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O
adesso o mai più
di Carlo
Bertani - 8 marzo 2006
Mentre la politica estera sta rubando la scena ad altri
argomenti della campagna elettorale, a causa della nota vicenda delle
vignette e dell’ex ministro Calderoli, ci scordiamo del principale
problema che ci investirà nei prossimi lustri: non il terrorismo, bensì
l’energia. Negli ultimi trent’anni il terrorismo ha fatto 24.000
vittime, mentre le catastrofi naturali ne fanno
Se la classe politica è latitante, il dovere degli elettori è quello
di richiamarla alle sue responsabilità: non basta affermare che a
pagina tale di un programma o di un contratto elettorale c’è scritto
qualcosa sull’energia, bisogna parlarne con la popolazione e spiegare
nel dettaglio cosa s’intende fare.
Troppo difficile? Probabilmente sì, giacché qui si tratterebbe
d’affrontare problemi veri, mica aria fritta sulla quale filosofare
per anni. Ricordiamo che – per far fronte alla carenza di gas dovuta
ad un inverno più freddo del solito ed al “terrorismo” energetico
messo in atto dall’Ucraina, che si è messa a spillare il gas
destinato ad altri – stiamo dando fondo alle riserve strategiche.
Finiti i soldi, viviamo con quello che rimane sul conto in banca: se il
generale inverno non se ne andrà rapidamente, saremo alla bancarotta
energetica.
Di chi la colpa? Qui non si possono accampare scuse, giacché
i piani energetici li stabiliscono i governi, ed in Italia si è sempre
preferito affrontare il problema credendo nell’eterno “stellone”
italiano che tutto protegge e sistema. Quando ci ritroveremo al freddo,
andremo a scaldarci nei pressi dello “stellone”?
Il questione energetica è un problema mondiale, ma per l’Italia lo è
ancor di più per l’immobilismo della classe politica. Bisogna però
essere precisi: il prezzo del petrolio – durante gli anni ’90 –
oscillò fra i 10 ed i 20 dollari il barile, mentre dopo il 2000 iniziò
l’inarrestabile corsa che lo ha condotto a viaggiare oggi fra i 60 ed
i 70.
L’aumento è stato, dagli 11 dollari del 1998 agli attuali 70, del
636% circa e – considerando nell’aumento un deprezzamento del
dollaro di circa il 35% – rimane pur sempre un aumento reale del 413%
in otto anni, il che significa che il prezzo del greggio è aumentato ad
un ritmo superiore al 50% l’anno.
Simili dati – anche se in qualche modo approssimativi per
le molte variabili da considerare (qualità del greggio, valore reale
del dollaro, ecc) – indicano profondi mutamenti, non tanto per le
cifre assolute, bensì per l’ordine di grandezza degli aumenti (a due
cifre) e per la conseguente rapidità dei cambiamenti.
Le ragioni sono note: l’aumento della richiesta di petrolio della Cina
– il 14% in più considerando solo quello dal 2003 al 2004 – indica
che l’accensione della “caldaia” orientale ha sconvolto
l’equilibrio del mercato.
In concomitanza, le riserve accertate di greggio hanno iniziato a
scendere mentre erano sempre salite: in altre parole, la scoperta di
nuovi giacimenti non riesce a “tenere il passo” con l’aumento dei
consumi. Anche qui – come nell’esempio italiano del gas – stiamo
già vivendo “prelevando” dal conto bancario.
Se il male italiano è antico, non si può ignorare che gli
ultimi cinque anni hanno mostrato non più la punta dell’iceberg, ma
l’intera massa di ghiaccio e quindi le responsabilità di chi ha
governato nel recente quinquennio (e non ha fatto praticamente niente)
sono sensibilmente più gravi.
Personaggi come Marzano e Scajola si sono distinti per il loro completo
disinteresse al problema, giungendo – infine – ad individuare nella
scelta nucleare l’unica soluzione. Sorvolando sul fatto che le agenzie
internazionali (IEA) indicano la consistenza delle riserve d’Uranio in
un intervallo di 50-70 anni – agli attuali ritmi di consumo, e
che per riportare in Italia l’industria elettronucleare ci vorrebbero
decenni – rimane pur sempre una chiara scelta effettuata dal popolo
italiano nel 1987 con un referendum, quella di non procedere su quella
strada. Si potrà obiettare che le centrali francesi sono a poca
distanza dai confini italiani, ma non dimentichiamo che le centrali
d’oltralpe godono di un regime delle acque fluviali ben diverso dal
nostro.
Durante l’estate del 2003, le centrali termoelettriche
sul Po non ricevevano sufficiente acqua per il raffreddamento dei
condensatori: cosa fece il governo? Rialzò de iure – con un
provvedimento d’urgenza – la temperatura che le acque potevano avere
all’uscita dalle centrali (mostrando così una profonda insensibilità
ambientale). Cosa succederebbe se il problema si presentasse per le
centrali nucleari? Dovremmo osservare acqua bollente che scende nel Po
per non far esplodere le centrali?
Francamente, mi sembra che queste scelte mostrino molto dilettantismo
nell’affrontare i problemi, e forse sarebbe meglio chiedere nuovamente
agli elettori come ritengono che si possa risolvere il problema,
indicando – per ogni fonte – benefici e rischi, dopo aver dibattuto
il problema seriamente ed aver presentato tutte le scelte possibili.
Da dove iniziare? Nel 2000 l’UE1
stabilì per i paesi membri dei precisi traguardi da raggiungere in
campo energetico: l’obiettivo era la generazione del 12%
dell’energia con fonti rinnovabili (compreso l’idroelettrico), in
particolare il 22% dell’energia elettrica2
entro il 2010. Qualcuno ha sentito un solo dibattito sull’argomento?
No, e ad ogni diminuzione del flusso di gas proveniente dalla Russia
compare il viso di Scajola che semplicemente afferma «Tutto è sotto
controllo». Fin quando non mancherà la corrente e nessuno potrà più
rassicurarci dalla TV.
Se dovessimo chiedere agli elettori – molti dei quali non conoscono
approfonditamente il problema – come potremmo porre la questione per
ottenere delle risposte che sarebbero la vera volontà degli italiani,
ciò che essi veramente desiderano per il futuro energetico del paese?
Proviamo?
Il primo problema da risolvere è stabilire qual è il
fabbisogno d’energia: va da sé che le fonti sono diverse, ma
l’energia consumata viene espressa in MTEP, ossia in Milioni di
Tonnellate di Petrolio Equivalenti. Si tratta di un metodo accettato per
comodità: tutta l’energia viene espressa in petrolio, anche se
proviene in realtà da carbone, Uranio, idroelettrico, ecc.
Il fabbisogno annuo italiano si aggira intorno a 190 MTEP: circa il 2%
del fabbisogno mondiale. Ciò significa che – per soddisfare le
direttive europee – dovremmo produrre con le energie rinnovabili circa
23 MTEP d’energia.
L’energia
eolica
Potremmo definire l’eolico il sistema di produzione
energetica più consono per superare l’emergenza. Non il nucleare o il
risparmio energetico, non il solare o l’idroelettrico: per
l’emergenza l’eolico e basta. Ci sono molti fattori positivi per
indicare negli aerogeneratori una fonte sicura ed affidabile: basso
costo di produzione, tecnologia matura, rapidi tempi d’attuazione,
nessuna controindicazione ambientale (salvo il cosiddetto
“inquinamento paesaggistico”). Il costo di un KW prodotto con
l’eolico è di circa 3-4 centesimi di euro, contro i 4,5 del carbone,
il più economico dei fossili, ma senza tener conto dei costi ambientali
del carbone. Un unico neo: nulla, nell’eolico, parla italiano.
Il piano che il governo di centro-destra non è riuscito nemmeno ad
avviare prevedeva l’installazione di 13.000 aerogeneratori sul
territorio, mentre non è stato fatto praticamente nulla. La ragione? La
stessa che ha condotto allo scontro sulla TAV: la convinzione che il
Governo decide e la popolazione ubbidisce. A ben vedere, questo è stato
il tragico limite di Scajola, Marzano, Matteoli e Lunardi: puntare su un
dirigismo esasperato senza coinvolgere la gente, le popolazioni, gli
Enti Locali.
La rivolta “paesaggistica” contro gli aerogeneratori
– abilmente sfruttata dalla lobby petrolifera e nucleare – è nata
proprio dall’assenza di dialogo, dalla protervia del voler imporre
senza accordarsi su nulla.
Nessuno ha intenzione d’installare aerogeneratori nelle aree
archeologiche, nei parchi naturali o laddove vi siano località che
puntano sul paesaggio per l’offerta turistica ma – vivaddio –
l’Italia è grande.
Paradossalmente, il ritardo potrebbe trasformarsi in un vantaggio
insperato: negli ultimi anni, la tecnologia eolica ha fatto altri passi
in avanti, soprattutto per rendere silenziosi i rotori, per ottimizzare
le pale a diversi regimi del vento mentre, da ultimo, la potenza
specifica per singolo aerogeneratore è cresciuta enormemente, passando
da meno di un MW a 4,5 MW.
La nuova frontiera dell’eolico ha un nome: off-shore.
L’installazione d’aerogeneratori in mare, su bassi fondali, ha il
vantaggio di non occupare spazio a terra e di sfruttare venti più
costanti: l’Italia non gode certo delle favorevoli condizioni di vento
e di fondali del mare del Nord, ma parecchie aree marine potrebbero
essere adibite allo scopo.
In definitiva, se riuscissimo ad installare 15.000
aerogeneratori sul territorio – con una potenza media di 3 MW per
macchina – avremmo una potenza massima installata pari a 45.000 MW. Ciò
non significa che potremmo sempre ricavare 45.000 MW, giacché il vento
varia spesso d’intensità.
La fase di studio per l’impianto di un campo d’aerogeneratori dura
un anno, periodo nel quale – grazie agli anemometri – viene
registrato il flusso del vento in una determinata area: solo dopo aver
ponderato i dati sperimentali si procede oppure no all’installazione
delle macchine.
Ebbene, per l’Italia, si valuta che in media un aerogeneratore
fornisca la potenza massima per un periodo pari a 1.051 ore l’anno di
vento costante. Con una potenza installata di 45.000 MW,
s’otterrebbero complessivamente 47.295.000 MW, che corrispondono a 1,7
MTEP, vale a dire circa l’1% del fabbisogno. Non è molto, ma
rappresenta pur sempre il carico di 4 superpetroliere ed il 9% di quanto
l’UE ci chiede di fare: inoltre, riflettiamo che quel “
Il
solare
Che l’Italia sia il paese del sole è noto: più
difficile capire perché la superficie di pannelli fotovoltaici per la
produzione d’energia elettrica sia sensibilmente inferiore rispetto a
quella dei paesi centro-europei, come
La risposta incrocia i destini dell’industria italiana: le aziende
europee che producono pannelli fotovoltaici sono principalmente due –
Siemens e Wuerth – e sono entrambe in Germania (anche se Shell ha
acquistato recentemente Siemens). Si può comprendere che – laddove
altri aspetti industriali (ricerca, occupazione, ecc) influiscano sulle
scelte – è maggiore l’attenzione dei governi. In altre parole,
Attualmente, in Italia stiamo attuando un piano che condurrà
all’installazione di una potenza massima di 300 MW con pannelli
fotovoltaici: 300 MW, rispetto ad una richiesta massima della rete
elettrica di 51.400 MW (giugno 2005), è una quantità poco
significativa.
La produzione con questo metodo sconta – per ora – alti costi:
produrre un KW con i pannelli fotovoltaici costa circa 14-18 centesimi
di euro, contro i 7 del petrolio e del metano, i 6 del nucleare e gli 8
dell’idroelettrico.
La vera “bestemmia” delle scelte energetiche del governo di
centro-destra è stata quella di non valorizzare l’idea proposta da
Carlo Rubbia, premio Nobel per
Rubbia partì da una semplice constatazione: un metro quadrato di
specchi costa enormemente di meno rispetto ad un metro quadrato di
pannelli fotovoltaici. Da questa idea primigenia, sviluppò una nuova
tecnologia alla quale diede il nome di “solare termodinamico”. Di
cosa si tratta?
Una superficie viene ricoperta di specchi che possono ruotare sugli assi
per seguire il moto apparente del sole: un sistema informatico gestisce
autonomamente il processo. I raggi solari sono convogliati verso una
caldaia dove non c’è acqua bensì una miscela di sali fusi: da qui in
avanti il processo è simile al processo termoelettrico, ossia il vapore
creato muove una turbina che genera energia elettrica.
Ciò
che sorprende è la semplicità del sistema: siccome la radiazione
solare media è di circa 1.000 W/m2, il rendimento
termodinamico è altissimo. La quantificazione espressa dallo stesso
Rubbia chiarisce ancor di più la convenienza del sistema termodinamico:
"Come esperimento pilota i 20 megawatt aggiunti dalle
tecnologie solari alla centrale di Priolo non sono da buttar via:
bastano a una città di 20 mila abitanti, consentono di risparmiare
12.500 tonnellate equivalenti di petrolio l'anno ed evitano l'emissione
di 40 mila tonnellate l'anno d’anidride carbonica. Il bello è che
questo tipo di energia è conveniente: ai prezzi attuali, l'impianto si
ripaga in 6 anni e ne dura 30. Oltretutto, una volta avviata la
produzione di massa, i prezzi di costruzione tenderanno al
dimezzamento".
"Oggi, cioè in fase preindustriale, il costo complessivo
dell'impianto oscilla tra i 100 e i 150 euro a metro quadrato. E da un
metro quadrato si ricava ogni anno un'energia equivalente a quella di un
barile di petrolio. Il che vuol dire che utilizzando un'area desertica o
semidesertica di dieci chilometri quadrati si ottengono mille megawatt:
la stessa energia che si ricava da un impianto nucleare o a combustibili
fossili, ma con costi inferiori e con una lunga serie di problemi in
meno".
Il ragionamento è semplice e lineare: da ogni m2
di specchi – in un anno – si ricaverebbe l’equivalente in energia
di un barile di petrolio. Siccome 7 barili circa sono pari ad una
tonnellata, con
Dopo aver realizzato un piccolo impianto pilota presso Priolo, in
Sicilia, scoppiarono tanti e tali problemi che Rubbia dovette lasciare
la presidenza dell’ENEA e migrare in Spagna, dove sta realizzando il
suo progetto.
Sembra una storia di fantascienza: abbiamo un genio, un premio Nobel che
indica una strada per risolvere il problema energetico, lo dimostra con
un impianto sperimentale e l’Italia cosa fa? Gli dà un bel calcio nel
sedere. D’altro canto, il Nobel per la letteratura Dario Fo fu
definito da Berlusconi “un guitto”, mentre chi – in un dopoguerra
nel quale l’Italia era un paese distrutto – riuscì a creare
l’ENI, ossia Enrico Mattei, finì assassinato e la verità saltò
fuori dopo 40 anni.
La prima cosa che il futuro governo dovrebbe fare sarebbe senz’altro
chiedere a Rubbia di tornare e di riavviare il progetto – anche a
costo di chiederlo in ginocchio – perché non a caso ho definito la
vicenda “una bestemmia” e simili peccati prevedono il pentimento.
La
ricerca
Sentiamo spesso affermare che si devono aumentare gli
investimenti nella ricerca: in campo energetico, dove investire cercando
nuovi settori dove altri non siano già troppo avanti?
Un settore dove s’inizia a sperimentare è quello delle correnti
sottomarine: flussi d’acqua enormi che scorrono a bassa velocità; si
tratta dell’esatto opposto dell’eolico, laddove il fluido (l’aria)
ha bassa densità ed alta velocità.
I norvegesi e gli inglesi hanno condotto alcuni esperimenti, affondando
semplicemente in acqua degli aerogeneratori modificati per resistere
alla corrosione, ma è del tutto evidente che una pala di derivazione
aeronautica non è certo adatta allo scopo: difatti, le eliche navali
sono sensibilmente diverse da quelle aeronautiche.
Ebbene, in Italia avremmo tutte le competenze necessarie per entrare
dalla porta principale in questo nuovo settore: aziende come Ansaldo,
OTO Melara, Italcantieri, FIAT ed altre ancora lavorano da decenni in
campo navale e nella progettazione e costruzione di grandi impianti.
Le differenze rispetto all’eolico sono molte: ad esempio,
le correnti sottomarine sono quasi costanti e quindi la potenza massima
installata corrisponde a quella effettivamente ricavata. Se una turbina
eolica di un KW produce in media per 1051 ore l’anno, ossia genera
1.051 KW, una turbina Kaplan che sfrutta una corrente sottomarina
produce per 8760 ore l’anno, ossia 8760 KW: otto volte tanto!
Riflettiamo sulle enormi masse d’acqua che si muovono a velocità
costante nei mari: a parte lo Stretto di Messina e le Bocche di
Bonifacio, perché non sfruttare l’enorme massa d’acqua che si
precipita nel Mediterraneo dall’Atlantico attraverso lo stretto di
Gibilterra, a causa della differente evaporazione?
Le tecnologie
di base per sviluppare il settore provengono quasi tutte dal settore
navale, e si tratta di un know-how noto: si tratterebbe semplicemente di
realizzare un impianto pilota e di verificare nella pratica gli
inconvenienti e valutare i costi.
Dovremmo, sostanzialmente, sistemare grandi eliche di tipo
navale su piattaforme affondabili, dopodichè le turbine ruoterebbero in
fondo al mare senza creare il minimo intralcio alla navigazione né
invadere il territorio. Qualche intralcio potrebbe averlo la pesca ma,
combinando le aree per lo sfruttamento energetico al necessario
ripopolamento ittico, forse ne ricaveremmo addirittura dei vantaggi.
E’ troppo chiedere la realizzazione di un impianto sperimentale?
Un secondo settore nel quale investire è quello dello
sfruttamento delle caldere dei vulcani a magna basico, in Italia
l’Etna. Cose folli? No, sono ritenute folli perché i media italiani
sono asserviti alle lobby dell’energia e non ci raccontano ciò che
altri stanno sviluppando.
Qui non si tratta di sfruttare i cosiddetti “letti caldi”, ossia
polle o flussi d’acqua calda sotterranea d’origine vulcanica, bensì
d’andare a prelevare l’energia proprio nei pressi del vulcano.
Durante l’eruzione del 1991-92 l’Etna eruttò una quantità di lava
che – tradotta in termini energetici – corrisponde a circa 12 MTEP,
ossia il 6% del fabbisogno nazionale. E’ possibile “prelevare”
energia dai vulcani?
Mentre lo sfruttamento dei “letti caldi” avviene oramai normalmente
– dalla Kamchatka alle Filippine, dalla Turchia al Messico ed a
Larderello – in altre aree s’iniziano a sfruttare le caldere dei
vulcani in attività: è il caso del Kilauea nelle Hawaii, del Dieng
nell’isola di Giava, del Ghoubet–Al–Kharab a Gibuti ed in varie
zone attive in Giappone.
Sotto l’aspetto tecnologico, di cosa si tratta? Le rocce che
circondano la caldera di un vulcano raggiungono temperature superiori ai
500 gradi centigradi: si tratta soltanto di scavare pozzi alla base del
vulcano in un versante non soggetto ad eruzioni (ad. es. quello
occidentale dell’Etna), installarvi delle tubazioni per immettere
acqua e ricavare vapore ad alta temperatura per far ruotare le turbine.
E’ troppo chiedere all’ENI – che ha trivellato mezzo
mondo – di scavare un pozzo sperimentale per verificare quanta energia
si può ricavare dal vulcano? Se le risultanze fossero positive, unendo
la professionalità italiana nel campo delle trivellazioni (anche
off-shore) alle competenze della grande industria meccanica nazionale,
ci troveremmo ad essere la “punta di lancia” di una nuova tecnologia
energetica.
Un terzo settore nel quale la ricerca potrebbe fornirci altre possibilità
è quello dei fluidi a basso punto d’ebollizione: perché?
I nuovi “vampiri” energetici sono i climatizzatori, che nella
stagione estiva mettono oramai a dura prova la rete elettrica italiana,
con sempre maggiori richieste.
Domandiamoci: cos’è, in sintesi, un climatizzatore? Una macchina che
produce aria fresca sottraendo calore ad un fluido per convogliarlo
verso un altro. Difatti, all’aria fresca che viene irradiata negli
ambienti corrisponde un flusso molto caldo che viene disperso
all’esterno. Questo secondo flusso, essendo molto caldo, è carico
d’energia termica che oggi va quasi sempre sprecata.
Negli ospedali od in alcune attività dove ci sono alti
consumi d’acqua calda si può recuperare l’energia per riscaldare
dell’acqua, ma negli uffici e nelle banche l’energia viene
semplicemente sperperata.
Sarebbe possibile recuperare quei flussi d’energia (aria a 60-70
gradi) per riscaldare dei fluidi con basso punto d’ebollizione che
circolano in un circuito sigillato. Il fluido viene riscaldato
dall’aria calda, evapora e fa ruotare una turbina per poi riprendere
il ciclo. Il problema non ancora risolto riguarda il fluido: gli unici
composti chimici che sono in grado di soddisfare questi requisiti sono i
cosiddetti CFC (Fluoro Cloro Carburi) che sono responsabili della
riduzione dell’Ozono atmosferico, il fenomeno del “buco
nell’Ozono”.
Se la ricerca fosse in grado di produrre un composto con basso punto
d’ebollizione, costi accettabili e non inquinante, sarebbe possibile
associare dei moduli per il recupero dell’energia ai grandi impianti
centralizzati di climatizzazione: un altro campo dove la ricerca
potrebbe fornire un prodotto innovativo che condurrebbe, in definitiva,
al tanto osannato risparmio energetico.
Come risparmiare?
Che in un paese soleggiato come l’Italia, d’estate si
tengano in funzione gli impianti di riscaldamento per scaldare
dell’acqua è una colossale asinata, quando tutti sappiamo che basta
esporre al sole un recipiente dipinto di nero per ottenere tonnellate
d’acqua calda.
In Italia il consumo medio d’energia per acqua sanitaria è di circa
1.500 Kcal giornaliere pro capite, e la conversione dei comuni boiler
con sistemi solari condurrebbe ad un risparmio dell’82%, perché
bisogna considerare – seppur la fonte solare non sia sempre
disponibile (e quindi deve essere integrata con l’elettricità) – le
perdite d’energia dovute alla produzione, alla trasformazione ed al
trasporto dell’energia fino al consumo3.
In definitiva, per la sola acqua calda, consumiamo 3,3 MTEP d’energia
– l’1,7% del consumo totale – e con la conversione al solare
potremmo risparmiare un ulteriore 1,5%.
Da qualche anno si sente parlare d’utilizzare le biomasse
come fonte d’energia. Di che cosa si tratta? Sono biomasse gli scarti
di produzione di molti settori (industria del legno, agricoltura,
imballaggi, ecc), ovvero tutto ciò che può essere bruciato.
L’immenso patrimonio boschivo italiano è in gran parte abbandonato,
giacché poche aree del paese si prestano per la produzione di legname
pregiato. Soprattutto nelle zone prealpine, sono state installate le
prime centrali che utilizzano il legno per riscaldare le abitazioni e,
in qualche caso, per produrre energia elettrica.
Gli sviluppi sono promettenti, e le analisi effettuate stimano che circa
5,5 milioni d’italiani (circa il 10% della popolazione) potrebbero
usufruire di una fonte energetica per il riscaldamento che non prevede
acquisti dall’estero: in altre parole, lo sfruttamento dei boschi
cedui condurrebbe a “deviare” consistenti flussi di denaro dal
settore petrolifero (estero) verso la produzione nazionale, con benefici
che ricadrebbero sulla ricchezza e sull’occupazione delle popolazioni
locali.
Ci sono innumerevoli esempi di risparmio energetico, ottenibile da
criteri più moderni nella costruzione delle abitazioni, dall’utilizzo
d’elettrodomestici a basso consumo, ecc.
Un solo esempio: in Italia, nel periodo natalizio le scuole
sono chiuse, ma solo per studenti ed insegnanti. Il personale di
segreteria ed i bidelli si recano ugualmente al lavoro in delle scuole
vuote: la ragione? La scuola deve consegnare certificati anche nel
periodo natalizio a chi ne facesse richiesta: immaginiamo quante persone
si recano nelle scuole per chiedere certificati in quel periodo festivo.
Ebbene, quei “certificati” costano ogni anno circa 250-350 milioni
di euro, giacché vengono riscaldate anche aule e laboratori – come se
la scuola fosse in funzione – poiché non è possibile
“frazionare” gli impianti. Se consideriamo anche le vacanze pasquali
(dove al Nord si riscaldano ancora gli ambienti) e le eventuali
settimane di “stop didattico”, la cifra è probabilmente ancora
superiore. Dobbiamo proprio gettare al vento centinaia di milioni di
euro per scaldare delle scuole vuote? Non sarebbe meglio chiuderle e
mantenere la sola funzione “anti-ghiaccio” degli impianti?
Il vero “buco nero” dello spreco energetico è però il
settore dei trasporti, che consuma da solo circa un terzo dell’energia
totale, circa 60 MTEP. Perché qui si dovrebbe intervenire e ci
sarebbero enormi risparmi?
Ancora una volta è l’UE ad indicare la strada, per chi desidera
seguirla:
“in termini di efficienza energetica, un chilo di petrolio permette di
spostare di un chilometro 50 tonnellate su strada, 97 tonnellate per
ferrovia e 127 tonnellate per via navigabile4”.
In altre parole, sono necessari
Se consideriamo che il 50% della domanda di trasporto in Italia avviene
nella valle padana, non si comprende perché – invece di pensare a
faraonici ponti – non si torni alle origini, ovvero ad utilizzare il
fiume per la navigazione commerciale come avvenne per secoli.
Ripristinare la navigazione fluviale sul Po da Casale
Monferrato alla foce richiederebbe un esborso di circa 500 milioni di
euro5
(non miliardi), e permetterebbe di “saldare” le aree interne
alla navigazione di cabotaggio costiero (anch’essa finita nel
dimenticatoio del Bel Paese).
La ferrovia sarebbe il necessario collegamento fra le aree non toccate
dalle vie marittime e fluviali, e si potrebbero ipotizzare risparmi
energetici veramente cospicui: forse un quinto od un quarto di quelle 60
MTEP sarebbero risparmiate. In Italia, il trasporto su gomma incide sui
prezzi per un buon 2% in più rispetto alla Germania (che ha
Un articolo può contenere l’intero dibattito sull’energia?
Evidentemente no, e quelle che ho raccolto sono solo alcune idee che
andrebbero raffinate e sviluppate, consci che di tempo per porre rimedio
ad un approccio scellerato al problema non ne rimane molto: in questi
mesi abbiamo rischiato veramente di rimanere “a secco” d’energia
per la nota vicenda del metano russo.
Per l’ultima volta cerchiamo (per chi riterrà opportuno farlo) di
sensibilizzare la classe politica affinché affronti con chiarezza e
pubblicamente il problema, lasciandoci alle spalle le diatribe del
passato e guardando al futuro. Non farlo, potrebbe già oggi essere
troppo tardi.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it
www.carlobertani.it
http://carlobertani.blogspot.com
1
Libro Verde adottato dalla Commissione europea il 29 novembre 2000 [COM(2000)
769 def].
2
«Raddoppiare la loro quota dal 6 al 12 % nel bilancio energetico e
passare dal 14 al 22 % nella produzione di elettricità è un obiettivo
che va raggiunto entro il 2010.» Libro Verde op. cit.
3
Fonte: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
4
Fonte: UE, Libro Bianco: la politica europea dei trasporti fino al
2010: il momento delle scelte.
5
Nel 2000 fu stimato in circa 400 miliardi di lire (circa 210 milioni di
euro) l’investimento necessario per rendere navigabile il Po fino a
Cremona con collegamento fino a Milano. Fonte: consorzio Navigare sul
Po.