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Quattro
passi nel bosco (dell'editoria)
di Carlo Bertani
Nun
sun i cüi chi mancan, sun ‘e
palanche!
Proverbio genovese
Devo confessare che, da qualche tempo a questa parte, ho sempre meno voglia di scrivere. Se n’è accorta anche la mia tastiera che – sottoposta ad un violento sbattimento dopo averla capovolta – ha restituito un pulviscolo minuto, composto da cenere di sigaretta, frammenti di biscotti al burro olandese, minuscoli particolati di cioccolato al latte di bassa qualità e, inaspettatamente, un ago da cucito. Sono rimasto alcuni minuti a meditare, per ricordare quando mai avessi rattoppato calzini all’ombra della tastiera: ho concluso che, l’unica ipotesi possibile, era che il proprietario dell’ago coincidesse con il precedente proprietario della tastiera. Della cui provenienza, ignoro profondamente genesi ed attributi genealogici.
Nei lunghi
minuti trascorsi ad indagare sul misterioso ago – misura media, cruna
più adatta alla lana, da ricamo più che da rammendo – una serie
infinita d’immagini mentali m’ha traversato la memoria, e tutte
conducevano ad un solo punto interrogativo: perché, nonostante
l’italico sfacelo che ci circonda, ci ostiniamo ad imbrattare fogli di
carta con l’inchiostro?
Eh sì, perché non possiamo
sottendere che la cloaca italiana – con le mille perversioni del
bassissimo impero qual siamo giunti, le fantasmagorie mediatiche alle
quali sono sottoposti già i lattanti, fino alla scoperta di una
“casta” da parte di coloro che ne fanno oltremodo parte (ossia i
giornalisti di regime) – può essere dipinta e raffigurata soltanto
con l’italico idioma. Del quale – buon per lui, mal per noi – può
infischiarsene e servirsene anche un tizio che fa di nome Cesare Salvi,
il quale acchiappa ogni mese i suoi 20.000 euro come nostro
“dipendente”, e poi scrive che bisogna “moralizzare” la spesa
per la politica. Così, acchiappa anche i diritti d’autore.
Eppure,
volente o nolente, ci tocca esprimerci nel medesimo idioma, aderire ad
identico stampo.
Sarebbe difficile rendere in altri idiomi espressioni come “Lei non sa
chi sono io!”, così com’è difficilissimo da interiorizzare il
proverbio tedesco Der Krieg trägt im der Land, und die Wahrheit flieht heraus (Nel
Paese entra la guerra e fugge la verità). Se così non fosse, saremmo
meno sorpresi dalle mille, sfaccettate verità sull’11 settembre,
tanto meno perderemmo tempo a leggere che le cifre comunicate dal
Pentagono sulle perdite in Iraq sono stratosfericamente fasulle. Ma
Ogni lingua,
dunque, racconta l’anamnesi di un dipinto che è la quintessenza della
sua storia: con le tinte e le pennellate tipiche di quel pittore il
quale – all’opposto della mia tastiera – ha una precisa genesi e
sufficientemente definibili attributi.
La possibilità d’imbrattar carta, e di sperare che la cosa sia
oltremodo utile, è quindi confinata dal numero di coloro che riescono
ad interpretare quei segni, codificarli in un linguaggio, accoppiarli ad
emozioni ed esperienze personali, scorrerli nel gestalt[1]
della memoria e goderli finalmente nello schermo della propria mente.
Altrimenti, meglio un DVD in qualsiasi lingua: almeno, le immagini sono
internazionali.
E qui
veniamo al sodo.
Quando, dopo aver aperto Word, iniziamo a battere sui tasti, già
sbarriamo la porta della prigione. Nel momento stesso nel quale iniziamo
a scrivere, abbiamo sbattuto la porta in faccia a 6 miliardi e 940
milioni d’esseri umani. Tutti i non-italiani: tristissimo doverlo
riconoscere, ma è così.
Per fortuna, rimangono quei 60 milioni di (quasi) nostri connazionali,
giacché il 5% sono oramai stranieri che vivono in Italia e che, non
sempre, riescono a leggere un libro in italiano. Quando, oltretutto,
trovano i soldi per comprarlo.
Compensiamo però – oggi siamo di manica larga – quei tre milioni e
passa d’extracomunitari con qualche milione d’italiani che vivono
all’estero, che ancora riescono a leggere il nostro idioma, e facciamo
pari e patta: 60 milioni. Gli altri, come sono messi?
Cinese:
1.200 milioni
Hindi :1.000 milioni
Arabo: 800 milioni
Inglese: 500 milioni
Spagnolo: 400 milioni
Russo: 250 milioni
Tedesco: 100 milioni
Francese: 100 milioni
Italiano: 60 milioni
Le cifre
sono indicative e non molto precise, ma assolvono in pieno il loro
compito, ossia indicare: per questa ragione non mi dilungo sulle
specificità del cinese han o sul caleidoscopio dell’arabo.
Se poniamo attenzione a quei numeri, possiamo osservare che le
possibilità – per il nostro pezzo di carta imbrattato d’inchiostro
– d’esser letto dipendono principalmente da due fattori: la lingua
usata per imbrattarlo e la disponibilità economica dell’acquirente.
Il prezzo, di per sé, non ha soverchia importanza, giacché il costo
delle materie prime (carta, inchiostro, ecc) e della stampa non varia
moltissimo: certamente, nei paesi meno ricchi, il costo della mano
d’opera sarà minore, ma non abbastanza per essere degno
d’attenzione. Quando il tuo reddito è di 80 euro il mese, poco
importa se un libro ne costa 5 o 10: sempre troppo è[2].
Non
introducendo nell’analisi, quindi, paesi molto popolosi ma con scarso
reddito – sui quali si potrebbero fare altre considerazioni, ma che
esulerebbero dal nostro discorso – rimangono le lingue europee.
In questo caso, lingua non è più sinonimo di nazione, bensì d’area
linguistica: l’inglese è letto in Australia così come lo spagnolo
nelle Filippine, il russo in molti paesi dell’ex-URSS, il francese nel
Quebec, ecc.
Ora, ipotizzando che sia interessato al nostro pezzo di carta (e che
possa acquistarlo) lo 0,001% della popolazione, nei rispettivi paesi le
vendite sarebbero queste:
Inglese:
5.000
Spagnolo: 4.000
Russo: 2.500
Tedesco: 1.000
Francese: 1.000
Italiano: 600
Per una
volta non consideriamo chi sta peggio di noi – greci e slovacchi,
olandesi e croati – perché quelle 600 copie vendute in Italia, a
fronte delle 5.000 inglesi, raccontano già tutto.
Non esiste un “limite stabilito” per affermare se un libro copre i
costi di produzione (dipende da molti fattori), ma – a microfono
spento – molti piccoli editori affermano che quel numero sta proprio
fra 2.000 e 5.000.
Ebbene, il pieno insuccesso di un libro sul mercato italiano – quelle
600 copie – è un parallelo insuccesso anche nel mercato anglosassone
(5.000 copie), con una differenza: l’insuccesso italiano sarà anche
economico, quello inglese, al contrario, un piccolo utile lo fornirà.
Se, invece,
vogliamo considerare un libro italiano che raggiunge la
“sufficienza” con le sue 5.000 copie, corrisponderà a circa 40.000
copie nel mercato anglosassone: 40.000 copie sono una quantità
sufficiente, che permette all’imbrattacarte inglese d’affermare
“di mestiere, faccio lo scrittore”, mentre l’italiano potrà
soltanto dire “faccio anche
lo scrittore”. E qui, credetemi, c’è già una grossa differenza.
La differenza è tutta insita nella giornata dell’imbrattacarte
inglese, rispetto a quella del collega italiano: il primo potrà
meditare sull’argomento del prossimo libro, il secondo sul prossimo
lavoro che dovrà svolgere per campare.
Forse non
tutti sapranno qual è la ripartizione degli utili di un libro: dal 4%
al 10% all’autore, circa il 60% alla distribuzione e circa il 30%
all’editore. Tutti, ovviamente, dovranno pagare su quelle cifre tasse
e balzelli: come si potrà intuire, non c’è molto da stare allegri.
Un libro che costa 10 euro, con una percentuale per l’autore del 5% e
che venda 5.000 copie, fornirà 2.500 euro: tolto il 15% della SIAE e
l’IRPEF, rimarranno circa 1.700 euro. Nelle medesime condizioni, lo
scrittore inglese guadagnerà (40.000 copie) circa 13.500 euro. Conviene
imbrattare muri (ossia fare l’imbianchino) oppure carta (lo
scrittore)? Nel mondo anglosassone, scarseggeranno di certo gli
imbianchini.
Anche nella
nobile arte del giornalismo, il sole non brilla per gli italici
scribacchini: a questo pongono rimedio i governi, che devolvono ogni
anno che passa – in silenzio, per non turbare le trattative su
pensioni e stato sociale – circa un miliardo di euro, adducendo come
scusa la necessità di preservare l’italico idioma. Si rammentano ben
presto, però, d’assicurarsi piena fedeltà per quegli “spiccioli”
devoluti – spesso, ahimé, con troppa sollecitudine – a poverissimi
direttori di testate come Libero, L’Unità, Il Foglio e tanti altri.
Feltri, Padellaro, Ferrara e compagnia cantante sentitamente
ringraziano.
All’estero, nel regno degli Angli, va invece di moda la
“fondazione”: splendido strumento al quale puoi devolvere qualche
briciola del tuo reddito, quando lo stesso reddito – terrore!
Disgrazia incombente! – finirebbe per “sforare” un “tetto” e
farti crollare addosso una tegolata di tasse. Così, risparmio sulle
tasse ed avrò finanziato un po’ di cultura.
Per questa
ragione, i giornalisti anglo-americani possono permettersi di lavorare
tranquilli nelle loro discrete case di campagna, lanciando un “allarme
guerra Iran” la settimana. Qualcosa devono pur scrivere: basta non
prendere “di punta” il mecenate di turno.
I giornalisti italiani? Scivoleranno silenziosi nelle corti dei Feltri,
Padellaro, Ferrara & Company, diranno sempre che tutto va bene e
che, se piove, potremo sempre affermare che il governo è ladro. Il
mugugno è libero.
Di conseguenza – operando un rapido paragone fra i due mondi –
saltano agli occhi le scarse possibilità d’occupazione per i
lavoratori dell’idioma dantesco.
Un mercato
ristretto ed asfittico, però, non è poi così male – riconosciamolo
– perché dipende dall’angolo che assumiamo per osservarlo. Se siamo
nell’angolo degli imbrattacarte…eh…c’è poco da fare…ma, se
siamo nell’angolo di chi degli imbrattacarte ha bisogno, ne saremo
molto avvantaggiati.
Quanto costa quello inglese? 100.000 sterline, sir, ha appena venduto
50.000 copie con un libro sull’accoppiamento dei coleotteri in
Islanda...e quello italiano? 5.000…ma siamo in stagione di saldi…con
3.000 se lo porta a casa…
Va bene, mi
dia una dozzina di questi italiani e me li incarti.
A questo punto, verrebbe da chiedersi: ma, Bertani, non ci sta
raccontando un sacco di fregnacce?
Non è forse vero che – nel libero mercato – ogni casa editrice ha
interesse a sopraffare l’avversaria, metterla alle corde, per poi
acquistarla per un tozzo di pane? In teoria, sì.
Se tutto ciò fosse vero, le grandi case editrici si farebbero in
quattro per acchiappare le “migliori penne”, le andrebbero a scovare
nei giornaletti di provincia, terrebbero d’occhio il più povero
concorso letterario, si darebbero un gran daffare per “soffiare”
alla concorrenza un giovane promettente. Non è così? No.
E’ dunque
ben strano che, sui portali Web delle grandi case editrici –
Zanichelli e Feltrinelli (sic!) tanto per non far nomi, ma la compagnia
è vasta – sia ben indicato, a chiare lettere, di non inviare nessun
tipo di materiale, né cartaceo né elettronico. La sentenza è pesante:
“tanto, verrebbe subito cestinato”.
Da dove provengono, allora, gli scrittori che pubblicano per quelle
case?
La gran parte sono autori stranieri, perché i libri si possono
tradurre: come avviene il giochetto?
Se una casa anglosassone (o spagnola, ossia di quelle che possono
contare su un esteso mercato potenziale) pubblica un libro, grazie al
vasto pubblico realizza utili: riflettiamo che, con una sola traduzione
inglese/spagnolo o viceversa, s’arriva a circa un miliardo
d’individui.
A quel punto
rimangono i mercati minori: russo (minore ma non troppo, anche per
l’abitudine dei russi a leggere parecchio), tedesco, francese ed
italiano. Man mano che si scende nella scala dei potenziali lettori,
diventerà più appetibile un testo che ha già avuto successo (ed ha
generato utili) rispetto al mercato degli scrittori nazionali.
Un editore straniero – che ha già intascato parecchio con un libro
– s’accontenterà di cedere i diritti per l’estero e
d’aggiungere quei quattro soldi al mucchio che ha già creato. Basta
una traduzione ed una stampa.
Il libro italiano, invece, necessita di una prima lettura, di una fase
di editing, d’immagini con
relativi diritti, ecc. Quando giungerà alla stampa, avrà accumulato un
passivo senz’altro superiore alla semplice traduzione.
L’editore
italiano, quindi, si comporta oramai come un semplice salumiere: il
prosciutto argentino costa di meno? Mangiate prosciutto argentino.
C’è però una differenza: il prosciutto, una volte digerito, se ne
va. Il libro, rimane.
Così, ci troviamo circondati da splendide avventure che nascono in
Patagonia e si spostano nel Chaco, oppure delitti commissionati a
Detroit e consumati (come insegna la tradizione!) nei migliori castelli
inglesi. Da quei libri, verranno tratti splendidi film ed avvincenti
sceneggiati televisivi: se il libro è invece di bassa lega, si trita
tutto e si confeziona una bella telenovela.
Attenzione:
non stiamo affermando che quegli scrittori non valgano o che non sia
avvincente ciò che raccontano, bensì che lo fanno partendo da una
posizione di favore!
Rimane da spiegare la strana comparsa d’autori italiani nei listini:
parrebbero contraddire la tesi in esame, essere la freccia lanciata da
un ribelle Robin Hood contro
Nella maggior parte dei casi, il giochino è semplice: io sono un
cattedratico di Milano, tu di Napoli. Ci conosciamo (magari ci odiamo
anche un po’, ma non fa niente, quando si tratta di soldi si passa
sopra anche ai reciproci sputtanamenti), e decidiamo che è ora di
farlo. Do it! Era il grido dei
freaks. Hanno imparato.
Io scrivo
per Caio, tu per Sempronio. Scriviamo quasi il medesimo libro, ma
nessuno se ne accorgerà: basta un buon “editor”.
Dopo, io metterò in adozione il tuo libro e tu il mio. Quanto fa? Un
migliaio di copie? Duemila? Va bene. Si passa quindi alla rete delle
biblioteche: vuoi che non mettano in catalogo due libri come i nostri?!?
Con i blasoni che abbiamo?!? E fanno altri 2.000. Qualcosa in
libreria…qualche copia nelle “fiere del libro”, un po’ su
Internet…voilà! Ecco le 5.000 copie.
L’editoria scolastica è poi un secondo abisso, dove le case editrici
giocano al rialzo sulla pelle dei poveri genitori: alcune, piccole case
editrici hanno provato a scoprire l’Uovo di Colombo, ma le grandi si
sono già mangiate sia l’uovo e sia il colombo.
Alcune
piccole case hanno proposto semplicemente alle scuole d’acquistare un
libro in formato PDF: anche
Ogni singolo insegnante potrebbe indicare quali parti del testo stampare
(secondo la classe, la didattica, ecc), e le copie potrebbero
“passare” da un allievo al fratello minore. Per la scuola, quali
vantaggi ci sarebbero? Ci sarebbe l’aggravio di maggiori investimenti
per la stampa dei libri ma, lo stesso testo, potrebbe essere replicato
in migliaia di copie!
I genitori
si vedrebbero fare questa proposta: da noi, l’iscrizione non costa 100
euro, bensì 200. Ma, libri compresi. Un vero sardo, direbbe:
capito mi hai?
Qualcosa del genere viene già attuato in Francia ed in Germania: là, i
libri scolastici li fornisce la scuola stessa. Al termine dell’anno
scolastico, i libri ritornano in magazzino e soltanto se sono stati
imbrattati si è costretti all’acquisto.
L’obiezione più comune a tale metodo è che i testi non sono
“aggiornati”: pietoso inganno. Se parliamo di un testo scientifico,
qualcosa di vero potremmo – con gran pignoleria – trovarlo, ma le
“frontiere” della Biologia o della Fisica riguardano più
l’Università che
Sull’altro
versante, riflettiamo “sull’urgenza” d’adottare un nuovo testo
di Latino o di Matematica, per “ovvi” motivi d’aggiornamento. In
realtà, l’editoria scolastica è un gentile regalo che i Governi
fanno alle case editrici per avere apparati d’informazione (le stesse
case pubblicano giornali, riviste, ecc) “nei secoli fedeli”. Una
sorta di “stipendio fisso” per affrontare il mercato, uno stipendio
che viene rapinato dalle tasche dei genitori perché – non
dimentichiamo – l’obbligo scolastico è a 18 anni, e quindi per
circa 8 anni dovranno assolvere all’obbligo pagando di tasca propria.
E per chi non ce la fa?
Per chi non riesce a pagare i libri, c’è la “carità” concessa
dalle scuole: per una scuola di 500 allievi – cifre reali, vissute dal
sottoscritto in Consiglio d’Istituto – 3 milioni di lire, ossia i
libri per 5 allievi. L’1% riceve i libri gratis – e lo Stato ritiene
d’aver assolto il suo compito – mentre il 15% delle famiglie
italiane vive oramai sotto la soglia di povertà. Nel paese dei
Pulcinella, si fa questo ed altro.
Qualora
adottassimo il sistema francese, tedesco o il PDF,
Per quanto riguarda il resto dell’editoria di mercato (ossia gli
autori non cattedratici, non nipoti di cardinali, non figli di notabili,
di mammasantissima, di contesse, di Cavalieri del Lavoro, di Direttori
di testata, di parlamentari, di assessori provinciali, ecc) le nostre
fonti ci assicurano che il metodo utilizzato è lo stesso che ha
imperversato (e che imperversa, con nuove sigle) in RAI: chi si assume?
Un DC, un PCI ed uno bravo. Basta leggere i nomi dei giornalisti
televisivi per rendersene conto: ad ogni buon conto, c’è sempre la
controprova, ossia in quale partito vanno a finire quando lasciano mamma
RAI.
Purtroppo,
in un paese con pochi lettori potenziali, i pochi “bravi” riescono a
fare ben poco: talvolta riescono anche ad ottenere una traduzione, ma più
che una traduzione – a quel punto – la considerano una benedizione.
Anche sulle traduzioni, però, ci sarebbe parecchio da raccontare:
vogliamo ricordare che Fenoglio e Vittorini furono i traduttori di
Steinbeck? Può esistere un traduttore che non ha mai vissuto – e non
per pochi mesi – nel paese dal quale proviene l’autore? Che non
conosce storie, genti, luoghi? Che non sia a sua volta uno scrittore? Le
cose ben fatte si vedono: il resto…
In definitiva – perché Forrest non s’accontenta di raccontare, ma
vuole anche tirare le somme – le case editrici si comportano
esattamente come le banche.
Un tempo, la banca era il luogo dove s’incontravano l’offerta e la
domanda di denaro. Le case editrici erano, invece, l’incrocio fra la
domanda e la richiesta di cultura.
Oggi, la
banca non svolge più quel compito – qualsiasi artigiano lo sa
benissimo – perché privilegia il “colpo” a sei mesi sul mercato
dei derivati finanziari piuttosto che l’investimento, a medio o lungo
termine, ma più sicuro, sul gommista all’angolo.
La casa editrice sa che, proponendo quei testi tradotti e tanta
paccottiglia (che deve produrre, per soddisfare i suoi mentori
politici), riceverà un guadagno certo, veicolato mediante le altre
grandi sorelle, ossia la pubblicità televisiva, il gossip, le mille
stronzate che raccontano tutti quelli che – divenuti famosi per aver
morsicato un cane o per essere finiti in una telenovela
rosa/noir/giudiziaria – all’uscita dal carcere non abbracciano più
la mamma, ma affermano: «Scriverò un libro».
Non si può
nemmeno sperare che il Web mandi all’aria il sistema: potrà essere
valido per l’informazione ma, per la narrativa, riflettiamo che non è
molto comodo leggere a letto con un portatile sullo stomaco. Oltretutto,
s’andrebbe ad incidere sul mercato delle abat-jour.
Altra soluzione sarebbe quella dello scaricamento dei testi a bassissimi
costi – un solo euro, inviato con un SMS, scaricato dalla scheda
telefonica – con l’invio di una password per lo scaricamento.
Considerando un altro euro per la stampa casalinga, leggere sei libri
l’anno costerebbe 12 euro. Ci si potrebbe anche stare, ma le grandi
case editrici non ci stanno, e metterebbero tanti cavilli giuridici fra
le ruote quante sono le stelle in cielo.
Va bene, direte voi – maledetto Bertani, ipocondriaco, pessimista –
ma…ma…le librerie, la distribuzione…non fanno nulla?
Questo
penoso cronista d’italiche sventure, ebbe la disgraziata scalogna
d’assistere, nella libreria di un amico, all’arrivo di un importante
rappresentante di grandi case editrici. Blasonate sigle, nomi da
capogiro: dalla A alla Z, metteteci i nomi delle case editrici più
rinomate.
Sulle prime, il libraio divenne paonazzo, quindi deferente, infine
servile. Lo fece accomodare di fronte al computer principale, gli aprì
un misterioso programma e, a quel punto, il gran macho
venditore sparpagliò al vento la sua canzone.
«Di questo 10, non di più. Quello? No, quello no: piuttosto, prendine
50 di questo…»
«Cinquanta?»
«Sì, cinquanta: fidati: andrà all’Isola dei Penosi e venderà un
sacco. E poi, ricordati: lo vuoi il metro cubo, si o no? Lo posso sempre
dare a qualcun altro!»
Il libraio
chinò il capo «Va beh, questo lo sai…altro?»
Risparmiamo al lettore il seguito della telenovela, assicurandolo che
non sta perdendo alcunché: a perdere la pazienza fu il sottoscritto,
che accampò una scusa per andarsene.
Rimane l’incubo di quel “metro cubo”, dal quale il lettore sarà
incuriosito come dalle vicissitudini di Leni Pfeiffer, nata Gruyten[3]:
si materializzò pochi giorni prima del Santo Natale, quando comparve
nella vetrina un bancale di legno delle dimensioni approssimative di un
metro cubo.
Non possiamo
assicurare al lettore che le dimensioni fossero propriamente adeguate al
metro di Platino conservato al museo di Sèvres, ma ricordiamo con
precisione cosa conteneva l’imballo in plastica trasparente,
incappucciato – a mo’ di preservativo culturale – per proteggere
centinaia di testi tutti uguali. Dalla sommità dell’immane goldone
plastificato, sporgevano e si diramavano decine, centinaia di copie
dell’ultimo libro di Bruno Vespa, ossia il condensato delle cazzate
contenute in un anno di minchiate televisive.
Non è bello, però, terminare con il solito pianto antico: di gente che
scrive – e bene – in Italia ce n’è tanta, e parecchie piccole
case editrici provano a stampare libri di qualità, ma la
“corazzata” della grande editoria, ben protetta negli arsenali dello
Stato, domina il mare.
Ci vorrebbe
una spinta liberalizzatrice, ma “liberalizzare” – in Italia –
significa esattamente l’opposto: invece d’aprire il mercato a tutti,
significa regalare per pochi soldi beni pubblici al Gotha
dell’economia. Gli esempi si sprecano:
Governi intelligenti – invece di scialacquare le nostre sostanze nelle
tasche dei soliti baroni dell’editoria – farebbero meglio a bandire
concorsi per giovani autori e giovani traduttori, per consegnare –
anche sul mercato estero – ottime copie, ben scritte e tradotte, del
genio italico.
Costerebbe pochi milioni (non miliardi) di euro l’anno, e
scardinerebbero questo sistema incartapecorito dall’insipienza di una
mefitica tradizione. Ne uscirebbero giovani, bravi autori che alla lunga
costringerebbero le grandi case alla scelta: o far finta di niente, e
rischiare che altri s’assicurino la “gallina dalle uova d’oro”,
oppure gettarsi finalmente nel mercato reale, ossia leggere e
pubblicare.
Con un
milione di euro, sarebbe possibile immettere ogni anno sul mercato
duecento libri in tre lingue (italiano, inglese e spagnolo) con una
tiratura digitale di poche centinaia di copie, a disposizione
dell’autore. Gli editori italiani farebbero spallucce? Ci penserebbero
quelli esteri, fuori della prigione dei confini sin troppo salvaguardati
dalla cultura di regime. Perché, non dimentichiamo, un libro vuol dire
idee, innovazione, cultura senza controlli politici di sorta.
Questo piccolo intervento creerebbe ricchezza anche per
“l’indotto” dell’editoria, consentirebbe alla lingua italiana di
mostrare che ancora esiste e – perché no – darebbe felicità a
tante persone che potrebbero dare il meglio di sé in quel che meglio
sanno fare. Purtroppo, la carenza della proposta è nell’aggettivo
usato in apertura: “Governi intelligenti”. Già.
In ogni
modo, sono onorato d’aver conosciuto giovani che non hanno mai
pubblicato nulla, dalla penna felicissima. Oppure scrittori di opere
prime e basta: però grandi, immense come cattedrali.
La cosa più curiosa è che quei testi – spesso vere chicche, che
conservo con cura – vengono regalati agli autori in varie occasioni:
concorsi letterari, semplici gadget, altro…e spariscono presto dal
mercato.
Ricordo un libro – opera prima e forse unica, vincitore di un premio
letterario – che mozzava il fiato per l’eleganza della lingua, per
la grazia con la quale trattava sentimenti e tragedie.
Parlava in terza persona di Cristo e dei Vangeli apocrifi: dopo averlo
letto, riletto e gustato, ricevetti in dono più copie di un noto libro
di Dan Brown, che non ho mai aperto. Le rivenderò presto, sulle
bancarelle, prima che passi troppo di moda. Magari ci ricaverò una
pizza.
Perché, quando si gusta del buon Chianti, anche la miglior Coca Cola fa schifo.
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
www.carlobertani.it
http://carlobertani.blogspot.com/
P.S.
Per la traduzione dell’incipit, rivolgetevi ad un amico genovese.
[1]
Gestalt (letterale: Forma):
termine tedesco praticamente intraducibile in italiano, che
identifica – approssimativamente – la capacità della nostra
mente di creare una visione personale partendo dalla lettura di un
testo. Manca – nell’idioma di Dante – una parola per
descrivere compiutamente il fenomeno del “sogno ad occhi aperti”
generato dalla lettura.
[2]
Nelle Fiere del Libro che
si tengono al Cairo da alcuni anni, la richiesta è corposa, ma i
prezzi sono esorbitanti per lo scarso potere d’acquisto degli
egiziani. Il mercato dell’usato supplisce, in parte, a questa
carenza.
[3]
Heinrich Böll
– Foto di gruppo con signora – Mondatori – Milano – 1972