelli in via di
sviluppo e la crescente militarizzazione della politica energetica
estera americana.
La dipendenza americana dal petrolio importato è cresciuta
costantemente dal 1972, quando la produzione interna raggiunse il suo
livello massimo con 11,6 milioni di barili al giorno (mbg). La
produzione USA oggi si aggira intorno ai 9 mbg e si pensa che continuerà
a diminuire man mano che i giacimenti più vecchi si esauriranno (anche
estraendo il petrolio dai giacimenti dell’Arctic National Wildlife
Refuge in Alaska, come vorrebbe l'amministrazione Bush, questa tendenza
non cambierebbe). Ciònonostante, il consumo totale di petrolio
americano continua a crescere; attestato sui 20 mbg, si prevede che
raggiungerà i 29 mbg entro il 2025. Questo significa che buona parte
dell'approvvigionamento di petrolio totale dovrà essere importata –
dai 11 mbg odierni (circa il 55% del consumo USA totale) ai 20 mbg nel
2005 (il 69% del consumo).
Fattore ancor più significativo di questa crescente dipendenza dal
petrolio estero è che una quantità sempre maggiore di petrolio proverrà
da paesi in via di sviluppo, ostili e dilaniati dalla guerra, e non da
paesi stabili e amici, come il Canada e la Norvegia. Questo perché i
vecchi Paesi industrializzati hanno ormai consumato gran parte dei loro
giacimenti, mentre molti produttori nei paesi in via di sviluppo ne
posseggono ancora vaste riserve. Di conseguenza, assistiamo a un
spostamento storico nel baricentro della produzione mondiale di
petrolio: dai paesi industrializzati dell'emisfero nord, si va man mano
verso i paesi in via di sviluppo nell'emisfero sud, che sono spesso
politicamente instabili, devastati da conflitti etnici e religiosi,
rifugio di organizzazioni estremistiche, o combinazione delle tre.
Per
quanto in questi paesi esistano radicati contrasti storici, la
produzione di petrolio ha di per sé un'influenza ancor più
destabilizzante. L'improvviso afflusso di ricchezze legate al petrolio
in Paesi in via di sviluppo tende ad accrescere il divario tra ricchi e
poveri, fattore che spesso si sedimenta su divisioni etniche e
religiose, conducendo a continui conflitti per la distribuzione degli
introiti petroliferi. Per prevenire queste agitazioni, governanti
oligarchici come la famiglia reale dell'Arabia Saudita o i nuovi
potentati dell'Azerbaijan e del Kazakistan limitano o vietano le
manifestazioni pubbliche di protesta e si affidano alla repressione
della polizia per sedare i movimenti d’opposizione. Eliminate in
questo modo le espressioni legali e pacifiche di dissenso, le forze
dell'opposizione non vedono altra soluzione che la ribellione armata o
il terrorismo.
C’è un altro aspetto di questa situazione che merita di essere
esaminato. Molti dei paesi in via di sviluppo, un tempo colonie e oggi
emergenti produttori di petrolio, si oppongono con forte ostilità agli
ex paesi dominatori. In questi paesi molti vedono gli Stati Uniti come i
moderni ereditari di questa tradizione imperialistica. Il risentimento,
a seguito di traumi economici e sociali causati dalla globalizzazione,
è imputato agli Stati Uniti. Visto che il petrolio è considerato la
principale causa del coinvolgimento americano in queste aree, e poiché
le multinazionali petrolifere statunitensi sono viste come le reali
espressioni del potere americano, qualsiasi cosa abbia a che fare con il
petrolio – oleodotti, pozzi, raffinerie, piattaforme petrolifere –
è considerato dai rivoltosi un obiettivo invitante e legittimo da
colpire; da qui gli attacchi agli oleodotti in Iraq, alle compagnie
petrolifere in Arabia Saudita e alle petroliere nello Yemen.
La
militarizzazione della politica energetica
I leader
americani hanno risposto di conseguenza a questo continua sfida alla
stabilità nelle zone produttrici di petrolio, facendo ricorso a mezzi
militari per garantire un approvvigionamento costante di petrolio.
Questo metodo fu adottato per la prima volta dall'amministrazione
Truman-Eisenhower dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando l'avventurismo
sovietico in Iran e i disordini filo-arabi nel Medio Oriente sembravano
minacciare la sicurezza delle forniture petrolifere del Golfo Persico.
Questa reazione fu in seguito formalizzata dal Presidente Carter nel
gennaio del 1980, quando, in risposta all'occupazione sovietica
dell'Afghanistan e alla rivoluzione islamica in Iran, annunciò che il
sicuro approvvigionamento petrolifero dal Golfo Persico era «di
interesse vitale per gli Stati Uniti d'America», e che, per proteggere
questo interesse, avrebbe fatto ricorso a «qualsiasi mezzo necessario,
incluso l’intervento militare». Il principio di Carter di usare la
forza per proteggere il rifornimento di petrolio fu in seguito ripreso
da Bush senior per giustificare l'intervento Americano nella Guerra del
Golfo del 1990-1991, e ha fornito la giustificazione logica alla base
della recente invasione dell'Iraq.
In origine, questa politica era circoscritta alla principale regione
produttrice di petrolio, il Golfo Persico. Ma, data la crescente
richiesta americana di petrolio importato, i funzionari USA hanno
iniziato a estenderla alle regioni produttrici più importanti, incluso
il bacino del Mar Caspio, l'Africa e l'America Latina. Il primo passo in
questa direzione è stato compiuto dal presidente Clinton, il quale
cercava di sfruttare il potenziale energetico del bacino del Caspio e,
preoccupato dell'instabilità della zona, aveva allacciato legami
militari con futuri fornitori, tra cui l'Azerbaijan, il Kazakistan e la
Georgia, essenziale crocevia del petrolio. Clinton era stato il primo a
promuovere la costruzione di un oleodotto da Baku a Ceyhan e a compiere
i primi passi per proteggere questo condotto accrescendo la capacità
militare dei Paesi coinvolti. Bush junior ha portato avanti questi
sforzi, aumentando gli aiuti militari a questi Paesi e inviando
consulenti militari in Georgia, esta anche considerando la possibilità
di costruire delle basi militari USA nella regione del Caspio.
Come
al solito, queste manovre vengono giustificate come sforzi di vitale
importanza per «la guerra al terrorismo». Una lettura più
approfondita dei documenti del Pentagono e dello State Department
mostrano, invece, che nei piani dell'amministrazione Bush
l'anti-terrorismo e la salvaguardia dei rifornimenti di petrolio sono
strettamente collegati. Quando nel 2004, per esempio, ha richiesto fondi
per formare un «contingente di reazione rapida» in Kazakistan, lo
State Department ha detto al Congresso che tale forza è necessaria per
«migliorare la capacità del Kazakistan di rispondere alle maggiori
minacce terroristiche per le piattaforme petrolifere» del Mar Caspio.
Come è noto, una politica simile è ora in atto in Colombia. La
presenza dell'esercito americano, anche se di minore entità, in regioni
africane produttrici di petrolio, sta crescendo rapidamente. Il
Dipartimento della Difesa ha aumentato il rifornimento di armi alle
forze militari in Angola e Nigeria,e sta aiutando ad addestrare i loro
ufficiali e le truppe. Nel frattempo, i funzionari del Pentagono stanno
cercando di costruire basi americane permanenti nella regione,
concentrandosi su Senegal, Ghana, Mali, Uganda e Kenya. Anche se questi
funzionari tendono a parlare di terrorismo solo quando spiegano il
bisogno di queste strutture, nel giugno 2003 un funzionario ha riferito
a Greg Jaffe del Wall Street Journal che «una missione chiave per le
forze Usa [in Africa] sarebbe quella di assicurarsi che i giacimenti di
petrolio Nigeriani, che in futuro potrebbero rappresentare fino al 25%
delle importazioni americane, siano ben protetti».
Una
parte notevole della nostra flotta viene impiegata anche per proteggere
le petroliere straniere. La Quinta Flotta della Marina americana, che ha
base nello stato insulare di Bahrain, occupa ora la maggior parte del
suo tempo sorvegliando il collegamento tra il Golfo Persico e lo Stretto
di Hormuz, quell’angusto canale che unisce il Golfo Persico all'Arabia
Saudita e l'Oceano dall'altra parte. La Marina ha anche aumentato la sua
capacità di proteggere importanti vie marittime nel Mare Cinese
Meridionale – sito di promettenti giacimenti di petrolio reclamati
dalla Cina, dal Vietnam, dalle Filippine e dalla Malesia – e nello
stretto di Malacca, l’importantissimo collegamento marino tra il Golfo
Persico e gli alleati americani dell'Est Asiatico. Anche l'Africa ha
richiesto un maggior impegno per la Marina. Al fine di rafforzare la
presenza USA nelle acque confinanti con la Nigeria e altri produttori
chiave, i contingenti aeronavali affidati alla NATO in Europa (che
controlla l'Atlantico Meridionale) in futuro staranno meno nel
Mediterraneo e « trascorreranno metà del loro tempo percorrendo la
costa occidentale dell'Africa», ha annunciato, nel maggio 2003, il
Comandante Supremo NATO in Europa, il generale James Jones.
Questo, quindi, è il futuro dell'esercito americano impegnato
all'estero. Mentre si sfrutta la retorica dell’anti-terrorismo e della
sicurezza nazionale per spiegare le rischiose missioni all'estero, un
numero sempre maggiore di soldati e marinai americani saranno impegnati
a proteggere i giacimenti di petrolio oltremare, gli oleodotti, le
raffinerie e le rotte delle petroliere. E visto che queste strutture
probabilmente subiranno sempre più attacchi da parte di guerriglieri e
terroristi, saranno messe a repentaglio un maggior numero di vite. Per
ogni litro di petrolio in più che l’America otterrà dall'estero,
pagheremo un più alto prezzo in vite umane.
Michael
T. Klare è docente di studi sulla pace e la sicurezza mondiale
all'Hampshire College. Questo
articolo è basato sul suo nuovo libro, "Blood and Oil: The Dangers
and Consequences of America's Growing Petroleum Dependency (Metropolitan
/ Henry Holt)
Fonte: http://www.tomdispatch.com/index.mhtml?emx=x&pid=1888
Traduzione di Vanessa Bassetti (vantilde@libero.it) per Nuovi Mondi
Media
Copyright2004 Michael Klare