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Il
brutto della globalizzazione
Maurizio Blondet - 21/10/2005
tratto da www.effedieffe.com
Mettiamo
che scoppi la pandemia di influenza aviaria, obbligandoci a sospendere
le importazioni dall'Asia industriale: di colpo, ci mancherebbe quasi
tutto il materiale ospedaliero, dalle siringhe alle maschere
chirurgiche, che vengono prodotte ormai solo in Cina e dintorni.
Mettiamo
Se
La multinazionale Intel fornisce da sola il 95 % delle componenti
cruciali dell'elettronica, e le fa fabbricare in Asia: una crisi locale
asiatica metterebbe alle corde l'intero settore.
Un conflitto civile nel Sud dell'India?
Sarebbe la fine per tutte le banche inglesi e americane, che hanno
trasferito là (per risparmiare) la loro contabilità ed elaborazione
dati.
Un ciclone, un terremoto in quell'area
del mondo, e di colpo i banchi dei supermercati resterebbero mezzo
vuoti, e mancanti di merci essenziali a cui non pensiamo mai: basti dire
che la metà dei contenitori per il cibo usati nel mondo è prodotta da
una sola azienda,
La conseguenza, da noi, sarebbe il blocco di diverse produzioni,
licenziamenti, forse crisi finanziarie.
E'
un effetto collaterale
del capitalismo globale.
Lo aveva perfettamente previsto
già Karl Marx, che avendo assistito alla prima globalizzazione della
storia (l'impero britannico era un enorme mercato unificato, dal Canada
all'India) aveva pronosticato: il capitalismo, lasciato alla sua fame di
profitto, non produce concorrenza, ma pochi grandi monopoli privati.
I cantori della globalizzazione liberista ci avevano assicurato, invece,
il contrario: con la globalizzazione le numerosissime aziende del mondo
competeranno per offrire ai consumatori una infinita varietà di merci,
ai prezzi più bassi, in un mercato immensamente più elastico di quello
puramente interno.
Ora, dopo vent'anni di fusioni e acquisizioni, a restare sul mercato
mondiale sono poche colossali aziende, molto specializzate, che hanno
solo un grande sub-fornitore per ogni componente o semilavorato.
Aveva ragione Marx.
Ma
i liberisti anglo-americani se ne sono accorti solo dopo
l'uragano Katrina, che ha colpito l'area dov'è concentrata in USA non
solo l'estrazione, ma la raffinazione del greggio: e gli americani si
sono trovati col 10% di benzina in meno dei loro consumi. «Il
sistema è così concentrato e specializzato, che possiamo immaginare un
Paese che perda di colpo il 90 % delle sue forniture di prodotti
industriali necessari», ha scritto l'economista Barry Lynn, che ha
dedicato un libro a questo tema: la fragilità del sistema industriale
mondializzato (1).
Lynn denuncia tre cause di questa vulnerabilità del mercato globale.
La prima causa: le concentrazioni, fusioni ed acquisizioni con cui le
aziende potenti hanno inglobato le piccole nello scorso ventennio,
facendo sparire i concorrenti dal mercato.
La seconda causa: le grandi imprese che prima erano «verticalizzate»
(Fiat o General Motors producevano in proprio i componenti delle loro
auto), ora hanno demandato all'esterno la produzione di componenti e
semilavorati, concentrandole in Asia, dove le paghe sono inferiori.
Così risparmiano, ma così hanno favorito la nascita di sub-fornitori
unici a livello planetario, molto specializzati («efficienti» nel
gergo liberista), da cui dipende tutta la produzione di prodotti finiti.
La terza causa: la diffusione esagerata della gestione alla giapponese.
Fu
In Giappone, mercato nazionale, funziona alla perfezione.
Ma sul mercato globale, ha portato le aziende ad essere prive di scorte,
troppo dipendenti da un'unica fonte di rifornimento, magari nel lontano
Pacifico; al di là di numerosi confini, che possono chiudersi per una
crisi politica o naturale.
Basti pensare che tutte le merci di Cina, Corea e Giappone raggiungono
l'Occidente via mare attraverso il canale di Kra, un budello largo a
volte solo due chilometri, infestato da pirati, in una zona a rischio di
crisi internazionali e di terremoti devastatori.
Ormai,
tutto il nostro benessere
e la nostra economia pendono - come la spada di Damocle - da pochi fili,
che possono essere troncati da un momento all'altro.
Fino ad estremi assurdi.
I soldati americani in Iraq marciano su stivaletti anfibi Made in China.
In caso di guerra fra Cina e Usa, l'America perderebbe istantaneamente
questa fornitura militare umile ma essenziale.
E non è detto che potrebbe rimpiazzarla con una produzione autarchica.
Ecco la parola.
«Autarchia» è il contrario di «globalizzazione».
Significa anche indipendenza produttiva nazionale, mentre il liberismo
globale predica «l'interdipendenza».
Dipendiamo dall'Argentina per il grano, dall'Arabia per il petrolio, da
Taiwan per i computer?
Meglio così, dicono i liberisti, perché quei Paesi sono «efficienti»
in quella produzione, e noi possiamo comprare là a minor prezzo quel
che ci serve.
La produzione di grano nazionale, o di benzina sintetica fatta in casa
(come la faceva il Terzo Reich) hanno costi eccessivi.
Non sono «competitive» rispetto ai prodotti acquistabili all'estero.
D'accordo.
Ma un serio economista come il Nobel francese Maurice Allais già
metteva in guardia i cantori del liberismo planetario: esso funziona
solo a patto che non ci siano crisi nel mondo, e nel mondo c'è sempre
qualche crisi.
Conviene perciò mantenere all'interno di uno Stato, o di un gruppo di
Stati amici e stabili (come in Europa) , una capacità produttiva di
merci diversificate, per ridurre la dipendenza dall'estero.
Sì, il grano prodotto in Europa costerà un po' più caro di quello
argentino: ma in caso di crisi internazionale, ci garantisce che non ci
mancherà il pane.
E così tutte le altre merci.
Quei beni che oggi sembra «conveniente»
comprare all'estero, magari da un unico fornitore specializzato che fa
economie di scala, possono diventare di colpo costosissimi in caso di
crisi naturale o politica, o addirittura non venire più forniti: come
il petrolio, se il Medio Oriente diventa una zona di guerra.
E noi dipendiamo da quella al 90 %.
Che
faremo?
Autarchia si oppone
a globalizzazione come filosofia politica.
La prima dice che il «mercato» e il capitalismo privato non possono
essere l'unica istanza; che ci sono merci «strategiche» che lo Stato
deve decidere di produrre in casa anche a costi alti.
Per diversificare le nostre fonti di approvvigionamento.
Per secoli, il mondo ha funzionato ragionevolmente in regime di relativa
autarchia: si produceva in casa quanto possibile, e si importava quello
che proprio non era possibile produrre.
Come il caffè nei paesi temperati.
Non si produceva per esportare, ma essenzialmente per il mercato
interno.
Veniva esportato solo l'eventuale surplus.
Ma
oggi autarchia è una
parola-tabù.
Solo che, di fronte agli effetti
collaterali che rendono vulnerabile l'economia globalizzata, ora Barry
Lynn propone dei rimedi che si avvicinano allo storico compagno
dell'autarchia, il dirigismo.
Per esempio, obbligare le aziende ad avere almeno due sub-fornitori per
i componenti delle loro merci; limitare per legge la percentuale di beni
o servizi che sono importati da un solo Paese; rendere più incisive le
leggi anti-trust, per impedire la nascita di colossi monopolistici, di
concentrazioni coi piedi d'argilla.
Chiede, insomma, provvedimenti che erano anatema per il dogmatismo
liberista: l'intervento dello Stato in economia per domare gli «spiriti
animali» del capitalismo, che lasciati alla loro dinamica interna,
quella del profitto, producono vulnerabilità e disastri.
Insomma
chiede di assoggettare di nuovo il mercato a
leggi e regole dettate dalla volontà politica per il bene comune.
Più «colbertismo» alla Tremonti,
e meno liberismo selvaggio.
Lynn è perfettamente conscio di prescrivere misure che, per il
liberismo radicale, sono eresie, perché si configurano come «aumenti
dei costi».
E perciò si giustifica.
In ogni sistema complesso, dice, abbiamo imparato ad approntare dei «tamponi»
contro gli shock.
Davanti alle locomotive abbiamo messo dei respingenti.
Nelle navi, i compartimenti stagni.
Nelle reti elettriche, gli interruttori di corrente.
Nel sistema bancario, l'obbligo di «riserve» liquide per far fronte
alle crisi.
Lungo i fiumi, abbiamo innalzato argini.
Sembrano
costi inutili, finché tutto va bene.
Ma ecco un'alluvione a New Orleans, e abbiamo visto quanto ci è costato
risparmiare sui costi «inutili» degli argini.
I compartimenti stagni nelle navi sono un costo, portano via spazio al
carico commerciale: ma nessun comandante sarebbe tanto idiota da
pilotare una nave priva di porte stagne.
Eppure, in economia, siamo stati così idioti da «liberarla» di tutti
i tamponi, tutti i respingenti, tutte le riserve, nell'illusione di
renderla più «efficiente».
L'abbiamo solo resa più vulnerabile alle tempeste del mondo.
Maurizio
Blondet