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Tristezza
per gli USA
Il gigante che perde sangue
Di Maurizio Blondet
E' consentito provar dolore
per l'America nelle sabbie mobili irachene? Aver tristezza per la facilità con
cui il gigante globale perde sangue nel nido di scorpioni in cui ha messo il
piede volontariamente? L'opposizione alla guerra, in Europa e in Italia, è
stata quasi egemonizzata dall'"anti-americanismo" urlato in piazza.
Sia consentito in questo momento far ascoltare la voce sommessa di quanti
obbiettavano all'avventura bellica di Rumsfeld per amore degli Stati Uniti. La
voce di chi, conoscendo e amando l'America, presagiva il pericolo in cui il
Paese rischiava di finire. C'era chi agghiacciava del facilismo con cui Rumsfeld
e il suo entourage, da Wolfowitz a Perle, proclamavano che sarebbe stata
"una passeggiata", che gli iracheni li avrebbero "accolti come
liberatori", che la "democrazia" stava per essere portata dalle
armi Usa nell'Islam, come fu già portata al Giappone e alla Germania.
Chi ama l'America sa che un'altra
America, inascoltata, obiettava. Parlo per esempio del generale Eric Shinseki,
capo degli Stati maggiori riuniti (non un obiettore di coscienza) che aveva
avvertito: l'occupazione dell'Iraq richiederà il doppio, il triplo degli uomini
che Rumsfeld pensa sufficienti. Rumsfeld l'ha licenziato. Parlo dei tre
diplomatici del Dipartimento di Stato, fra loro degli arabisti, che si sono
dimessi per non partecipare all'avventura: non in quanto anti-americani, ma da
patrioti.
Rumsfeld,
reduce da grandi cariche in imprese private, ha appaltato a privati una quantità
di servizi logistici, per risparmiare. Risultato: per quattro mesi i soldati in
prima linea hanno fatto i conti - incredibile, vero? - con la fame e la sete.
Rumsfeld non aveva capito che portare minestra calda o Coca Cola ghiacciata ai
soldati in combattimento non è un atto di generosa ristorazione collettiva, ma
un compito bellico. Le imprese private che dovevano assicurare i rifornimenti
non si sono fatte vedere sul campo di battaglia. Con dolore si sono visti
soldati americani costretti a cannibalizzare gli automezzi colpiti per far
funzionare quelli ancora buoni.
Non è questa l'America che conosciamo. E infatti da qui è sorto il dubbio che
con la nuova classe dirigente sia andata al potere un'America in qualche modo
"arretrata" rispetto al livello storico che gli Usa si sono guadagnati
nel mondo. Se c'è una cosa che gli americani sapevano fare, è organizzare.
Imporre regole funzionali, standard tecnici eccellenti, esigenti norme di
sicurezza. E ora in Iraq li scopriamo incapaci di assicurare l'acqua e
l'elettricità, di amministrare e gestire le infrastrutture fisiche. Incapaci di
ispirare, se non amore, rispetto.
Certo le condizioni in cui si trovano ad agire sono difficilissime. E tuttavia,
come non allarmarsi?
Una guerra, giusta o ingiusta, obbliga sempre un Paese a mobilitare le sue
risorse migliori anche morali; e rivela senza pietà le sue falle. Ciò che
vediamo è la falla che le migliori menti americane vanno denunciando da
vent'anni: un Paese de-industrializzato. Padrone di alte tecnologie e dell'alta
finanza, ma che importa beni e merci dalla Cina. Fra chi li conosce, qui nella
vecchia Europa, c'è chi ha dubitato fin dall'inizio che gli Stati Uniti
avessero le risorse per le loro nuove enormi esigenze. E ora non si rallegra di
quell'annaspare. Perché nell'eventuale perdita di prestigio di quel Paese,
nell'impietoso rivelarsi di certe falle umane e tecniche, teme di veder
rispecchiato il declino dell'intero Occidente. Con effetti di cui tutti
rischiamo di pagare il conto.