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Gigawatt
e modelli
di Carlo Bertani – 13 marzo 2007
Oggi
è uno dei primi giorni di marzo e leggo sul davanzale la temperatura
esterna: 19 gradi all’ombra, a mezzogiorno, nel profondo e
continentale Piemonte. Il cielo è azzurro ed il sole brucia: se si
rimane fermi in auto viene quasi la voglia d’accendere il
climatizzatore. Il tarassaco – l’insalata “dei prati” – non ha
cessato di crescere e fiorire per tutto l’inverno, per la gioia di chi
ama i gusti selvatici. Non sfugge però, all’occhio attento, che
qualcosa non va: gli alberi hanno iniziato con un mese d’anticipo la
ripresa vegetativa ma tutto ciò che è verde sembra un po’ più
spento, secco. Alla base degli alberi non c’è humus ma terra
asciutta: se la notte s’iniziano ad incocciare con i fari le falene, i
vermi sono quasi scomparsi.
Tutto
ciò non è passato inosservato ed anche il “palazzo” della politica
qualcosa ha dovuto ammettere: il clima umido, molto “inglese”, che
abbiamo avuto lo (oramai) scorso inverno è stato molto probabilmente
dovuto all’aumento dell’anidride carbonica nell’aria, che
contribuisce a mantenere in forma gassosa l’acqua nell’atmosfera. In
altre parole, più CO2 c’è nell’aria, più vapore acqueo
vi ristagna.
A fronte dell’evidenza, anche il mondo degli ultimi scettici si è
mobilitato: fioriscono le teorie più assurde per non riconoscere che
abbiamo modificato uno dei parametri chiave della biosfera. Il tasso
d’anidride carbonica – negli ultimi 20 milioni di anni – è sempre
stato compreso fra 180 e 270 PPM (parti per milione), mentre oggi ha
superato quota 376. Siamo dei saccenti e presuntuosi apprendisti
stregoni, che si mettono a giocherellare con una chiave inglese fra gli
ingranaggi di una Ferrari da competizione. Provino a dimostrare che il
tasso di CO2 fuori controllo non ha nessun effetto sul clima.
Pur
navigando oramai verso l’emergenza, qualcosa si muove: il ministro
Pecoraro Scanio ha chiamato al capezzale dell’industria energetica
italiana il prof. Carlo Rubbia – nominandolo suo consulente per le
energie rinnovabili – ed è stata senz’altro la miglior scelta.
Forse, tanta “agitazione” sul Web – a fronte dell’immobilismo
dell’informazione ufficiale – qualche frutto inizia a darlo.
Chi è abituato a confrontarsi da decenni con il problema ambientale a
volte coglie passaggi che magari ad altri sfuggono: il prof. Rubbia –
durante un dibattito televisivo – ebbe a dire che “non possiamo
pensare di trarre dal mondo naturale la stessa quantità d’energia che
oggi consumiamo”.
Questa
affermazione, a prima vista, parrebbe il classico “colpo al cerchio ed
alla botte”: subito, i vari sostenitori del nucleare si sono
“infilati” nel discorso per cercare di salvare i futuri bilanci
dell’industria elettronucleare (ed il loro, personale, portafogli).
Se riflettiamo un solo secondo sull’evidenza, ossia che Rubbia è uno
dei massimi esperti mondiali nel ramo – e non può non sapere che
anche l’atomo ha i decenni contati (più o meno 50 anni come il
petrolio, viste le stime dell’IEA sulla disponibilità d’Uranio) –
dovremmo chiederci qual era il senso dell’affermazione di Rubbia.
Fra circa mezzo secolo, dovremo aver già compiuto una delle
trasformazioni epocali della nostra civiltà: 50 anni non sono
un’eternità, scoccheranno quando gli attuali allievi delle scuole
medie andranno in pensione. Ergo, possiamo presumere che tanti di questi
ragazzi e ragazze, che oggi giocherellano con il telefonino, lavoreranno
per l’intera vita proprio per risolvere i problemi dell’energia e
dell’ambiente.
Cosa
dovranno fare?
La risposta più semplice (e
verissima) è: dovranno scovare tanti Gigawatt d’energia dal sole, dal
vento, dal mare, dalla geotermia e fare in modo che la trasformazione di
queste enormi masse d’energia avvenga a costi contenuti.
Per due secoli abbiamo goduto di un enorme “regalo”: l’energia dei
fossili, non rinnovabile se non in tempi geologici. Da oggi, dobbiamo
iniziare ad utilizzare ciò che rimane delle energie dei fossili per
tracciare le fondamenta del nuovo sistema energetico.
Visti
in quest’ottica, anche virulenti dissidi come quelli sul nucleare o
sui rigassificatori scemano d’importanza: questi mezzi sono soltanto
dei “supplenti” nell’attesa che si giunga ad una nuova
ridefinizione del sistema d’approvvigionamento energetico.
Anche la gestione dei rifiuti deve trovare soluzione: si deve
necessariamente aumentare la quota di riciclo dei materiali usati, ma
tutti sanno che oltre un certo limite è molto difficile andare. Un solo
esempio: gran parte del legname viene utilizzato per coperture edili o
per la costruzione di mobili. Lo stesso quantitativo di legname, dopo 30
anni circa, va in discarica. Perché? Per la naturale decomposizione del
legno, oppure perché i mobili d’oggi – costruiti con tecniche che
s’affidano più alle colle ed alle vernici che alla resistenza
strutturale – dopo quel periodo decadono. Chi s’oppone alla
costruzione di moderni termovalorizzatori non riflette abbastanza: ciò
che non viene riciclato va in discarica; e in discarica, cosa avviene?
I
materiali si decompongono per fermentazione anaerobica, ossia producono
naturalmente metano che è difficile recuperare: una molecola di metano
trattiene una quantità di radiazione infrarossa pari a quella che
riflettono 21 molecole di anidride carbonica. In definitiva, o si riesce
a recuperare il 100% dei materiali, oppure bisogna riconoscere che il
rimanente è meglio bruciarlo che seppellirlo (come oggi avviene).
Un altro paio di maniche sarebbe criticare l’attuale sistema di
produzione e di consumo, ossia l’inveterata tendenza a costruire beni
che hanno già “data di scadenza”: la cosiddetta “obsolescenza
programmata”.
Prima
o dopo l’umanità dovrà chiedersi che senso ha costruire beni che
durano poco per poterne costruire altri: sappiamo bene qual è la
ragione del fenomeno, ossia la naturale tendenza del capitalismo ad
aumentare i consumi per poter affermare che c’è stato “incremento
del PIL” (e dei profitti).
In altre parole, si tratta di trovare dei modelli di produzione e
consumo che non ci privino di ciò di cui abbiamo bisogno ma, nel
contempo, ci consentano di “raffreddare” la corsa
produzione/consumo.
Spesso, su questo argomento, si rischia di cadere in un tranello di tipo
ideologico: prima definisco il modello sin nei minimi particolari, poi
lo applico ed ho risolto il problema. Nobile intento, ma i vari piani
quinquennali dell’URSS ci raccontano quanto sia difficile programmare
ed applicare un modello tecnologico ed economico all’evoluzione
sociale. Quando ci riusciremo, avremo fatto Bingo.
Altra
soluzione è la trasformazione in
itinere dei modelli, e forse questo è un obiettivo più alla nostra
portata: 50 anni possono bastare per ridefinire i vari modelli
(produzione, trasporto, consumo, ecc), a patto che si sia coscienti del
problema e che s’intenda affrontarlo.
Che senso può avere, allora, l’affermazione di Rubbia: “non
possiamo pensare di trarre dal mondo naturale la stessa quantità
d’energia che oggi consumiamo”?
Nessuno,
dotato di buon senso, può immaginare cosa potrà accadere fra uno o due
secoli, ma pensare oggi di scovare così – tout
court e nel volgere d’appena mezzo secolo – 10 miliardi di TEP[1]
d’energia dal mondo naturale è un’affermazione un poco eccessiva.
Ad essere generosi, oggi non arriviamo – con le rinnovabili, il
geotermico e l’idroelettrico – a coprire il 15% di tale fabbisogno:
e il restante 85%?
E non si tratta soltanto di quantità, ma di riserve: i fossili sono per
definizione una riserva naturale, mentre le rinnovabili richiedono che
si trovi una forma di conservazione dell’energia. L’idrogeno è il
naturale candidato, ma dobbiamo costruire attorno a questo concetto un
sistema tecnologico (del quale conosciamo le basi teoriche e molte
soluzioni tecnologiche) che oggi è inesistente.
La
ricerca sulle fonti deve procedere a spron battuto – questo è certo
– ma, parimenti, dobbiamo iniziare a criticare (nel senso di raffinare) i modelli. Ecco, questo – a mio parere – era il senso
dell’affermazione di Rubbia.
Se
volessimo assegnare un epitaffio al secolo appena trascorso – definito
spesso “il secolo breve” – potremmo chiamarlo il secolo “dello
spreco”. Soltanto nelle due guerre mondiali, abbiamo depositato sul
fondo degli oceani una cifra dell’ordine di 50 milioni di tonnellate
d’acciaio: si tratta soltanto di una quantità indicativa, ma
riflettiamo che metà del naviglio mercantile esistente nel 1939 fu
affondato durante
Se le guerre sono l’apoteosi
dello spreco di risorse, anche in pace non si scherza: siamo tanto
orgogliosi del motore a scoppio, ma soltanto il 35% della benzina che
introduciamo nel serbatoio si trasforma in energia meccanica, mentre il
resto se ne va sotto forma di calore e serve soltanto a scaldare il
cielo.
Tutto il nostro sistema tecnologico è improntato allo spreco:
conosciamo alla perfezione le leggi della termodinamica,
dell’idraulica e dell’elettrologia ma non le applichiamo. Centrali
termoelettriche con rendimenti del 40%, caldaie per il riscaldamento con
sprechi affini, climatizzatori che gettano al vento fiumi d’aria
rovente carica d’energia…è un elenco senza fine.
E
i trasporti? Qui siamo all’apoteosi.
Molti sanno, qualcuno parla, ma nessuno muove un dito: questa, in
sintesi, potrebbe essere una definizione estremamente concisa
dell’approccio al mondo del trasporto.
Chi sa? Beh…da molti anni l’UE e molti esperti del ramo (fra i
quali anche l’attuale Ministro Bianchi che, all’indomani della sua
nomina, per prima cosa parlò delle “autostrade del mare”) predicano
che il trasporto su gomma è la più sciagurata delle scelte, che la
ferrovia è molto meglio e che l’optimum è la nave.
Peccato che oggi si dedichi soprattutto ad inasprire inutilmente le
sanzioni per gli automobilisti: e le “autostrade del mare”? Finite
nel dimenticatoio? Oppure, visto che è impossibile scindere quel legame
propagandato da decenni di pubblicità – ossia, velocità = successo e
potere – si getta tutto alle ortiche e si pensa di reperire
“risorse” per gli Enti Locali con le salatissime multe? Essere
sorpresi alla guida dopo aver bevuto un aperitivo può costare 12.000
euro di multa! Ma, lor signori, rammentano che è lo stipendio annuo di
tantissimi italiani? Forse, guadagnare 19.000 euro il mese ha dato loro
alla testa?
Chi parla?
La stessa Commissione Europea – che nel suo Libro
bianco, La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte[2]
– afferma drasticamente:
“È arrivato il momento di dare ai
trasporti meno cemento e più idee.”
Verrebbe
da dire:
Perché il Ponte sullo Stretto non serve a niente? Oggi, un treno
impiega circa due ore per attraversare lo stretto, mediante i traghetti.
Vediamo un esempio per la tratta Palermo – Milano, lunga circa
Un
treno in grado di mantenere una velocità media di
Il
“corridoio
Il tratto “incriminato” – St. Jean de
In
buona sostanza, stiamo combinando tutto il can can della TAV in Val di
Susa per far giungere un treno da Lisbona a Kiev 50 minuti prima? O le
acciughe sono congelate – ed allora non cambia nulla – oppure sono
fresche, nel qual caso si dovrà probabilmente buttare tutto in entrambi
i casi.
Se, poi – con interventi sulla linea esistente – si riuscisse ad
elevare la velocità ad
I
vantaggi? Difficili da comprendere, perché la linea Torino-Lione è già
oggi sotto-utilizzata e non si prevedono aumenti negli scambi
commerciali con
Stiamo ragionando praticamente sui sogni, perché l’UE stessa
chiarisce quali sono i problemi del traffico ferroviario:
“La velocità media del trasporto internazionale di merci
(nell’UE, N.d.A.) è di soli 18 km/ora: inferiore
a quella di un rompighiaccio in servizio nel Mar Baltico.”
Le
ferrovie, quindi – a fronte d’enormi investimenti – riescono a
raggiungere a malapena la velocità di una modesta nave commerciale –
dieci nodi – e sono ben lontane dalle prestazioni dei cosiddetti
“traghetti veloci” – 25 e più nodi – ossia circa
Ciò non significa che la ferrovia sia da ignorare – perché il vero
“buco nero” del trasporto è la strada – ma si tratta, comunque,
di un mezzo di trasporto nato quando l’umanità scoprì il modo
d’alimentare le macchine a vapore con il carbone. Prima, la ferrovia
sarebbe stata improponibile.
Un treno merci che s’arresta ad un segnale e che riparte – per
raggiungere nuovamente una velocità di
Vogliamo
cercare “più idee e meno
cemento”, come afferma l’UE stessa? Quali sono i requisiti da
soddisfare?
Il
vettore più parco nei consumi c’è: è la nave. Considerando la
velocità media dei convogli ferroviari, la nave è più veloce. Qual è
il mezzo che consente di percorrere lunghe tratte senza trasbordi e
fermate? La nave. Esiste una rete di comunicazione ampia e che giunge
quasi ovunque? Sì, sono le vie d’acqua, marine ed interne: per
secoli, sono state le uniche vere vie di comunicazione, giacché un
carro con trazione animale che viaggiava su una strada dell’epoca –
spesso fangosa – serviva solo per il trasporto locale. Tutti i grandi
insediamenti d’epoca medievale si trovano nei pressi d’importanti
vie d’acqua, marine e fluviali. Ancora l’UE:
“Alcuni collegamenti marittimi (in
particolare quelli che permettono di evitare le strozzature attuali, cioè
Alpi, Pirenei e Benelux e in un domani la frontiera fra Germania e
Polonia) saranno integrati nella rete transeuropea allo stesso livello
dei collegamenti stradali o ferroviari.”
Il
modello “acqua” è quindi già oggi vincente per economicità ed
inquinamento: purtroppo, nei due secoli dei combustibili fossili è
stato trascurato.
Domani – quando non avremo più a disposizione energia da buttare –
dovremo soltanto osservare quel modello ed interpretarlo alla luce della
modernità.
Osserviamo con stupore i prototipi d’automobili ad idrogeno
(elettriche/celle a combustibile), ma pochi sapranno che la nave –
grazie ai notevoli spazi interni – è la candidata naturale a ricevere
il binomio motore elettrico/cella a combustibile, senza dover imbarcare
idrogeno liquido[3].
I nuovi sommergibili italo-tedeschi della classe “U” sono già
dotati di questo sistema.
Per
l’Italia, quali prospettive s’aprirebbero?
Se le linee dei TAV possono soddisfare l’asse ovest-est (va beh, con
quel ritardo di 50 minuti a Kiev…) rimane il grande punto
interrogativo di mettere in collegamento l’Italia – tutta, e non
solo la pianura padana – con le regioni centrali europee.
Presto detto: si bucano le montagne e si costruiscono nuovi valichi per
le ferrovie. Nulla di sbagliato – sempre meglio delle colonne
d’autotreni – ma se vogliamo metterci anche un po’
d’intelligenza si può fare di meglio.
Vogliamo
valutare il meglio, in termini d’economia di combustibili e per il
numero dei trasbordi? Vogliamo fornire all’Italia una nuova via di
collegamento con l’Europa Centrale? Quale sviluppo economico può
avere il Sud se si trova a
Se una grande potenzialità del nostro Sud potrebbe essere la produzione
di primizie (modello Andalusia od Israele) e, più in generale,
l’incremento del “biologico” in agricoltura – un tema sempre più
caro ai consumatori – perché non definire il modello sulla base delle
nostre esigenze?
Scrissi,
tempo fa, che solo una nuova visione integrata del trasporto marittimo
con quello nelle acque interne forniva delle risposte soddisfacenti: non
ero mica l’unico a sostenerlo. Ancora l’UE:
“In alcuni dei paesi non legati alla
rete nord-ovest europea, gli esistenti bacini, in particolare quello del
Rodano, del Po e del Douro, presentano un interesse crescente in termini
di navigazione regionale ma anche di trasporti fluviali-marittimi, che
hanno visto crescere la propria importanza grazie anche ai progressi
tecnici realizzati nella progettazione di navi in grado di navigare
tanto in mare aperto che sui fiumi.”
Cosa
sono queste navi fluviali/marine del tipo V (quinto)? Sono navi che
hanno una lunghezza standard di
Nei fiumi, nei canali ed in mare, a patto che non siano acque oceaniche
o passaggi particolarmente tempestosi: nelle acque costiere italiane
possono navigare ovunque.
Il
grande vantaggio è proprio nelle loro dimensioni contenute: la nave
fluviale/marina del tipo V può utilizzare anche il circuito dei porti
“minori”, porti-canale, lagune, porti lacustri, fluviali. Insomma,
va quasi dappertutto, a patto d’avere pochissimi metri d’acqua sotto
la chiglia.
Uno dei problemi del trasporto sull’acqua italiano è che non abbiamo
accesso all’immenso “sistema” del Danubio, la grande arteria
centrale europea che smista le merci – direttamente o con affluenti e
canali – dai Paesi Bassi al mar Nero, passando per
L’Italia
è tagliata fuori da questo enorme sistema di comunicazione: anzi, è
forse una delle poche nazioni europee ad esserlo.
Addirittura
Sarebbe
già un buon risultato (Ministro Bianchi? Pronto?) se riuscissimo a
ripristinare la navigazione nel Po con un collegamento con il Lago di
Garda: siamo certi che, se l’Italia avesse altro nome (Germania,
Olanda, Slovacchia od Ungheria), già ci sarebbe. L’UE ci forniva il
50% delle spese di progettazione ed il 10% di quelle di realizzazione:
forse, con un centinaio di milioni[4]
(non miliardi!) di euro si poteva sistemare tutto. Erano una
“prospettiva politica” troppo poco allettante? Milano, Pavia,
Piacenza, Cremona e le altre città del Po sarebbero tornate ad
essere realtà portuali, ed oggi l’autostrada Milano-Trieste sarebbe
un po’ meno congestionata.
La
vera innovazione – “più idee
e meno cemento” – sarebbe però collegare l’area mediterranea
con il Danubio: non è proprio una novità. Già gli austriaci ci
avevano pensato e meditarono di collegare l’Adriatico al Danubio
mediante i bacini della Sava e della Drava (in Jugoslavia): dal punto di
vista tecnico era senz’altro più agevole, ma – all’epoca – gli
interessi austro-ungarici erano quelli di collegare soprattutto il
Lombardo-Veneto con l’area balcanica e l’Ungheria. Della Germania, a
Franz Josef, importava poco.
Finì in un nulla di fatto per la crisi di bilancio di fine ‘800
dell’Austria, che fu costretta addirittura a vendere ai privati alcune
linee ferroviarie statali per “far cassa”.
Oggi,
incontreremmo problemi tecnici? Non irrisolvibili. Con la tecnologia di
metà Ottocento fu scavato il Canale di Suez e con quella di fine ‘800
fu realizzato il Canale di Panama, che comprendeva già un complesso
sistema di chiuse di sollevamento. Potremmo, con la tecnologia odierna,
collegare la valle dell’Adige con quella dell’Inn (e quindi con il
Danubio)?
Qualcuno ci ha pensato, ed ho
ricevuto la scorsa settimana questa e-mail:
Egr.
signor Carlo Bertani,
In questi giorni abbiamo presentato il Progetto Tirol-Adria alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma, alla Direzione Generale
Energia e Trasporti dell’EU ed ai governi di Berlino, Vienna, Monaco
(per il Lander della Baviera), nonché alle Province Autonome di Bolzano
e di Trento. Il Progetto – pubblicato sul sito www.tirol-adria.com
– è composto di 4 parti:
2.
B: Donau-Tirol-Adria-Passage – Collegamento
dell’idrovia Danubio col Mare Adriatico, l’alternativa vera e
propria alla galleria del Brennero;
3.
C: Treno Magnetico a Levitazione (Maglev) München-Verona;
4.
D: Conduttura ATCC sul tratto del Maglev München-Verona;
La deviazione di acque dall’Inn verso l’Adige nel Sud Tirolo
(Bolzano) crea i presupposti per rendere navigabile il fiume Adige: per
la deviazione è necessario il consenso degli Stati confinanti del
Danubio.
Collegando i fiumi Inn ed Adige si creerebbe un’idrovia tra Danubio ed
il mare Adriatico. Su questa idrovia potrebbe essere trasportata gran
parte delle merci. Con le idrovie esistenti nella pianura Padana e sui
laghi il trasporto merci si svolgerebbe in maniera meno inquinante.
È un progetto molto complesso e innovativo, in grado di creare nuove
prospettive.
Distinti saluti.
Albert Mairhofer
39030 Valle di Casies/BZ
Chiunque
potrà rendersi conto del progetto visitando il sito www.tirol-adria.com
(consiglio di scaricare i file pdf).
Dopo aver letto il progetto,
qualcuno inizierà a storcere il naso ed a ridere sotto i baffi: far
passare delle navi in galleria…deviare l’acqua dei fiumi…roba da
pazzi…
Immaginate come dovette apparire, agli occhi di un uomo di fine
Ottocento, la costruzione del canale di Panama: come faranno a sollevare
di decine di metri le grandi navi oceaniche? Oggi ci sembra una banalità.
Poi
salteranno fuori i difensori “duri e puri” dell’ambiente:
bestemmia ambientale! Qualcuno mi scrisse, mesi fa, che la costruzione
del canale Po-Milano era “un’ulteriore ferita all’ecosistema
padano”. Se i canali sono “ferite”, le autostrade, le TAV, gli
elettrodotti, le selve d’antenne per le telecomunicazioni e le
centrali termoelettriche cosa sono, i cerotti?
Volete sapere – a mio avviso – quale potrà essere il principale
ostacolo al progetto? La tecnologia? Ma figuriamoci…l’ambiente?
Sarebbe uno dei progetti più ecologici e vantaggiosi proprio per
l’ambiente.
La
maggior difficoltà sarebbe tutta per il Ministro D’Alema, che
dovrebbe chiedere il “permesso” ad Austria e Germania d’entrare
nel “sistema” Danubio. Si parla poco del Danubio, ma l’UE lo
considera alla stregua delle altre grandi arterie di traffico:
“
Molti
“mal di pancia” internazionali per la guerra del Kosovo nacquero
proprio per i bombardamenti indiscriminati dell’aviazione (quasi
esclusivamente, guarda a caso, quella americana) ai ponti, che
paralizzarono e rallentarono la navigazione per parecchio tempo.
Questo progetto incontrerà una feroce opposizione da parte di molti
sedicenti ambientalisti: grattata la vernice, però, verranno
senz’altro a galla i “dubbi” di Germania ed Austria a concedere
all’Italia di transitare sul Danubio.
Le resistenze interne italiane saranno invece il solito coagulo
trasversale d’interessi: ferrovie, holding dell’energia, le varie
società delle autostrade. Aspettiamoci molte “grida di dolore” per
l’ambiente “tradito”.
La
battaglia di Albert Mairhofer è però una di quelle che vale la pena di
combattere, perché quando riusciranno ad inaridire i nostri
(realistici) sogni avranno vinto la loro battaglia: quella che ci
condurrà tutti – insieme – a perdere la guerra.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it
[1]
L’attuale consumo annuo
d’energia dell’intero pianeta, espresso in miliardi di
Tonnellate Equivalenti di Petrolio.
[2]
Tutti gli estratti presenti nel
testo provengono da questo documento ufficiale dell’UE.
[3]
Per liquefare l’Idrogeno, si
“perde” (a meno di recuperare il calore) il 32% dell’energia
primaria.
[4]
La stima eseguita dal consorzio “Navigare
sul Po” nel 2000 era di 400 miliardi di vecchie lire (senza
contare i contributi europei).