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Esportare
la democrazia
Di
Naomi Klein - «Internazionale» 526, 13 febbraio 2004
Se date retta alla Casa Bianca, il futuro governo iracheno viene scelto in Iraq. Se credete agli iracheni, viene scelto dalla Casa Bianca. Tecnicamente nessuna delle due cose è vera: il governo iracheno è assemblato in un anonimo centro ricerche del North Carolina.
Il
4 marzo 2003, ad appena 15 giorni dall’invasione, l’agenzia
statunitense per lo sviluppo internazionale ha chiesto a tre società
americane di candidarsi per un compito eccezionale: una volta invaso e
occupato l’Iraq, un’azienda sarebbe stata incaricata di costruire
180 consigli locali e provinciali sulle macerie del paese. Era un nuovo
territorio imperiale per società abituate alla «collaborazione fra
pubblico e privato» cara alle organizzazioni non governative, e due
delle tre aziende decisero di non candidarsi. Il contratto per il «governo
locale» - 167,9 milioni di dollari il primo anno e fino a 466 milioni
di dollari in totale – andò al Research triangle institute (Rti),
un’organizzazione non-profit nota soprattutto per le sue ricerche
farmaceutiche. Nessuno dei suoi dipendenti andava in Iraq da anni.
All’inizio la missione dell’Rti in Iraq non ha attirato
l’attenzione dell’opinione pubblica. Rispetto all’incapacità
della Bechtel di far funzionare l’elettricità e ai prezzi folli della
Halliburton, quelle dell’Rti sembravano iniziative valide. Non è più
così: si è scoperto che i consigli cittadini costituiti dall’Rti
sono il cuore del piano americano per consegnare il potere a ristrette
commissioni regionali nominate dall’alto – un piano a cui gli
iracheni sono così ostili che rischia di mettere in ginocchio
l’occupazione.
La
settimana scorsa ho incontrato il vicepresidente dell’Rti, Ronald W.
Johnson, direttore del progetto iracheno. Johnson insiste nel dire che
la sua squadra si occupa di cose pratiche e non ha nulla a che vedere
con lo scontro epico su chi governerò l’Iraq. Ma i consigli formati
dall’Rti sono molto criticati. Lo stesso giorno in cui Johnson e io
abbiamo discusso le questioni più sottili della democrazia locale, il
consiglio regionale nominato dagli Usa a Nassiriya, circa 300 chilometri
a sud di Baghdad, è stato circondato da uomini armati e manifestanti
infuriati. Il 28 gennaio ventimila abitanti della città hanno preso
d’assalto gli uffici del consiglio chiedendo elezioni dirette e le
dimissioni di tutti i consiglieri, accusati di essere ostaggi degli
occupanti. Povero Rti: la fame di democrazia degli iracheni continua a
correre più velocemente dei laboriosi piani per la «costruzione di
capacità» messi a punto prima dell’invasione.
A novembre il Washington Posta scritto che quando l’Rti è arrivato
nella provincia di Taji, munito di diagrammi di flusso e pronto a
istituire consigli locali, ha scoperto che «gli iracheni avevano
formato propri consigli rappresentativi nella regione mesi prima, e
molti erano stati eletti, e non nominati come propongono le forze
occupanti». Johnson sostiene che l’Rti si limita ad «assistere gli
iracheni» e non decide al loro posto. Forse è vero, ma non aiuta che
Johnson paragoni i consigli iracheni a «un municipio del New England»
e citi un altro consulente dell’Rti, secondo cui le sfide in Iraq «sono
le stesse che ho affrontato a Houston». E’ questa la sovranità
irachena – ideata a Washington, appaltata in North Carolina, modellata
su Houston e imposta a Bassora e a Baghdad?
Adesso
che ha accettato di tornare in Iraq, l’Onu, deve fermare la rapina in
corso: il tentativo americano di sottrarre alla futura democrazia
irachena il potere di prendere decisioni importanti. E tutto dipende dai
poteri di transizione. Washington vuole che abbia i poteri di un governo
sovrano, capace di imporre decisioni che il governo eletto erediterà.
In altri paesi che hanno da poco vissuto la transizione alla democrazia
– dal Sudafrica alle Filippine all’Argentina – è in questo
intervallo tra regimi che si sono consumati i tradimenti più
devastanti: accordi segreti tra trasferire debiti illegittimi, impegni
per la «continuità macroeconomica». Sempre più spesso i popoli
appena liberati vanno alle urne per scoprire che è rimasto poco per cui
votare. Ma in Iraq non è troppo tardi per bloccare questo processo. La
chiave è limitare il mandato di qualunque governo provvisorio alle
questioni relative alle elezioni: censimento, sicurezza, tutela delle
donne e delle minoranze.
Ed
ecco la cosa davvero sorprendente: potrebbe davvero succedere. Perché?
Perché tutte le ragioni di Washington per entrare in guerra sono
svanite; l’unica scusa rimasta è il profondo desiderio di Bush di
portare la democrazia in Iraq. E’ una bugia come tutto il resto, ma è
una bugia che possiamo usare. Possiamo approfittare della sua debolezza
per pretendere che la bugia della democrazia diventi realtà, che
l’Iraq sia davvero sovrano: senza i debiti, il peso dei contratti
ereditati, le cicatrici delle basi militari americane, e con il pieno
controllo delle sue risorse. La presa di Washington sull’Iraq diventa
ogni giorno più debole, mentre lo schieramento filodemocratico
all’interno del paese diventa più forte. La vera democrazia potrebbe
arrivare in Iraq non perché la guerra di Bush era giusta, ma proprio
perché si è rivelata così disperatamente sbagliata