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Elezioni
ed energia, ovvero: quando il saggio indica il cielo, l’imbecille
guarda in dito
di Carlo Bertani
Gran parte
degli analisti internazionali punta oggi gli occhi sull’Iran e sfoglia
la margherita: gli USA attaccheranno Teheran? Israele parteciperà
all’attacco? Gli iraniani si vendicheranno facendo “saltare per
aria” ancor più il vicino Iraq?
Mentre si disserta sui possibili scenari, fino ad ipotizzare le più
strampalate ipotesi e le inverosimili connivenze, la storia prende forma
vicino a noi, si manifesta ai nostri occhi. Che, ostinatamente,
continuano ad osservare il dito.
Nella settimana appena trascorsa si sono svolte nell’Europa orientale
due tornate elettorali di una certa importanza: la riconferma del
presidente bielorusso Lukashenko e l’amletico risultato delle elezioni
ucraine.
Entrambe le
consultazioni ci consentono di “tastare il polso” al grande est, a
ciò che un tempo era URSS ed oggi è diventato un evanescente “non
so”.
I due risultati – all’apparenza diversi – raccontano in realtà la
stessa vicenda: la difficoltà per gli ex satelliti di Mosca di
ritrovare una propria identità, una strada che non sia il vecchio e
putrescente “grande mondo antico” di nonno Breznev od i salti nel
buio dell’iperspazio liberista. Proprio un bel dilemma.
In Bielorussia gli elettori hanno scelto la conservazione
dell’apparato: elezioni dove si vince con il 93% dei suffragi non
indicano certo una cristallina democrazia, ma manifestazioni
dell’opposizione che si zittiscono dopo poche ore testimoniano che il
dissenso non è fortemente radicato nella società bielorussa. C’è
stata anche la repressione di regime, ma nessun regime riesce a
sopravvivere se non gode dell’appoggio di vasti strati della
popolazione.
In Ucraina,
invece, dopo la travolgente affermazione d’appena un anno fa della
fazione filo-occidentale si torna agli amletici dubbi, con la parte
filo-russa che vince sì, ma di misura.
Cosa raccontano le due vicende? Sostanzialmente la stessa storia,
osservata da due distinti punti di vista.
Ciò che unisce i due fenomeni è la percezione che qualcosa è
cambiato: il “sogno occidentale” – sotto forma di dollari o di
euro – non s’è visto mentre lo spauracchio orientale – che ha
assunto le forme del ricatto energetico – è apparso evidente,
tangibile per tutti.
Inutile raccontare frottole: né gli USA – impelagati nel pantano
iracheno e con un dollaro che attira sempre meno fiducia – né
l’Unione Europea – alle prese con una costituzione che pochi
approvano e con una risibile crescita economica – possono diventare
sicuri approdi per chi vuole fuggire da un passato che rose e fiori non
era di certo.
A Minsk hanno
preferito le poche sicurezze del fatiscente stato sociale
d’ispirazione sovietica alle sirene occidentali; a Kiev hanno provato
per un anno le aperture liberiste ed oggi sono nuovamente dubbiosi.
Se allarghiamo la prospettiva geografica riusciamo a capire le radici
del problema:
Se l’incremento cinese ed indiano è dovuto al settore industriale,
quello russo nasce dalla vendita di prodotti energetici e – in minor
misura – dal mercato delle armi.
Pochi giorni
or sono, il presidente russo Putin si è recato a Pechino per intessere
trattative in vari settori commerciali ma, uno su tutti, nel settore
energetico. Sta prendendo forma l’idea di costruire un gasdotto che
porti il gas siberiano in Cina, assetata d’energia al punto da dover
praticare la politica dei “distacchi programmati” per sopperire al
fabbisogno, insufficiente per coprire l’intera domanda d’energia
elettrica. Nelle aree meridionali ad alta densità d’insediamenti
industriali mancano all’appello 500 MW giornalieri, ed allora si
ricorre alla turnazione delle forniture: un espediente che non può
durare se il paese vuole diventare veramente la nuova “locomotiva”
del pianeta.
Per il russo Putin, cosa rappresenta un nuovo gasdotto che porterà il
metano in Cina? Una sola parola: diversificazione. Maggiori sono le
possibilità d’esportare il prezioso gas dai giacimenti verso i
potenziali clienti, più la trattativa sui prezzi fornisce frecce
all’arco dei russi. La costruzione del nuovo gasdotto che arriverà in
Germania direttamente dalla Russia – e che sarà posato sul fondo del
Baltico – è parte dello stesso progetto, tanto che il programma fu
definito quando Schroeder era cancelliere tedesco ed oggi lo stesso
Schroeder è a capo della joint venture russo-tedesca che costruirà la
conduttura: 4,6 miliardi di euro di costo, che sarà pronta per il 2010.
Il nuovo
gasdotto taglierà fuori tutti: Polonia, Lituania, Bielorussia ed
Ucraina, che dovranno – per continuare a ricevere le forniture –
presentarsi alla corte moscovita con il saio addosso.
La “spada” dell’energia coinvolge anche altri paesi: dalla
poverissima Moldavia al co-dominio russo-americano sulla Georgia, unico
paese al mondo ad avere sul proprio territorio truppe d’entrambe le
nazioni.
All’indomani della caduta dell’URSS nessuno avrebbe puntato un
centesimo su Mosca: la forza delle armi regalava a Washington il dominio
sul pianeta, ma per muovere un carro armato bisogna riempirgli il
serbatoio, altrimenti rimane muta ferraglia che può solo osservare gli
eventi senza intervenire.
Per trovare risposte che possano illuminare il futuro dovremo allora
chiederci quanto può durare l’egemonia delle armi americana e quanto
quella dell’energia, ovvero l’altro piatto della bilancia, quello
russo.
Dopo la fine
della guerra fredda nessuno ha più investito molto in armamenti: ciò
che rimaneva dopo l’estenuante corsa durata decenni era ed è più che
sufficiente per dominare un mondo di nazioni sì emergenti sotto
l’aspetto economico, ma ancora estremamente arretrate sotto il profilo
militare.
Né
La differenza fra USA e Russia è che i primi continuano a basare la
loro politica sul predominio delle armi mentre Mosca, consapevole di non
poter reggere allo scontro, ha preferito mantenere quel tanto che basta
per scoraggiare qualsiasi avventura sul proprio territorio e di puntare
sull’energia come terreno d’incontro/scontro politico.
Sulla consistenza attuale dell’apparato militare russo, però, non si
deve correre il rischio della sottovalutazione: lo spiegamento in Asia
centrale del nuovo missile strategico Topol-M è iniziato nel 2002, e la
modernità del vettore rende inutile qualsiasi tentativo di “scudo
stellare”. Questo gli americani lo sanno benissimo, nonostante
continuino a gettare al vento dollari nel programma “Scudo
stellare”, che serve oramai solo ad “ingrassare” i fondi delle
lobbies.
Con un
ristretto numero di sottomarini nucleari d’ultima generazione Mosca sa
di poter dormire sonni tranquilli; d’altro canto, come dichiarò a suo
tempo un alto ufficiale francese – ai tempi dell’URSS – “
comunque si voglia osservare la cosa, la distanza fra Parigi e Kiev
rimane un quinto di quella fra Kiev e Vladijvostok”.
Se nessuna “avventura” militare può turbare i sonni al Cremlino,
per quanto tempo Mosca avrà a disposizione l’arma energetica?
La consistenza delle riserve russe di metano consente a Mosca di giocare
l’arma per almeno mezzo secolo: dopo – in ogni modo – le
rimarranno secoli di carbone. Per quanto tempo gli USA potranno reggere
nella loro politica d’espansione nel pianeta, che coinvolge ovviamente
il controllo delle fonti petrolifere?
Qui i tempi, invece che in decenni, si misurano in anni o, al massimo,
in qualche lustro.
Fra dieci
anni gli USA dovranno ricostruire completamente le loro forze aeree,
giacché F-16 ed F-15 saranno oramai obsoleti, e se vorranno mantenere
la superiorità di mezzi nei confronti del resto del pianeta non
dovranno certo badare a spese.
Il programma del nuovo caccia F-22 è stato rallentato per motivi
economici e tecnici: la sofisticata avionica del velivolo era disturbata
a bassa quota dalle chiamate dei telefoni cellulari, ed il gioiello
dovette rientrare in officina.
L’unico programma che sembra seriamente avviato è quello dello JSF (Joint
Strike Fighter): un velivolo ad alte prestazioni a decollo
corto/verticale. Basterà?
Le forze armate americane sono sovradimensionate rispetto alle
possibilità economiche del paese: il mantenimento di dodici task group – ciascuno basato su una portaerei a propulsione
nucleare – è astronomico e già parecchi anni or sono si levarono
critiche verso
D’altro
canto non si tratta certo di una novità: la “corsa delle corazzate”
che Gran Bretagna e Germania intrapresero prima della Prima Guerra
Mondiale dissanguò entrambi i contendenti.
L’unica politica possibile, però – per chi basa la propria
strategia sulla forza – è quella del mantenimento di un elevato
standard, quantitativo e qualitativo.
Alcuni segnali stridenti si sono avvertiti già in Iraq, dove le truppe
si sono lamentate direttamente con Rumsfeld per i ritardi con i quali
giungono i rifornimenti ed i ricambi: un giovane ufficiale chiese in
pubblico al Segretario alla Difesa “perché erano obbligati a
recuperare pezzi di blindatura dai mezzi corazzati distrutti per
rimettere in sesto quelli acciaccati”. Non è il miglior viatico per
chi vorrebbe dominare con la forza.
D’altro canto, sappiamo benissimo che l’avventura irachena altro non
è che il tentativo di mettere sotto controllo USA le principali risorse
petrolifere del pianeta: gran parte dei 40 anni di petrolio che
rimangono sono sotto le sabbie del Golfo Persico.
Ci sono riusciti? Per ora sì, ma se vorranno esser certi che il greggio
iracheno passi alle compagnie americane dovranno mantenere le truppe in
Iraq per molti anni, e da come stanno andando le cose è difficile
immaginare una loro permanenza oltre il mandato di Bush, che scade nel
2008.
E dopo la
fine del decennio? Dovranno inventarsi dell’altro, perché un
presidente che ha oramai meno del 30% dello share non può sperare
d’essere rieletto. E allora?
Per continuare “la guerra infinita” – ossia il tentativo
d’appropriarsi con la forza di consistenti porzioni dei fossili che
ancora rimangono nel pianeta – la fazione neocon
deve rimanere la potere, con un Bush III od un predicatore televisivo
– non importa – l’importante è che le lobbies dell’energia e
delle armi, con la “copertura” ideologica del più perfido
integralismo cristiano, possano continuare a decidere la politica USA.
Ecco pronte le contromisure per il 2008, riprese dalla cronaca di un
giornalista americano – Chris
Floyd – e pubblicate da “Il Manifesto” il 16 marzo del
2006:
Una delle poche certezze nelle moderne
faccende di politica interna statunitensi è che nessun candidato
democratico può sperare di vincere la corsa alla Casa Bianca senza
vincere in California…Mettere in saccoccia
Se qualcuno
pensa ancora che le nazioni siano governate dai rappresentati
legittimamente eletti, può anche credere a Cappuccetto Rosso od alla
favola di Aladino: per quasi mezzo secolo in Italia nessuno ha avuto la
possibilità di vincere le elezioni al di fuori dei partiti di centro,
questo per l’appartenenza dell’Italia alla NATO.
I governi dell’epoca (Democrazia Cristiana in testa) giunsero a pagare
sette milioni e mezzo di pensioni d’invalidità: chi ha orecchie per
intendere intenda, per capire cosa portavano in cambio quei milioni di
pensioni regalate; d’altro canto, è una realtà che hanno ammesso
parecchi ex democristiani.
Oggi – apparentemente – le cose sembrano più semplici: senza un
mondo diviso in blocchi, parrebbe assurdo dover controllare il voto.
Invece,
bisogna preparare la polpetta avvelenata per gli elettori USA senza che
sospettino nulla: non si può lasciar perdere l’Iraq dopo i costi
astronomici della spedizione; lo ammise lo stesso ex governatore
coloniale americano – Paul Bremer – quando affermò che “i
proventi della vendita del petrolio iracheno non compensano ancora gli
ingenti costi della guerra”.
Per “compensare” i costi della guerra servono molti anni
d’estrazione petrolifera: ricordiamo – per chi l’avesse scordato
– che sia Powell sia
Potremmo tornare alla battuta con la quale Bill Clinton affossò Bush
senior nelle elezioni del 1992: “It’s
the economy, stupid!”. L’economia va male, e questo gli
americani lo avvertono perché scemi non sono, però potrebbe andare
ancor peggio se, il paese che consuma il 40% delle risorse energetiche
del pianeta (a fronte del 4% della popolazione), non sapesse ribattere
alla politica dei ”gasdotti” di Putin con quella “esportazione
della democrazia” nel mondo arabo che maschera i loro veri interessi.
Questo però non si può dire – perché non è politically
correct – e gli americani credono ancora che il loro paese sia il
santuario dei valori democratici: bisogna quindi fare di necessità virtù,
e far girare meglio che si può le macchinette della Diebold.
A fronte di un simile scenario viene da chiedersi se sia ancora
necessario ascoltare notizie dove si comunicano dei risultati
elettorali: siano le infernali macchinette della Diebold, sia
l’apparato di polizia di Lukashenko, del vero concetto di democrazia
rimane ben poco.
Forse oggi ha più senso – per capire chi potrà vincere una tornata
elettorale – osservare, al posto dei tabelloni televisivi, i numeri
del contatore del gas oppure lo scorrere degli euro in quello del
distributore all’angolo.
Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it
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