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Sicilia
1943, l' ordine di Patton: «Uccidete i prigionieri italiani»
di
Gianluca Di Feo – “Corriere della Sera” 23 giugno 2004
I
massacri dimenticati compiuti dai fanti americani tra il 12 e il 14
luglio.
«Il
capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati
più di quaranta. Poi domandò: "Chi vuole partecipare all'esecuzione?".
Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli
italiani». «Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani
fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: "E' meglio che
non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia". Poi li
ammazzò tutti». E' una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati
italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono
né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta
in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della
storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli
Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda
è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono
corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema
«Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli Usa in queste
settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità
dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che
giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché - come risulta dagli
atti di quei processi - i soldati americani si difesero sostenendo di
avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. «Ci era stato
detto - dichiararono - che il generale non voleva prigionieri».
I fatti
Nessuno
conosce il numero esatto di uomini dell'Asse uccisi dopo la resa. Almeno
cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di
due, quelli avvenuti nell'aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce
ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell'autunno 43 la corte marziale
Usa
celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani,
il plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti
del
tribunale recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e
collaborativi». Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone
oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e
lettere ora divulgate. Avvennero nell'aeroporto di Comiso, quello
diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All'epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia.
Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero
fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo
pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di
tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello,
chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano
ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i
colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato
fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l'ultima strage
nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che
la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni
confusi del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l'alt ed
esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei
persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi
della New York University - il cui padre fu testimone oculare dell'eccidio - riportano il racconto di alcuni dei soldati americani
presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare
sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era
un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21
colpi,
cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino
con lo stomaco sfondato dalle pallottole».
L'ordine
Ma
gli atti dei processi per «i fatti di Biscari» accreditano la
possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini
sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»:
reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e
Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d'origine
pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più
dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo
del fuoco: avevano l'ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti
più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli
stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane
e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I.
persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale
Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati,
graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: «Ci era stato detto
che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in
Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale.
"Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non
badare alle mani alzate.
Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun
prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io
voglio
una divisione di killer, perché i killer sono immortali!».
L'orrore
Il
primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della
divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani,
sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi
crivellati dal sergente West: «E' una follia - gli dissero -, stanno
ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere
queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di
quello che sta accadendo». King corre a cercare il comando del
reggimento. Ma lungo la strada per l'aeroporto vede un recinto di
pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il
verbale del cappellano: «Quando mi sono avvicinato, il caporale di
guardia mi ha salutato: "Padre, sei venuto per seppellirli?".
"Cosa stai dicendo?", replicai io. Il caporale rispose:
"Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì.
E ci hanno detto di non fare prigionieri"». A quel punto King sale
su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una
predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: «Non potete
ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico.
E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso.
Non fatelo!». Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano
Robert Dean: «Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero:
"Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli".
Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta
pagare"».
La condanna
Fu
proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui
massacri di Biscari. King raccontò tutto all'ispettore dell'armata -
figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar
Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre.
L'accusa: «Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo
mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un
comportamento disdicevole». I fanti italiani - poco meno di 50 - erano
stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all'aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un
ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli dalla pista dove si
sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l'eccidio. West mette
gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa
cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli
altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano
di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a
50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress:
«Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò
di avere assistito all'uccisione di due americani catturati dai
tedeschi, cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il
suo avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West
disse ai giudici: «Avevamo l'ordine di prendere prigionieri solo in
casi estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò
all'ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti
era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva
il danno d'immagine sugli italiani - con cui era stato appena concluso l'armistizio - e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in
Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di
tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò
a scrivere al ministero e a sollecitare l'intervento del parlamentare
della sua contea. Il vertice dell'esercito teme
che la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo
delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al
comando alleato
di Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo - è il
testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 - permettere
che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al
nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla
violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene
rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine
agosto in Bretagna. Secondo
altre, ha concluso la guerra indenne.
L'assoluzione
Invece
il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti
alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel
processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta
per tutta la notte. C'era una postazione nascosta su una collina che
continuava a bersagliare la pista. E una mischia feroce, con tiri di
mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L'unità di Compton
aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato
statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti «borghesi»
che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L'americano
si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque
hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari.
Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non
perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari:
sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli
italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l'inchiesta si
conclude con l'incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi,
scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l'ordine
era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a
distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano «sniper»,
termine traducibile come «cecchini» o «franchi tiratori», e quindi
andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo
stesso Patton. «Li ho fatti uccidere perché questo era l'ordine di
Patton - concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l'ordine di un
generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi basta. E
io l'ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni - tra cui diversi
colonnelli - confermarono le frasi di Patton, quel terribile «se si
arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni riferirono
anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo ci serve.
Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile dell'inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: «Quell'assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia -
scrisse - che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo
lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della
sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di
avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è
però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il
personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della
guerra. Un precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui
processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel '73 una traccia nei
diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell'83 la prima
descrizione completa nell'autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi
alcuni storici americani - assolutamente non sospettabili di
revisionismo - ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano
assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E
mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro
di Biscari» e le sue ripercussioni - il primo nel 1988 fu di James J.
Weingartner, l'ultimo nel 2002 è stato di Hirshson - nel nostro Paese
la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent'anni fa nel volume
dello statunitense Carlo d'Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da
Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente
due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel
documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un iniziativa per
ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non
esiste più: oggi il paese si chiama Acate.
Gianluca Di Feo