Home Page - Contatti - La libreriaLink - Cerca nel sito - Pubblicità nel sito - Sostenitori

- Pagina storia

Edipo e i sette a Tebe
Nicola Terzaghi - «Historia» 1959

Il mito di Edipo simboleggia la fatalità che a volte sembra guidare i destini degli uomini; e contro, la quale l'uomo, spesso è impotente a lottare.

A Tebe, capitale della Beozia, regnava Laio, che si addolorava profondamente nell'animo per non aver figli a cui lasciare la successione. Rivoltosi all’oracolo di Apollo in Delfi, ne ebbe questa risposta: «0 Laio, figlio di Lábdaco, tu domandi discendenza di figli: un figlio nascerà da te, ma sarà causa della tua morte, perché è tuo destino essere ucciso dalle mani di lui».
Dopo qualche tempo, dalle nozze di Laio e di Giocasta nacque un figlio maschio. Memore dell'oracolo, il re fece forare i piedi al bambinello, attraverso ai fori fece passare una solida corda, ed ordinò che il piccolo figlio appena nato venisse esposto alle fiere vaganti nei boschi e sui dirupi del monte Citerone. Ma il fanciullo fu raccolto da un pastore, che gli dette nome Edipo, «colui che ha i piedi gonfi». Poi il pastore lo consegnò a Pòlibo, re di Corinto, il quale viveva senza figli e lo adottò, allevandolo come erede del suo trono.

Edipo visse a Corinto ignaro di quanto era accaduto; ma un giorno, durante un banchetto, un suo compagno gli svelò che egli non era il legittimo erede della signoria della città. Preso da ira e da sdegno contro colui che gli aveva svelato quel segreto, a cui non prestava fede, e desiderando di mostrargli che aveva mentito. Edipo volle interrogare l'oracolo di Delfi.
Ma l'oracolo fu crudele con lui: anziché rispondere alle sue domande, gli dichiarò: «Tu ucciderai tuo padre, e sposerai tua madre, e da queste nozze nasceranno figli che saranno tuoi fratelli». Edipo credette che l'oracolo alludesse a Pólibo ed a sua moglie; perciò, volendo evitare quanto l'oracolo gli aveva predetto, si propose di non tornare mai più a Corinto e, uscito dal tempio di Apollo, si indirizzò verso Tebe.

Mentre triste e pensieroso camminava per la lunga strada che menava da Delfi a Tebe, ad un crocevia incontrò un cocchio sul quale stava un vecchio dallo aspetto regale, circondato da molti seguaci. Uno di questi gli ordinò di far largo e di ritirarsi da parte, per far passare il carro del re. Edipo si allontanò alquanto, ma un cavallo del cocchio gli pestò un piede, ed il signore, dall'alto, lo colpi con la frusta. Accecato dall'ira, Edipo assalì tutto il corteggio, ed uccise tutti, eccettuato un vecchio, che, tornato a casa, narrò come la compagnia fosse stata assalita. Il re, che guidava il carro, era Laio: il figlio aveva ucciso il padre.
Edipo intanto aveva continuato il suo cammino, e presto giunse a Tebe. Qui da tempo imperversava la Sfinge, un mostro alato, mezzo donna e mezzo leone, il quale proponeva un indovinello a chiunque gli passasse davanti, ed uccideva senza pietà quanti non sapessero risolverlo. Nessuno fino allora aveva trovato la giusta risposta, e molti, giovani e vecchi, nobili e plebei, erano caduti sotto le unghie della fiera. Appena si sparse in città la notizia dell'uccisione di Laio, il popolo bandì un decreto: chi avesse vinto la Sfinge e spiegato l'enigma avrebbe ottenuto il trono di Tebe e sposato la regina rimasta vedova.
Edipo si presentò alla Sfinge, che propose anche a lui l'enigma: «C'è un essere che ha una voce sola e sulla terra cammina con quattro, con due e con tre piedi. Esso solo cambia aspetto fra tutti gli esseri viventi che camminano sulla terra, volano nell'aria, nuotano, nel mare. Ma quando cammina appoggiandosi mi maggior numero di piedi, allora è più piccola la sua forza».
Edipo rispose immediatamente: «Tu dicesti l'uomo, che quando nasce cammina con quattro piedi; quando è più forte e vigoroso soltanto su due, ed avvicinandosi alla vecchiaia si sorregge sul bastone che è per lui come un terzo piede».
Così era spiegato l'enigma: la Sfinge si uccise.

In tal modo si compieva anche la seconda parte dell'oracolo: dopo aver ucciso il padre, Edipo, ignaro, si univa in matrimonio con la propria madre.
Il nuovo re visse felice per qualche anno, amato dal suo popolo e dalla sua famiglia, che intanto si era accresciuta di due figli e di due figlie. Poi scoppiò in città una orribile pestilenza, che mieteva numerose vittime, ed il re si rivolse all'oracolo di Delfi, per sapere come dovesse fare per allontanare quel flagello la città. L'oracolo rispose: «Occorre vendicare la morte di Laio: si scacci il suo uccisore, il quale vive in Tebe». Subito - Edipo fece le necessarie ricerche, e venne a conoscenza della sua colpa. Ma non sapeva ancora tutto: un messo, venuto da Corinto, gli annunziò la morte di Pòlibo e lo invitò a recarsi a Corinto per salire sul trono, e, poiché Edipo era riluttante ad accettare, ricordando l'oracolo e ritenendo di esser figlio dell'estinto e perciò in pericolo di sposare colei che credeva fosse la propria madre, il meno gli svelò come egli non avene nulla a che fare con la famiglia di Pólibo, e come fosse stato adottato da Pòlibo medesimo, dopo di essere stato trovato e raccolto sul Citerone. Giocasta, presente al dialogo fra il re e l'uomo di Corinto, intese tutto e si rese conto dell'abisso di sciagure in cui ella ed Edipo erano caduti; Edipo venne a conoscere la sua triste sorte da quello stesso pastore che lo aveva recato, alla sua nascita, sul Citerone. La regina si uccise; Edipo, strappata una fibbia dell’abito di lei, se la conficcò negli occhi e si accecò, allontanatosi poi volontariamente dalla patria, assistito dalle figlie e specialmente da una di esse, Antigone, che non lo abbandonò fino alla morte.

I due figli di Edipo, Etèocle e Polinice, assunsero il regno. Per non rimanere insieme sul trono, stabilirono di regnare un anno per uno, e nel primo anno il dominio toccò a Etèocle, mentre il fratello rimaneva lontano dalla città. Finito questo periodo, Polinice tornò a Tebe, sicuro di potere reclamar senza ostacoli il suo diritto, ma il fratello, anziché mantenere i patti, lo scacciò. Adirato, deluso nelle sue speranze e assetato di vendetta, Polinice domandò l'aiuto di altri principi greci e riuscì a raccogliere un forte esercito, che marciò contro Tebe. Era a capo di esso Adrasto, re di Argo e, fra i condottieri, che erano sette complessivamente, «si notavano soprattutto Anfiarào e Capáneo. Erano questi due eroi di diverso carattere e valore: il primo era buono ed amato dagli dèi; il secondo feroce ed empio. Presagio del futuro, Anfiarào non avrebbe voluto partecipare alla spedizione in cui sapeva che avrebbe incontrato la morte, se non vi fosse stato indotto da sua moglie Erífile, che ne mise a repentaglio la vita per ottenere un monile d'oro di cui si era invaghita. Capáneo invece minacciava Tebe di incendio e di saccheggio, e non sapeva che di là non sarebbe mai tornato alla sua casa.
I sette condottieri si disposero coi loro eserciti contro le sette porte della città e Polinìce venne a trovarsi precisamente di fronte al fratello Etéocle. La lotta fu lunga e feroce, ma la vittoria rimase ai difensori di Tebe, gli assalitori vennero uccisi o messi in fuga. Etéocle e Polinìce si uccisero scambievolmente in duello.

Tebe rimase così senza il suo re, ed il popolo chiamò al trono Creonte, fratello di Giocasta. Questi ordinò che si desse onorata sepoltura ad Etéocle, morto nella difesa della patria, ma si lasciasse insepolto e si desse in pasto alle belve il cadavere di Polinìce.
A tale ordine, si ribellò Antigone, la fanciulla pietosa verso tutta la sua infelicissima famiglia. Ella aveva sacrificato la sua giovinezza per circondare il padre di affettuose cure, finché egli non morì; ora era pronta a sacrificare persino la vita, per seppellire anche Polinìce. Creonte sorprese la fanciulla in atto di coprire di terra il corpo dell'amato fratello e la condannò a morte.
Nella ma stoltezza egli non sapeva che questa condanna avrebbe finito di rovinare la discendenza di Laio e la propria. Un fato crudele ed inevitabile perseguitava la casa regnante su Tebe. La morte di Antigone afflisse profondamente Emone, figlio del re, che era promesso sposo della fanciulla; egli si trafisse con la spada sul cadavere della fidanzata, e la sua morte spinse anche sua madre ad uccidersi. In tal modo Creonte rimaneva ad un tratto privo della moglie e del figlio, e pagava la pena della sua empietà per non aver permesso che si facesse il funerale di Polinìce secondo il rito.
I corpi degli eroi morti contro Tebe furono da Tésèo re di Atene, restituiti alle madri loro che li domandavano, mentre Creonte, non piegato ancora nel duro animo da tutte le sventure che lo avevano colpito, voleva impedire che si desse loro sepoltura.

Passarono dieci anni; nel frattempo erano cresciuti i figli dei sette duci; ed essi vollero vendicare i padri caduti sotto le mura della città dalle sette porte. Si armarono, raccolsero un esercito e marciarono alla conquista dì Tebe.
In Tebe viveva l'indovino Tirésia, a cui non era nascosto il volere degli dèi, e che aveva spesso aiutato i Tebani coi suoi saggi consigli e con le sue predizioni. Egli era cieco, ma il suo pensiero e l'animo suo brillavano di luce inestinguibile: aiutato da, ma figlia Manto (la quale fondò, poi, in Italia la città di Mantova), che gli indicava i segni celesti, ne traeva gli auspici e mostrava ai cittadini come dovessero regolarsi nei più gravi momenti.
Egli aveva consigliato ai Tebani di fuggire, e quelli lo obbedirono; ma Tirésia perse la vita nella fuga. Rimase viva sua figlia, giovinetta saggia ed abile nel vaticinare. Quando i nemici presero Tebe e ne divisero la preda, giurarono di inviare in dono ad Apollo quanto di meglio avrebbero trovato in città; e nulla trovarono di più bello che Manto, la quale, fatta prigioniera, fu inviata al tempio di Delfi come splendido pegno di conquista e di vittoria, e come fulgido ornamento dei santuario apollineo.


www.disinformazione.it