- Dopo l'11 settembre

Gli  errori di Bush in Iraq
Di Noam Chomsky* - «Internazionale» 512, 31 ottobre 2003

Di fronte al fallimento dell’occupazione militare dell’Iraq, gli Stati Uniti chiedono alle Nazioni Unite di accollarsi una parte dei costi. La risoluzione presentata da Usa e Gran Bretagna è stata adottata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu all’unanimità, ma non senza ambiguità. Cina, Francia e Russia, membri permanenti del Consiglio, si sono opposti alla risoluzione e non invieranno truppe o soldi; ma con Germania, Pakistan e altri paesi hanno ceduto alle pressioni americane perché ci fosse una simbolica unità. Restano forti divisioni, specie su quando restituire il potere agli iracheni.
Questa diversità di reazioni alla risoluzione rispecchia tutta la storia della prepotenza di Washington verso la comunità internazionale e le Nazioni Unite. La guerra in Iraq è andata avanti senza l’Onu. Washington ha agito in linea con la strategia di sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush del settembre 2003, che afferma il diritto degli Usa a usare la forza (unilateralmente, se occorre) contro chiunque sia considerato un nemico. Questa strategia ha suscitato preoccupazioni e timori in tutto il mondo: è stata letta come una versione pericolosa della massima di Tucidide secondo cui «le grandi nazioni fanno ciò che vogliono, le piccole accettano ciò che sono costrette ad accettare».

«Non ci serve il permesso di nessuno»
Ogni volta che l’Onu non si presta a essere lo strumento di Washington, gli Usa l’abbandonano: fin dagli anni Sessanta gli Usa hanno il record assoluto dei veti al Consiglio di sicurezza, persino contro quelle risoluzioni che esortano gli stati a osservare il diritto internazionale. Seconda in classifica è la Gran Bretagna, seguita a grande distanza da Francia e Russia. Washington, grazie al suo enorme potere, riesce spesso a indebolire le risoluzione con cui non d’accordo o a escludere dall’ordine del giorno problemi cruciali. In America l’uso del potere di veto viene ignorato o minimizzato; oppure è sbandierato come posizione di principio da parte di un’amministrazione costretta a stare in trincea. Ma non è mai interpretato per ciò che veramente è: un’erosione della legittimità e della credibilità dell’Onu

Durante tutto il dibattito alle Nazioni Unite sull’Iraq, Washington ha insistito sul suo diritto ad agire unilateralmente.
Il 6 marzo, in occasione di una conferenza stampa, il presidente Bush ha dichiarato: «Quando è in ballo la nostra sicurezza, non ci serve il permesso di nessuno». Pertanto, le ispezioni delle Nazioni Unite e le decisioni del Consiglio di sicurezza sono state una farsa. Gli Stati Uniti avrebbero imposto un nuovo regime amico in Iraq anche se Saddam Hussein avesse ceduto a tutte le loro richieste: anzi, anche se lui e i suoi militari avessero lasciato il paese, come disse Bush al vertice delle Aborre alla vigilia dell’invasione.
Visto che l’esercito di occupazione non riesce a trovare le armi di distruzione di massa in Iraq, l’amministrazione ha cambiato posizione, sostenendo che gli Stati Uniti possono agire contro qualsiasi paese abbia anche solo l’intenzione di fabbricare queste armi. La giustificazione del ricorso alla forza è sempre più debole, perché i motivi che dovevano far accettare l’invasione dell’Iraq sono venute a mancare.

Oggi la questione fondamentale è ancora chi governa l’Iraq.
Pochi credono davvero che gli Usa vi insedieranno un governo realmente indipendente. L’opinione pubblica mondiale è energicamente favorevole a che le Nazioni Unite prendano in mano la situazione. E così anche l’opinione pubblica statunitense, secondo alcuni sondaggi dell’università del Maryland. Quanto all’opinione pubblica irachena, è difficile giudicare. Ma da un sondaggio condotto recentemente dalla Gallup a Baghdad è emerso che la figura straniera con il maggiore gradimento è il presidente francese Jacques Chirac, che è stato il leader che più ha criticato l’invasione.

Dominio statunitense
Malgrado tutte le giustificazioni e i pretesti adottati, un principio resta saldo: gli Stati Uniti devono controllare l’Iraq, se possibile con una qualche parvenza democratica. Le linee di fondo del pensiero americano sono esposte nello schema organizzativo della cosiddetta «Amministrazione civile dell’Iraq del dopoguerra». Sono 16 caselle, ciascuna della quali contiene un nome e la descrizione della carica che gli compete: da quella in cima alla piramide, in cui c’è il nome dell’inviato presidenziale Paul Bremer, fino alle più basse. Si contano sette generali; il resto è costituito da funzionari del governo americano. In fondo c’è una diciassettesima casella, grande circa un terzo delle altre, che non contiene nomi né titoli né funzionari. C’è scritto semplicemente «consulenti ministeriali iracheni».
Bush ha chiesto di condividere i costi del dopoguerra, ma non il potere. Chi decide dev’essere Washington, non le Nazioni Unite né il popolo iracheno.

* Noam Chomsky professore di linguistica al MIT di Boston. Saggista, autore di numerosi libri.

 
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