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Le promesse tradite della globalizzazione
Intervista a Joseph Stiglitz a cura di Chiara Pallanch – da www.lostraniero.net

La diagnosi è nota: per milioni di persone la globalizzazione non ha funzionato, molti hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita, hanno perso il lavoro, il reddito, la sicurezza. Dal crollo di Wall Street alla recessione economica degli Stati Uniti e alla guerra in Iraq, la crisi è evidente, ma anche prima c’è stata una sequenza pesante di avvenimenti gravi: dal 1997 l’instabilità economica ha governato l’economia internazionale con i casi dell’Argentina, del Brasile, della Corea, della Turchia e della Russia. Forte dell’esperienza maturata alla Casa Bianca, come capo dei consiglieri economici durante l’amministrazione Clinton e presso la Banca Mondiale, come vicepresidente e responsabile per la ricerca, il premio nobel per l’economia, Joseph E. Stiglitz (in Italia all’Università di Urbino per parlare di “La politica economica ai tempi della globalizzazione”, il 9 maggio scorso), riflette con “Lo straniero” sul futuro “della globalizzazione e dei suoi oppositori”, come recita il titolo del suo libro che è stato tradotto in venti lingue.

D: Professor Stiglitz, possiamo dire che la globalizzazione ha tradito le sue promesse di prosperità e di stabilità economica?
R: Sì, al contrario di quanto affermano i sostenitori della globalizzazione, soprattutto statunitensi, l’integrazione economica dei mercati, come è stata configurata fino a ora negli accordi commerciali internazionali e nelle politiche delle istituzioni economiche internazionali, non solo non ha generato un benessere diffuso, ma spesso ha portato a un aumento della povertà in molte parti del mondo, soprattutto a livello dei paesi sottosviluppati. Malgrado le ripetute promesse di ridurre la povertà, negli ultimi decenni del ventesimo secolo il numero effettivo di poveri è invece aumentato di dieci milioni e allo stesso tempo, il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo. L’America latina, ad esempio, ha subito progressivamente un peggioramento significativo del proprio quadro economico e sociale: il dislivello tra le classi sociali è aumentato in modo rilevante, con l’effetto che un numero sempre più crescente di categorie sociali si sta impoverendo e si trova senza reti di sicurezza sociale. Insomma, le politiche decise dal Fmi e da Washington hanno fallito e le critiche alla globalizzazione, nella maggior parte dei casi, si sono rivelate corrette.
Se si vuole delineare un bilancio, si scopre che nell’ultimo decennio il mondo è stato caratterizzato da una elevata instabilità: forti crisi economiche con cadenza praticamente annuale sono diventate la regola e la stabilità economica è una rarità. In questo quadro continuano a esserci distorsioni spaventose in mercati che dovrebbero essere invece perfettamente efficienti, perché le regole economiche sono sbilanciate: preservano l’interesse particolare dei paesi industrializzati. Prendiamo ad esempio l’agricoltura, principale fonte di reddito nei paesi del Sud del mondo. I paesi occidentali hanno spinto la liberalizzazione del commercio per i loro prodotti di esportazione, forzando i paesi poveri a eliminare le proprie barriere commerciali, ma hanno mantenuto le proprie attraverso i sussidi ai loro prodotto agricoli. In questo modo hanno impedito ai paesi in via di sviluppo di esportare i loro prodotti agricoli, privandoli di fatto del reddito delle esportazioni di cui hanno disperatamente bisogno. La situazione che ne risulta è distorta: per una mucca negli Stati Uniti il governo centrale stanzia 2 dollari al giorno in sussidi, mentre gli allevatori in Africa vivono sotto la soglia del dollaro al giorno. Il caso della produzione cotoniera è ancora più lampante: negli Stati Uniti i sussidi alla produzione di cotone (4 miliardi annui) superano addirittura il valore effettivo totale della produzione (3,5 miliardi annui).
L’ondata di proteste di Seattle ha rivelato proprio l’ingiustizia di regole commerciali che miravano a proteggere solo gli interessi specifici dei paesi industrializzati. Insomma, bisogna considerare l’effetto della liberalizzazione e delle politiche imposte dal Fmi sulla povertà, e cercare di correggere queste dinamiche commerciali inique e sbilanciate.

D: Il suo libro ha sollevato un grande dibattito, ma è cambiato qualcosa nelle politiche del Fondo monetario internazionale?
R: Anche dietro le porte chiuse delle istituzioni economiche internazionali come il Fondo monetario si inizia a intravedere un atteggiamento diverso. Recentemente è stato pubblicato, proprio sul sito del Fondo monetario, uno studio di Kenneth Rogoff, responsabile delle politiche economiche, in cui viene riconosciuto che la liberalizzazione dei mercati dei capitali produce effetti negativi, sia sulla crescita che sulla stabilità economica dei paesi. Sono rimasto molto impressionato quando l’ho visto, poiché rappresentava un ripensamento senza precedenti nell’approccio tradizionale del Fondo monetario, da sempre espressione del fondamentalismo del mercato. Questa è stata per vent’anni il fondamento delle sue politiche economiche: l’idea che i mercati, eliminando l’interferenza del governo e delle barriere commerciali, funzionino perfettamente e che il libero scambio porti necessariamente a un’allocazione efficiente delle risorse. Poco dopo la pubblicazione è arrivata la notizia che Rogoff ha lasciato il suo incarico al Fondo monetario, come dire che chi critica, poi, viene buttato fuori. Malgrado avessi cercato di capire come sia stata possibile questa critica interna, ho concluso che probabilmente si è trattato di un fatto isolato. Ma, contemporaneamente, il settimanale britannico “the Economist” – il cantore della globalizzazione – ha sostenuto anch’esso che la liberalizzazione dei mercati dei capitali non solo non produce stabilità economica, ma che questa è addirittura controproducente. Anche l’establishment comincia a cambiare idea.

D: Allora la globalizzazione è finita?
R: È evidente che la globalizzazione, così come è stata praticata finora, non ha realizzato nulla di ciò che avrebbe dovuto. Sicuramente il processo di integrazione economica che è stato sostenuto fino a oggi, non ha un futuro nella promozione dello sviluppo, ma, al contrario, continuerà a creare povertà e instabilità. Alla base del fallimento del Fondo monetario e delle altre istituzioni economiche internazionali che governano la globalizzazione c’è il problema della governance, cioè del modo in cui sono organizzate. Le istituzioni non solo sono dominate dai paesi industrializzati più ricchi, ma le politiche che sostengono riflettono e proteggono gli interessi specifici di questi ultimi a scapito dei paesi in via di sviluppo. È arrivato il momento di cambiare le regole alla base dell’ordine economico internazionale e operare un ripensamento radicale del modo in cui la globalizzazione è stata gestita. Senza riforme la reazione violenta che è già cominciata si farà ancora più aspra e il malcontento nei confronti della globalizzazione non potrà che crescere.

D:Se la vecchia strada è finita, quali possono essere i nuovi percorsi?
R: Iniziamo dai protagonisti più importanti della globalizzazione: le istituzioni internazionali. Prendiamo l’Organizzazione mondiale del commercio (il Wto). In materia ambientale il Tribunale d’appello dell’Organizzazione mondiale del commercio, pronunciatosi nel caso “Stati Uniti contro Thailandia”, ha creato un precedente che ha delle potenzialità di applicazione proprio nella direzione di un cambiamento importante delle regole commerciali. Nel 2002 le pressioni dei movimenti ambientalisti spinsero l’amministrazione statunitense a sollevare una controversia commerciale in sede del Wto contro la Thailandia: le modalità di pesca dei gamberetti da parte thailandese metteva in pericolo la sopravvivenza delle tartarughe marine, che morivano a centinaia intrappolate nelle reti. I giudici della Corte d’appello del Wto hanno ribaltato una precedente sentenza del Comitato per la soluzione delle controversie commerciali che aveva rigettato l’istanza statunitense. Risultato: la Thailandia è stata costretta a modificare la attività di pesca utilizzando reti particolari che salvaguardano le tartarughe. Considerando che il principio base tradizionale degli accordi commerciali internazionali era di ritenere qualsiasi restrizione alle attività produttive di un paese come illegittima, questa sentenza potrebbe avere delle conseguenze enormi. Nel caso “Stati Uniti contro Thailandia” per la prima volta è stato possibile criticare il processo di produzione di un bene, sulla base di considerazioni legate all’impatto ambientale della sua produzione. Ma questo principio potrebbe essere utilizzato in molte direzioni diverse e le possibili applicazioni di questa decisione sono ancora largamente inesplorate: sulla base di questo principio potrebbe diventare legittimo ad esempio porre delle restrizioni commerciali alle importazioni di beni, in base alle loro modalità di produzione. In questa prospettiva ad esempio l’Unione Europea potrebbe usare questo meccanismo per porre delle restrizioni commerciali alle importazioni di beni statunitensi che vengono prodotti con tecnologie inefficienti da un punto di vista energetico. Questo sarebbe uno strumento per costringere gli Stati Uniti ad applicare il Protocollo di Kyoto usando le politiche commerciali.

D: Rallentata la globalizzazione, può tornare a esserci un ruolo importante dei governi nazionali e delle loro politiche economiche?
R: Innanzitutto i governi nazionali possono riprendere il controllo delle istituzioni internazionali in cui sono rappresentati. C’è un’esigenza di cambiamento degli orientamenti, di maggior trasparenza e di apertura alla società civile di cui i governi nazionali più avanzati possono farsi portatori. Per prima cosa è necessario fare pressione per rendere le istituzioni economiche internazionali più sensibili alle tematiche politiche e sociali d’interesse per la società civile, costringendole a operare con maggiore apertura e trasparenza. Ad esempio, i governi europei dovrebbero insistere affinché il Fmi inizi ad agire come un’istituzione pubblica, quale dovrebbe essere. Si potrebbe iniziare dal rendere pubblici i documenti dell’operato del Fmi. Questo romperebbe l’aura di segretezza che avvolge le dinamiche di questa istituzione poco trasparente e poco democratica e iniziando di riflesso a trasformarla in un’istituzione pubblica. Naturalmente le difficoltà non sono poche, dal momento che non tutti i governi sono disposti a farlo: per molti paesi in via di sviluppo, in particolare, i rappresentanti politici vogliono evitare la trasparenza sulla propria politica economica per sottrarsi alle critiche e alle reazioni della società civile. Questo è facilmente comprensibile: l’accessibilità da parte della società civile ai documenti del Fmi darebbe inizio a un dibattito aperto e informato sulle azioni di questa istituzione internazionale e, allo stesso tempo, permetterebbe ai cittadini di valutare meglio il comportamento dei propri rappresentanti politici di fronte alle scelte economiche dei governi. Se in molti paesi si aprisse lo spazio per discussioni pubbliche di questo tipo, la società civile conquisterebbe una voce di critica concreta rispetto alla politica economica del proprio governo, e indirettamente un’influenza indiretta rilevante rispetto alle istituzioni economiche internazionali. Un secondo modo con cui i governi possono influenzare il Fondo monetario internazionale è quello di premere affinché i suoi economisti, ogni volta che “propongono” un intervento economico a un paese, includano nelle loro previsioni le conseguenze economiche delle loro raccomandazioni sulla povertà e sull’occupazione. Se il Fmi fosse infatti obbligato a rivelare ai governi i prevedibili effetti sociali dei programmi che adotteranno, allora sarebbe costretto a prestare maggior attenzione a questi temi. Questo perché le misure economiche adottate non dovrebbero essere basate su fattori strettamente economici, ma anche su quelli sociali: la globalizzazione deve necessariamente assumere un volto più umano dove fattori come la disoccupazione, l’istruzione e la salute abbiano un ruolo rilevante nelle scelte economiche.

D: Che dire dell’ Europa?
R: Per collocazione geografica, e soprattutto per tradizione storica i paesi europei possiedono sensibilità e consapevolezza sui temi sociali e dello sviluppo di gran lunga superiori rispetto agli Stati Uniti. Il passato coloniale e la vicinanza all’Africa hanno dato all’Europa una natura molto più internazionalista degli Stati Uniti, famosi, al contrario, per il loro isolazionismo e unilateralismo. Per queste ragioni l’Unione Europea potrebbe agire in modo molto incisivo all’interno delle istituzioni internazionali nella direzione di un riequilibrio delle regole commerciali che sia più bilanciato rispetto alle esigenze dei paesi in via di sviluppo. Nel caso, ad esempio, del Fondo monetario, se si creasse un’alleanza strategica tra i paesi europei e i paesi in via di sviluppo, si otterrebbe una efficace forza di opposizione agli Stati Uniti, che per peso relativo sono ancora l’unico stato ad avere un potere di veto interno.
L’Europa può giocare un ruolo chiave soprattutto nel ridimensionare il potere del Fmi rispetto alla Banca mondiale: puntando a togliere ai prestiti della Banca mondiale la condizione dell’approvazione del Fondo, annullerebbe uno dei principali strumenti a disposizione di quest’ultimo per imporre le proprie decisioni. In questo modo le due istituzioni potrebbero proporre ai paesi soluzioni alternative ai problemi posti dallo sviluppo e dalle transizioni economiche, migliorando la risposta alle crisi strutturali. Non si ripeterebbero ad esempio situazioni come quella dell’Argentina, dove l’anno scorso gli aiuti finanziari della Banca mondiale sono stati bloccati a causa dell’opposizione del Fondo monetario.

D: Naturalmente i primi a denunciare i problemi della globalizzazione neoliberista sono stati i movimenti globali che da Seattle a Genova a Porto Alegre hanno criticato gli effetti perversi delle politiche economiche e i meccanismi iniqui del commercio internazionale. Che effetti hanno avuto sul dibattito? Quali strumenti hanno a disposizione i movimenti per cambiare effettivamente le cose?
R: L’ondata di proteste iniziate a Seattle contro l’imposizione di accordi commerciali ingiusti ha generato un aumento di consapevolezza e ha aperto la strada a un processo di riconoscimento dei disastri generati dalle politiche del Fmi. Il progressivo riconoscimento di queste ingiustizie, insieme alla risolutezza di alcuni paesi in via di sviluppo, hanno fatto sì che all’ordine del giorno del development round di Doha fosse inserita la correzione di alcuni squilibri del passato. Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga, non è sufficiente infatti cambiare l’ordine del giorno dei forum internazionali: i cambiamenti significativi avvengono solo se gli stati trovano un accordo concreto sulle questioni in discussione. E questa è la parte più delicata e difficile.
Malgrado questo, la società civile può comunque giocare un ruolo di rilievo nella ridefinizione dei processi della globalizzazione. La pressione delle critiche dei movimenti dal 1999 in avanti è servita principalmente a indebolire la credibilità del Fmi a livello internazionale e lo ha costretto a mettere dei limiti ai suoi interventi. Le pesanti obiezioni sollevate sull’inefficienza delle raccomandazioni del Fondo monetario, lo hanno costretto ad esempio ad abbandonare la linea dura con il governo argentino e a scendere a compromessi, pur di evitare l’imbarazzo di apparire come incompetente. Nonostante l’opposizione iniziale il Fondo ha acconsentito infatti a ripristinare i flussi creditizi verso il paese. La cosa peggiore che possa accadere a un organismo internazionale come il Fmi è che i paesi lo considerino irrilevante, e questo è stato un punto che ha giocato molto a favore del governo argentino.
Oggi la società civile può frenare gli abusi del passato. La forza del suo potenziale è stata sperimentata molto bene in relazione alla questione della cancellazione del debito per i paesi in via di sviluppo. Il movimento sociale “Jubilee 2000” è riuscito a creare una forte mobilitazione internazionale in favore dell’eliminazione del debito pubblico dei paesi poveri ed è riuscito a far impegnare molti paesi su questo fronte. Personalmente rimango ottimista sul futuro e credo che i movimenti della società civile abbiano potenzialmente la capacità di indirizzare la globalizzazione e trasformarla in una forza finalizzata al benessere collettivo

 
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