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Il brutto della globalizzazione
Maurizio Blondet - 21/10/2005 tratto da www.effedieffe.com

Mettiamo che scoppi la pandemia di influenza aviaria, obbligandoci a sospendere le importazioni dall'Asia industriale: di colpo, ci mancherebbe quasi tutto il materiale ospedaliero, dalle siringhe alle maschere chirurgiche, che vengono prodotte ormai solo in Cina e dintorni.
Mettiamo la Corea del Nord attacchi quella del Sud: perderemmo la metà della produzione mondiale di D-ram, ossia delle memorie dei computer, il 65% dei chip «flash», che vengono prodotti  in Corea.
Se la Cina attacca Taiwan, colerebbe a picco tutta l'elettronica, dai telefonini ai calcolatori al software relativo: Nokia e Philips, Sony e Dell, dipendono totalmente da Taiwan per queste forniture.
La multinazionale Intel fornisce da sola il 95 % delle componenti cruciali dell'elettronica, e le fa fabbricare in Asia: una crisi locale asiatica metterebbe alle corde l'intero settore.
Un conflitto civile nel Sud dell'India?
Sarebbe la fine per tutte le banche inglesi e americane, che hanno trasferito là (per risparmiare) la loro contabilità ed elaborazione dati. 
Un ciclone, un terremoto in quell'area del mondo, e di colpo i banchi dei supermercati resterebbero mezzo vuoti, e mancanti di merci essenziali a cui non pensiamo mai: basti dire che la metà dei contenitori per il cibo usati nel mondo è prodotta da una sola azienda, la Owens-Illinois ,  che li fa fare in Asia.
La conseguenza, da noi, sarebbe il blocco di diverse produzioni, licenziamenti, forse crisi finanziarie.

E' un effetto collaterale del capitalismo globale. 
Lo aveva perfettamente previsto già Karl Marx, che avendo assistito alla prima globalizzazione della storia (l'impero britannico era un enorme mercato unificato, dal Canada all'India) aveva pronosticato: il capitalismo, lasciato alla sua fame di profitto, non produce concorrenza, ma pochi grandi monopoli privati.
I cantori della globalizzazione liberista ci avevano assicurato, invece, il contrario: con la globalizzazione le numerosissime aziende del mondo competeranno per offrire ai consumatori una infinita varietà di merci, ai prezzi più bassi, in un mercato immensamente più elastico di quello puramente interno.
Ora, dopo vent'anni di fusioni e acquisizioni, a restare sul mercato mondiale sono poche colossali aziende, molto specializzate, che hanno solo un grande sub-fornitore per ogni componente o semilavorato.
Aveva ragione Marx.

Ma i liberisti anglo-americani se ne sono accorti solo dopo l'uragano Katrina, che ha colpito l'area dov'è concentrata in USA non solo l'estrazione, ma la raffinazione del greggio: e gli americani si sono trovati col 10% di benzina in meno dei loro consumi. «Il sistema è così concentrato e specializzato, che possiamo immaginare un Paese che perda di colpo il 90 % delle sue forniture di prodotti industriali necessari», ha scritto l'economista Barry Lynn, che ha dedicato un libro a questo tema: la fragilità del sistema industriale mondializzato (1).
Lynn denuncia tre cause di questa vulnerabilità del mercato globale.
La prima causa: le concentrazioni, fusioni ed acquisizioni con cui le aziende potenti hanno inglobato le piccole nello scorso ventennio, facendo sparire i concorrenti dal mercato.
La seconda causa: le grandi imprese che prima erano «verticalizzate» (Fiat o General Motors producevano in proprio i componenti delle loro auto), ora hanno demandato all'esterno la produzione di componenti e semilavorati, concentrandole in Asia, dove le paghe sono inferiori.
Così risparmiano, ma così hanno favorito la nascita di sub-fornitori unici a livello planetario, molto specializzati («efficienti» nel gergo liberista), da cui dipende tutta la produzione di prodotti finiti.
La terza causa: la diffusione esagerata della gestione alla giapponese.

Fu la Toyota ad adottare per prima il «just in time»: abolì i magazzini di parti di ricambio e semilavorati (che sono un costo) perché gli efficientissimi sub-fornitori nipponici glieli facevano avere via via, nella quantità richiesta dal processo produttivo, e senza ritardi, «giusto in tempo» appunto.
In Giappone, mercato nazionale, funziona alla perfezione.
Ma sul mercato globale, ha portato le aziende ad essere prive di scorte, troppo dipendenti da un'unica fonte di rifornimento, magari nel lontano Pacifico; al di là di numerosi confini, che possono chiudersi per una crisi politica o naturale.
Basti pensare che tutte le merci di Cina, Corea e Giappone raggiungono l'Occidente via mare attraverso il canale di Kra, un budello largo a volte solo due chilometri, infestato da pirati, in una zona a rischio di crisi internazionali e di terremoti devastatori.

Ormai, tutto il nostro benessere e la nostra economia pendono - come la spada di Damocle - da pochi fili, che possono essere troncati da un momento all'altro.
Fino ad estremi assurdi.
I soldati americani in Iraq marciano su stivaletti anfibi Made in China.
In caso di guerra fra Cina e Usa, l'America perderebbe istantaneamente questa fornitura militare umile ma essenziale.
E non è detto che potrebbe rimpiazzarla con una produzione autarchica.
Ecco la parola.
«Autarchia»  è il contrario di «globalizzazione».
Significa anche indipendenza produttiva nazionale, mentre il liberismo globale predica «l'interdipendenza».
Dipendiamo dall'Argentina per il grano, dall'Arabia per il petrolio, da Taiwan per i computer?
Meglio così, dicono i liberisti, perché quei Paesi sono «efficienti» in quella produzione, e noi possiamo comprare là a minor prezzo quel che ci serve.
La produzione di grano nazionale, o di benzina sintetica fatta in casa (come la faceva il Terzo Reich) hanno costi eccessivi.
Non sono «competitive» rispetto ai prodotti acquistabili all'estero.

D'accordo.
Ma un serio economista come il Nobel francese Maurice Allais già metteva in guardia i cantori del liberismo planetario: esso funziona solo a patto che non ci siano crisi nel mondo, e nel mondo c'è sempre qualche crisi.
Conviene perciò mantenere all'interno di uno Stato, o di un gruppo di Stati amici e stabili (come in Europa) , una capacità produttiva di merci diversificate, per ridurre la dipendenza dall'estero.
Sì, il grano prodotto in Europa costerà un po' più caro di quello argentino: ma in caso di crisi internazionale, ci garantisce che non ci mancherà il pane.
E così tutte le altre merci.
Quei beni che oggi sembra «conveniente» comprare all'estero, magari da un unico fornitore specializzato che fa economie di scala, possono diventare di colpo costosissimi in caso di crisi naturale o politica, o addirittura non venire più forniti: come il petrolio, se il Medio Oriente diventa una zona di guerra.
E noi dipendiamo da quella al 90 %.

Che faremo?
Autarchia si oppone a globalizzazione come filosofia politica.
La prima dice che il «mercato» e il capitalismo privato non possono essere l'unica istanza; che ci sono merci «strategiche» che lo Stato deve decidere di produrre in casa anche a costi alti.
Per diversificare le nostre fonti di approvvigionamento.
Per secoli, il mondo ha funzionato ragionevolmente in regime di relativa autarchia: si produceva in casa quanto possibile, e si importava quello che proprio non era possibile produrre.
Come il caffè nei paesi temperati.
Non si produceva per esportare, ma essenzialmente per il mercato interno.
Veniva esportato solo l'eventuale surplus.

Ma oggi autarchia è una parola-tabù. 
Solo che, di fronte agli effetti collaterali che rendono vulnerabile l'economia globalizzata, ora Barry Lynn propone dei rimedi che si avvicinano allo storico compagno dell'autarchia, il dirigismo.
Per esempio, obbligare le aziende ad avere almeno due sub-fornitori per i componenti delle loro merci; limitare per legge la percentuale di beni o servizi che sono importati da un solo Paese; rendere più incisive le leggi anti-trust, per impedire la nascita di colossi monopolistici, di concentrazioni coi piedi d'argilla.
Chiede, insomma, provvedimenti che erano anatema per il dogmatismo liberista: l'intervento dello Stato in economia per domare gli «spiriti animali» del capitalismo, che lasciati alla loro dinamica interna, quella del profitto,  producono vulnerabilità e disastri.

Insomma chiede di assoggettare di nuovo il mercato a leggi e regole dettate dalla volontà politica per il bene comune. 
Più «colbertismo» alla Tremonti, e meno liberismo selvaggio.
Lynn è perfettamente conscio di prescrivere misure che, per il liberismo radicale, sono eresie, perché si configurano come «aumenti dei costi».
E perciò si giustifica.
In ogni sistema complesso, dice, abbiamo imparato ad approntare dei «tamponi» contro gli shock.
Davanti alle locomotive abbiamo messo dei respingenti.
Nelle navi, i compartimenti stagni.
Nelle reti elettriche, gli interruttori di corrente.
Nel sistema bancario, l'obbligo di «riserve» liquide per far fronte alle crisi.
Lungo i fiumi, abbiamo innalzato argini.

Sembrano costi inutili, finché tutto va bene.
Ma ecco un'alluvione a New Orleans, e abbiamo visto quanto ci è costato risparmiare sui costi «inutili» degli argini. 
I compartimenti stagni nelle navi sono un costo, portano via spazio al carico commerciale: ma nessun comandante sarebbe tanto idiota da pilotare una nave priva di porte stagne.
Eppure, in economia, siamo stati così idioti da «liberarla» di tutti i tamponi, tutti i respingenti, tutte le riserve, nell'illusione di renderla più «efficiente».
L'abbiamo solo resa più vulnerabile alle tempeste del mondo.

Maurizio Blondet

Note
1) Barry Lynn, «End of the line: the rise and coming fall of the global corporation», Doubleday, 2005. Lynn è l'analista-capo della New America Foundation. Si veda anche il suo articolo «The fragility that threatens the world's industrial system», sul Financial Times, 18 ottobre 2005.

 
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