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Elezioni ed energia, ovvero: quando il saggio indica il cielo, l’imbecille guarda in dito
di Carlo Bertani - 3/04/2006

Gran parte degli analisti internazionali punta oggi gli occhi sull’Iran e sfoglia la margherita: gli USA attaccheranno Teheran? Israele parteciperà all’attacco? Gli iraniani si vendicheranno facendo “saltare per aria” ancor più il vicino Iraq?
Mentre si disserta sui possibili scenari, fino ad ipotizzare le più strampalate ipotesi e le inverosimili connivenze, la storia prende forma vicino a noi, si manifesta ai nostri occhi. Che, ostinatamente, continuano ad osservare il dito.
Nella settimana appena trascorsa si sono svolte nell’Europa orientale due tornate elettorali di una certa importanza: la riconferma del presidente bielorusso Lukashenko e l’amletico risultato delle elezioni ucraine.

Entrambe le consultazioni ci consentono di “tastare il polso” al grande est, a ciò che un tempo era URSS ed oggi è diventato un evanescente “non so”.
I due risultati – all’apparenza diversi – raccontano in realtà la stessa vicenda: la difficoltà per gli ex satelliti di Mosca di ritrovare una propria identità, una strada che non sia il vecchio e putrescente “grande mondo antico” di nonno Breznev od i salti nel buio dell’iperspazio liberista. Proprio un bel dilemma.
In Bielorussia gli elettori hanno scelto la conservazione dell’apparato: elezioni dove si vince con il 93% dei suffragi non indicano certo una cristallina democrazia, ma manifestazioni dell’opposizione che si zittiscono dopo poche ore testimoniano che il dissenso non è fortemente radicato nella società bielorussa. C’è stata anche la repressione di regime, ma nessun regime riesce a sopravvivere se non gode dell’appoggio di vasti strati della popolazione. La Bielorussia è una delle spine nel fianco dell’amministrazione USA – che giunse a finanziare centinaia di ONG per sottrarre consensi a Lukashenko – perché l’affermazione di una fazione filo-occidentale nel paese consentirebbe a Bush di “chiudere il cerchio” nei confronti di Mosca.

In Ucraina, invece, dopo la travolgente affermazione d’appena un anno fa della fazione filo-occidentale si torna agli amletici dubbi, con la parte filo-russa che vince sì, ma di misura.
Cosa raccontano le due vicende? Sostanzialmente la stessa storia, osservata da due distinti punti di vista.
Ciò che unisce i due fenomeni è la percezione che qualcosa è cambiato: il “sogno occidentale” – sotto forma di dollari o di euro – non s’è visto mentre lo spauracchio orientale – che ha assunto le forme del ricatto energetico – è apparso evidente, tangibile per tutti.
Inutile raccontare frottole: né gli USA – impelagati nel pantano iracheno e con un dollaro che attira sempre meno fiducia – né l’Unione Europea – alle prese con una costituzione che pochi approvano e con una risibile crescita economica – possono diventare sicuri approdi per chi vuole fuggire da un passato che rose e fiori non era di certo.

A Minsk hanno preferito le poche sicurezze del fatiscente stato sociale d’ispirazione sovietica alle sirene occidentali; a Kiev hanno provato per un anno le aperture liberiste ed oggi sono nuovamente dubbiosi.
Se allarghiamo la prospettiva geografica riusciamo a capire le radici del problema: la Cina incrementa il proprio PIL del 9% circa l’anno, l’India del 6% e la Russia del 7%. L’UE cresce meno del 2% e gli USA appena un poco di più (ma estendendo sempre di più il debito interno ed estero). Fredde cifre che indicano chiari orizzonti.
Se l’incremento cinese ed indiano è dovuto al settore industriale, quello russo nasce dalla vendita di prodotti energetici e – in minor misura – dal mercato delle armi.

Pochi giorni or sono, il presidente russo Putin si è recato a Pechino per intessere trattative in vari settori commerciali ma, uno su tutti, nel settore energetico. Sta prendendo forma l’idea di costruire un gasdotto che porti il gas siberiano in Cina, assetata d’energia al punto da dover praticare la politica dei “distacchi programmati” per sopperire al fabbisogno, insufficiente per coprire l’intera domanda d’energia elettrica. Nelle aree meridionali ad alta densità d’insediamenti industriali mancano all’appello 500 MW giornalieri, ed allora si ricorre alla turnazione delle forniture: un espediente che non può durare se il paese vuole diventare veramente la nuova “locomotiva” del pianeta.
Per il russo Putin, cosa rappresenta un nuovo gasdotto che porterà il metano in Cina? Una sola parola: diversificazione. Maggiori sono le possibilità d’esportare il prezioso gas dai giacimenti verso i potenziali clienti, più la trattativa sui prezzi fornisce frecce all’arco dei russi. La costruzione del nuovo gasdotto che arriverà in Germania direttamente dalla Russia – e che sarà posato sul fondo del Baltico – è parte dello stesso progetto, tanto che il programma fu definito quando Schroeder era cancelliere tedesco ed oggi lo stesso Schroeder è a capo della joint venture russo-tedesca che costruirà la conduttura: 4,6 miliardi di euro di costo, che sarà pronta per il 2010.

Il nuovo gasdotto taglierà fuori tutti: Polonia, Lituania, Bielorussia ed Ucraina, che dovranno – per continuare a ricevere le forniture – presentarsi alla corte moscovita con il saio addosso.
La “spada” dell’energia coinvolge anche altri paesi: dalla poverissima Moldavia al co-dominio russo-americano sulla Georgia, unico paese al mondo ad avere sul proprio territorio truppe d’entrambe le nazioni.
All’indomani della caduta dell’URSS nessuno avrebbe puntato un centesimo su Mosca: la forza delle armi regalava a Washington il dominio sul pianeta, ma per muovere un carro armato bisogna riempirgli il serbatoio, altrimenti rimane muta ferraglia che può solo osservare gli eventi senza intervenire.
Per trovare risposte che possano illuminare il futuro dovremo allora chiederci quanto può durare l’egemonia delle armi americana e quanto quella dell’energia, ovvero l’altro piatto della bilancia, quello russo.

Dopo la fine della guerra fredda nessuno ha più investito molto in armamenti: ciò che rimaneva dopo l’estenuante corsa durata decenni era ed è più che sufficiente per dominare un mondo di nazioni sì emergenti sotto l’aspetto economico, ma ancora estremamente arretrate sotto il profilo militare.
la Cina né l’India potranno far valere la forza delle loro armi nel pianeta: potranno intervenire nei conflitti locali, ma nessuno può sfidare il colosso americano e, anche se in minor misura, quello russo.
La differenza fra USA e Russia è che i primi continuano a basare la loro politica sul predominio delle armi mentre Mosca, consapevole di non poter reggere allo scontro, ha preferito mantenere quel tanto che basta per scoraggiare qualsiasi avventura sul proprio territorio e di puntare sull’energia come terreno d’incontro/scontro politico.
Sulla consistenza attuale dell’apparato militare russo, però, non si deve correre il rischio della sottovalutazione: lo spiegamento in Asia centrale del nuovo missile strategico Topol-M è iniziato nel 2002, e la modernità del vettore rende inutile qualsiasi tentativo di “scudo stellare”. Questo gli americani lo sanno benissimo, nonostante continuino a gettare al vento dollari nel programma “Scudo stellare”, che serve oramai solo ad “ingrassare” i fondi delle lobbies.

Con un ristretto numero di sottomarini nucleari d’ultima generazione Mosca sa di poter dormire sonni tranquilli; d’altro canto, come dichiarò a suo tempo un alto ufficiale francese – ai tempi dell’URSS – “ comunque si voglia osservare la cosa, la distanza fra Parigi e Kiev rimane un quinto di quella fra Kiev e Vladijvostok”.
Se nessuna “avventura” militare può turbare i sonni al Cremlino, per quanto tempo Mosca avrà a disposizione l’arma energetica?
La consistenza delle riserve russe di metano consente a Mosca di giocare l’arma per almeno mezzo secolo: dopo – in ogni modo – le rimarranno secoli di carbone. Per quanto tempo gli USA potranno reggere nella loro politica d’espansione nel pianeta, che coinvolge ovviamente il controllo delle fonti petrolifere?
Qui i tempi, invece che in decenni, si misurano in anni o, al massimo, in qualche lustro.

Fra dieci anni gli USA dovranno ricostruire completamente le loro forze aeree, giacché F-16 ed F-15 saranno oramai obsoleti, e se vorranno mantenere la superiorità di mezzi nei confronti del resto del pianeta non dovranno certo badare a spese.
Il programma del nuovo caccia F-22 è stato rallentato per motivi economici e tecnici: la sofisticata avionica del velivolo era disturbata a bassa quota dalle chiamate dei telefoni cellulari, ed il gioiello dovette rientrare in officina.
L’unico programma che sembra seriamente avviato è quello dello JSF (Joint Strike Fighter): un velivolo ad alte prestazioni a decollo corto/verticale. Basterà?
Le forze armate americane sono sovradimensionate rispetto alle possibilità economiche del paese: il mantenimento di dodici task group – ciascuno basato su una portaerei a propulsione nucleare – è astronomico e già parecchi anni or sono si levarono critiche verso la Marina , colpevole di “prosciugare” i bilanci della Difesa.

D’altro canto non si tratta certo di una novità: la “corsa delle corazzate” che Gran Bretagna e Germania intrapresero prima della Prima Guerra Mondiale dissanguò entrambi i contendenti.
L’unica politica possibile, però – per chi basa la propria strategia sulla forza – è quella del mantenimento di un elevato standard, quantitativo e qualitativo.
Alcuni segnali stridenti si sono avvertiti già in Iraq, dove le truppe si sono lamentate direttamente con Rumsfeld per i ritardi con i quali giungono i rifornimenti ed i ricambi: un giovane ufficiale chiese in pubblico al Segretario alla Difesa “perché erano obbligati a recuperare pezzi di blindatura dai mezzi corazzati distrutti per rimettere in sesto quelli acciaccati”. Non è il miglior viatico per chi vorrebbe dominare con la forza.
D’altro canto, sappiamo benissimo che l’avventura irachena altro non è che il tentativo di mettere sotto controllo USA le principali risorse petrolifere del pianeta: gran parte dei 40 anni di petrolio che rimangono sono sotto le sabbie del Golfo Persico.
Ci sono riusciti? Per ora sì, ma se vorranno esser certi che il greggio iracheno passi alle compagnie americane dovranno mantenere le truppe in Iraq per molti anni, e da come stanno andando le cose è difficile immaginare una loro permanenza oltre il mandato di Bush, che scade nel 2008.

E dopo la fine del decennio? Dovranno inventarsi dell’altro, perché un presidente che ha oramai meno del 30% dello share non può sperare d’essere rieletto. E allora?
Per continuare “la guerra infinita” – ossia il tentativo d’appropriarsi con la forza di consistenti porzioni dei fossili che ancora rimangono nel pianeta – la fazione neocon deve rimanere la potere, con un Bush III od un predicatore televisivo – non importa – l’importante è che le lobbies dell’energia e delle armi, con la “copertura” ideologica del più perfido integralismo cristiano, possano continuare a decidere la politica USA.
Ecco pronte le contromisure per il 2008, riprese dalla cronaca di un giornalista americano – Chris Floyd – e pubblicate da “Il Manifesto” il 16 marzo del 2006:

Una delle poche certezze nelle moderne faccende di politica interna statunitensi è che nessun candidato democratico può sperare di vincere la corsa alla Casa Bianca senza vincere in California…Mettere in saccoccia la California non garantisce ovviamente la vittoria democratica, ma senza la California i conteggi elettorali mozzafiato delle taroccate elezioni del 2000 e del 2004 non sarebbero stati neanche necessari…E dunque: la decisione del segretario di stato della California Bruce McPherson, presa in segreto e all’improvviso, di passar sopra alle obiezioni avanzate dai suoi stessi esperti e di certificare come valide per uso ufficiale in tutto lo stato delle «macchine per votare» Diebold – completamente aperte all’intervento di hackers e prodotte da un’azienda privata politicamente schierata – significa molto semplicemente che per le presidenziali del 2008 l’imbroglio è già fatto…Un buon esempio di come questo controllo effettivamente funziona può essere visto nel caso dell’Alaska. Lì, il partito democratico dello stato ha cercato lungamente di ottenere una verifica di alcuni dei risultati del 2004 «contati» dalle macchine Diebold, che avevano presentato una serie di strane anomalie, tra cui l’omaggio a George Bush di centomila voti extra che erano poi risultati inesistenti. Dapprima, dei funzionari dello stato avevano bloccato la richiesta perché questo tipo d’informazioni – il conteggio dei voti di un’elezione pubblica – era un «segreto aziendale » che apparteneva esclusivamente alla Diebold. Poi decisero che i risultati potevano in effetti essere verificati, ma solo a condizione che alla Diebold ed ai funzionari repubblicani fosse consentito di «mettere le mani nei dati» prima di lasciarli verificare. Alla fine, persino questa sporchissima trasparenza è apparsa eccessiva per gli sgranocchiatori di schede bushisti: il mese scorso, i funzionari dell’amministrazione dell’Alaska ci hanno ripensato e hanno improvvisamente dichiarato che verificare i risultati avrebbe posto un terribile ma non precisato «rischio per la sicurezza» dello stato…Teocrazia totalitaria. Le votazioni in America sono sempre più controllate da un piccolo numero di corporations legate tra loro: Diebold, Es&S[1], Sequoia, tutte aziende che hanno strettissimi legami politici e finanziari con la fazione di Bush.

Se qualcuno pensa ancora che le nazioni siano governate dai rappresentati legittimamente eletti, può anche credere a Cappuccetto Rosso od alla favola di Aladino: per quasi mezzo secolo in Italia nessuno ha avuto la possibilità di vincere le elezioni al di fuori dei partiti di centro, questo per l’appartenenza dell’Italia alla NATO.
I governi dell’epoca (Democrazia Cristiana in testa) giunsero a pagare sette milioni e mezzo di pensioni d’invalidità: chi ha orecchie per intendere intenda, per capire cosa portavano in cambio quei milioni di pensioni regalate; d’altro canto, è una realtà che hanno ammesso parecchi ex democristiani.
Oggi – apparentemente – le cose sembrano più semplici: senza un mondo diviso in blocchi, parrebbe assurdo dover controllare il voto.

Invece, bisogna preparare la polpetta avvelenata per gli elettori USA senza che sospettino nulla: non si può lasciar perdere l’Iraq dopo i costi astronomici della spedizione; lo ammise lo stesso ex governatore coloniale americano – Paul Bremer – quando affermò che “i proventi della vendita del petrolio iracheno non compensano ancora gli ingenti costi della guerra”.
Per “compensare” i costi della guerra servono molti anni d’estrazione petrolifera: ricordiamo – per chi l’avesse scordato – che sia Powell sia la Rice hanno sempre parlato di un impegno americano “per molti anni”.
Potremmo tornare alla battuta con la quale Bill Clinton affossò Bush senior nelle elezioni del 1992: “It’s the economy, stupid!”. L’economia va male, e questo gli americani lo avvertono perché scemi non sono, però potrebbe andare ancor peggio se, il paese che consuma il 40% delle risorse energetiche del pianeta (a fronte del 4% della popolazione), non sapesse ribattere alla politica dei ”gasdotti” di Putin con quella “esportazione della democrazia” nel mondo arabo che maschera i loro veri interessi.
Questo però non si può dire – perché non è politically correct – e gli americani credono ancora che il loro paese sia il santuario dei valori democratici: bisogna quindi fare di necessità virtù, e far girare meglio che si può le macchinette della Diebold.
A fronte di un simile scenario viene da chiedersi se sia ancora necessario ascoltare notizie dove si comunicano dei risultati elettorali: siano le infernali macchinette della Diebold, sia l’apparato di polizia di Lukashenko, del vero concetto di democrazia rimane ben poco.
Forse oggi ha più senso – per capire chi potrà vincere una tornata elettorale – osservare, al posto dei tabelloni televisivi, i numeri del contatore del gas oppure lo scorrere degli euro in quello del distributore all’angolo.

Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it


[1] La ES &S è stata scelta anche dal governo Berlusconi per la cosiddetta “sperimentazione” del voto in Liguria, Lazio, Sardegna e Puglia, guarda a caso quattro regioni dove il risultato è in bilico fra i due schieramenti. In realtà sperimentazione non è, visto che faranno fede i risultati elettronici, mentre le schede potranno essere ricontrollate solo se ci saranno contestazioni: se il buon giorno si vede dal mattino…

 
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