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Estratti
dal libro "Dove andrà a finire l'economia dei ricchi" di
Domenico De Simone, edito nel 2001 da Malatempora
che sbugiardano il teorema dell'ineluttabilità della crisi
contemporanea
Domenico De Simone - 25 marzo 2009
- http://www.youtube.com/user/domenicods
4)
Lo Stato
Ciò che conta è il puro dato statistico, dal quale si
evinca che la produzione abbia avuto un incremento. Un esempio
divertente di questa stortura nel calcolo di un Totem come il PIL, è
data da questo fatto che si è recentissimamente verificato negli USA.
Sappiamo che il PIL è composto, tra l’altro, dal saldo della bilancia
dei pagamenti, ovvero dalla somma algebrica delle esportazioni, con il
segno positivo meno le importazioni. Ebbene, se si verifica un forte
calo delle importazioni, per effetto di una crisi, che evidentemente si
riflette in minori consumi, il PIL cresce, poiché quel saldo si sposterà
decisamente verso il positivo. L’effetto sarà, quindi, di
un’apparente crescita della ricchezza, che però produce (relativo)
impoverimento tra la gente.
Allora cerchiamo di capire quali incongruenze si nascondano dietro la
realizzazione dei modelli di equilibrio e quali conseguenze aberranti
essi comportino.
Il livello dei prezzi dipende da quattro variabili:
1) i costi di
produzione, 2) la domanda, 3) l'offerta e 4) la quantità di moneta in
circolazione.
Dobbiamo considerare che, per ragioni storiche, la
variabile costi tende a diminuire mentre la variabile quantità di
moneta tende ad aumentare, entrambe con andamento non lineare ma con
direzionalità costante.
Anche le altre due variabili principali, domanda ed offerta, tendono
storicamente ad aumentare in relazione diretta l'una con l'altra. La
teoria dell'equilibrio descrive l'andamento dinamico delle quattro
variabili e la loro relazione con altre due variabili, il tasso di
disoccupazione ed i profitti che dipendono nel loro insieme dalle
variabili considerate e, a loro volta, ne determinano l'andamento.
Nelle condizioni ideali, il tasso di occupazione è
costante, costi e profitti diminuiscono, offerta e domanda crescono in
parallelo e la quantità di moneta cresce meno del tasso di riduzione
dei costi[1].
Da decenni la crescita del sistema è assicurata dal controllo di queste
variabili effettuata dall'intervento dei governi su costi, occupazione
ed offerta, e delle autorità monetarie sulla quantità di moneta.
Profitti e domanda sono determinati di conseguenza dal mercato.
In questo bel quadretto, si spiegano gli interventi delle
banche centrali sui tassi di interesse, che determinano la quantità di
moneta creata, le preoccupazioni sulla riduzione del tasso di
occupazione o su una sua eccessiva crescita, la necessità di rallentare
la crescita (id est la produzione) per evitare squilibri con la domanda
o di tenere a freno i consumi per non esercitare pressioni sui prezzi,
eccetera, eccetera.
I tassi di crescita dei paesi occidentali ed in misura diversa, del
mondo intero negli ultimi tre decenni, danno lustro ed affidabilità al
modello.
Ci sono però alcune cose che questo modello non dice e che falsificano
l'intero ragionamento.
5)
L’economia del debito
La prima cosa che non ci dice, è che il presupposto della
crescita è un indebitamento crescente del sistema, sotto forma
d’indebitamento privato (famiglie ed imprese) e pubblico (stato ed
enti pubblici). La questione coinvolge sia l'equilibrio del sistema sia
la natura stessa del potere.
In altri termini, la variabile quantità di moneta, che dal modello
appare neutra, nasconde una distribuzione ineguale delle risorse
finanziarie che incide in maniera determinante sia sulla qualità che
sulla misura della domanda complessiva.
Immaginate che qualcuno vi proponga un lavoro, una casa ed
anche i soldi per mangiare e per gli svaghi. Ne sareste felicissimi,
credo. Dopodiché scoprite che i soldi che vi da per il vostro lavoro
sono meno di quelli che vi servono per vivere, per cui ogni mese
vi indebitate un po’ di più e su questo debito pagate anche interessi
che aumentano il vostro indebitamento. E’ ragionevole ritenere che la
vostra felicità scomparirebbe immediatamente?
Un film degli anni settanta proponeva un tema simile ambientato in una
piantagione del sud degli Stati Uniti.
Il protagonista, vedovo con due figli piccoli, è alla ricerca di un
lavoro e di una sistemazione decente. Capita in un’azienda agricola
dove cercano dei lavoranti. Gli viene proposto uno stipendio di mille
dollari al mese (incredibilmente alto), la casa, l’alimentazione, la
macchina, gli svaghi e la scuola per i figli.
Lui trova le condizioni che gli vengono proposte straordinariamente
soddisfacenti, e si mette alacremente al lavoro. Per la verità, la casa
è una stamberga invivibile, l’automobile uno scassone inguidabile, il
mangiare fa schifo e gli svaghi sono inesistenti, ma non si può andare
troppo per il sottile nella sua situazione.
Alla fine del mese la sorpresina. Eh già, perché quando
va a ritirare lo stipendio. dopo un mese di duro lavoro, gli viene detto
che al suo stipendio di mille dollari devono essere detratti 600 dollari
per l’alloggio, 400 dollari per il vitto ed altri 400 dollari per la
macchina, le bevande e gli svaghi (il whisky era un po’ caro).
Insomma, dopo un mese di duro lavoro, non solo non aveva guadagnato
nulla ma era debitore in totale di 400 dollari. Nel film, come era
prevedibile, la questione è finita a pistolettate.
Nel mondo sta accadendo la stessa cosa, ma stranamente nessuno se ne
lamenta. Il debito pubblico dello Stato aumenta ogni anno in termini
assoluti. Ciò che si riduce e su cui si interviene, è il deficit
pubblico, che è uno degli elementi che determina il tasso di crescita
del debito[2].
All’aumento della massa finanziaria per mezzo
dell’indebitamento, corrisponde un impoverimento della popolazione e
non un suo arricchimento.
In effetti, nel mondo occidentale, si sta verificando una crescita
dell’impoverimento degli strati di popolazione tradizionalmente
poveri, e l’ingresso nella fascia di povertà anche di settori della
classe media.
Infatti, l’aumento della massa finanziaria, comporta un incremento in
termini assoluti degli interessi che sono pagati su tale massa, dato che
le emissioni monetarie avvengono, in pratica, solo per il tramite del
meccanismo di creazione di denaro da parte delle banche. In altre
parole, più si produce con il lavoro e più ci si indebita verso il
sistema finanziario che, invece di essere di stimolo per le attività
produttive, per le dimensioni che ha raggiunto è diventato una palla al
piede del sistema economico. Per questa ragione, chi non possiede
strumenti finanziari, e vive solo di lavoro, diventa necessariamente più
povero, mentre chi possiede strumenti finanziari diventa allo stesso
tempo più ricco.
Un esempio illuminante del vicolo cieco in cui si è
cacciato il sistema, è dato dal particolare meccanismo di emissione di
titoli di debito in deficit pubblico.
In pratica, il deficit pubblico consiste nella quantità di denaro
necessaria per coprire le spese dello Stato che non sono assicurate dai
ricavi della fiscalità complessiva.
Le emissioni in deficit pubblico devono essere commisurate al prodotto
interno lordo. Per gli accordi di Maastricht, il requisito essenziale
per entrare nell’ambito della moneta unica è che il deficit pubblico
non superi annualmente il 3% del PIL. Negli anni passati questa
percentuale è stata anche molto più alta, fino ad oltre il 12% in
momenti di gravi difficoltà per lo Stato italiano.
La perversione consiste nel fatto che tali emissioni
vengono calcolate sulla base di quanto prodotto dai cittadini, ma non
vengono erogate a favore di coloro che con il proprio lavoro ne hanno
consentito l’emissione.
Al contrario, vengono poste a loro carico. Infatti, le emissioni in
deficit pubblico vanno ad aggravare il debito pubblico e questo si
scarica prima o poi sulla fiscalità ordinaria.
Con l’assurda conseguenza che più si produce e più ci si indebita in
termini assoluti. In effetti, il debito pubblico dello Stato italiano ha
raggiunto nel 2000 la rispettabile cifra di 2.500.000 miliardi.
Per fare fronte a questa cifra spaventosa, gli italiani
dovrebbero lavorare per oltre dieci anni senza tenere nulla per sé,
vale a dire senza mangiare senza bere, senza tempo libero, senza fare
figli, stando attenti persino a respirare.
Capite qual è l’assurdo? Che un gruppo di signori, ignoti ma non
tanto, che detiene la maggior parte di questa ricchezza finanziaria non
solo usufruisce di ricchezze spaventose, ma soprattutto ha il potere di
decidere della vita e della morte di intere popolazioni sulle quali
esercita il potere per mezzo del debito.
Il meccanismo si risolve in una sottrazione di ricchezza
alla popolazione che non usufruisce di ritorni dal mondo della finanza.
E questo, ovviamente, aumenta il divario tra ricchi e poveri.
La seconda cosa che il modello nasconde, è che per
mantenere la crescita del sistema, è necessario un tasso di
fiscalizzazione crescente, ovvero, in alternativa, un indebitamento
pubblico crescente.
Anche se cercano di spacciarlo per un sintomo di ricchezza, l’aumento
delle tasse comporta da sempre una diminuzione della ricchezza
soprattutto per le classi più povere.
Vi faccio un esempio concreto.
Una mia giovane amica con cui ogni tanto condivido i viaggi da
pendolare, lavora come impiegata presso un’agenzia di viaggi romana.
Com’è noto, è fortunata ad avere un lavoro di questi tempi. Per otto
ore di lavoro che diventano dieci e più sommando i tempi del
pendolarismo, guadagna, lorde in busta, 2.400.000 il mese, che si
riducono ad un milione e mezzo per effetto delle varie ritenute.
E’ innegabile che sia un buono stipendio, dati i tempi,
però lei fatica ad arrivare alla fine del mese, pur spendendo solo lo
stretto indispensabile per vivere. Vorrebbe sposarsi, ma il fidanzato
guadagna più o meno come lei e in due hanno difficoltà a mettere da
parte qualche soldo per la festa, il viaggio di nozze, i mobili, la
cucina e magari pensare di fare qualche figlio. Figuriamoci per comprare
casa!
Riflettendo sulle tasse, lei ha fatto questo ragionamento. Il mio
stipendio lordo è di 2.400.000 lire, che è quanto il mio datore di
lavoro spende, ma a me arriva in tasca solo un milione e mezzo.
Non ho però finito con ciò di pagare tasse, dato che
qualunque cosa acquisti, dalla benzina ai vestiti, dal pane alla luce
elettrica, anche se mi è strettamente indispensabile per vivere e
lavorare, è a sua volta gravata di tasse, e non certo in misura
irrisoria. Con l’Iva al 20% praticamente su tutto e le altre tasse ed
accise sulla produzione e sul lavoro, il prezzo di ogni bene è formato
per almeno il 50% da tasse, dato che com’è noto le imprese scaricano
sui prezzi le tasse che pagano.
La mia amica conclude che il suo stipendio è quindi gravato da tasse
per oltre il 70%.
Se la volete leggere in termini temporali, lei lavora per lo Stato da
gennaio fino a settembre inoltrato, e tutto ciò solo per avere il
diritto di ottenere lo stretto necessario per vivere.
Se volesse comprare casa, dovrebbe indebitarsi, accendendo
un mutuo con una banca e gravandosi dei relativi interessi che ne
diminuirebbero ulteriormente il tenore di vita già ai limiti della
povertà. Per colmo d’ironia, questa ragazza è considerata nel comune
modo di sentire, una persona fortunata!
All’estremo opposto, vediamo quello che può accadere ad una persona
che abbia duecento milioni da investire e che sia disposto a perderli
senza subire gravi conseguenze.
Duecento milioni è una cifra relativamente modesta su un mercato, come
quello italiano, in cui ogni giorno si trattano cinquemila miliardi di
lire e ancora di più su quello americano, dove ogni giorno le azioni
trattate assommano a quattro milioni di miliardi di lire.
Il nostro investitore fa le sue brave considerazioni e poi
sceglie di investire su un titolo che gli sembra buono. Ne acquista
cento azioni a cento dollari, spendendo circa 23 milioni.
Il giorno dopo, il titolo in questione scende violentemente del 20%. Non
è una follia, è quello che accade quotidianamente a centinaia di
titoli sul mercato americano. A fine seduta il nostro investitore
acquista duecento azioni a 80 dollari, spendendo altri 36 milioni.
Il giorno successivo, però il titolo continua a scendere, e ancora
nella percentuale record del 20%. I tecnici di borsa direbbero che il
titolo si trova in una situazione di ipervenduto.
Il nostro non si perde d’animo e acquista adesso 400 azioni a 64
dollari l’una, spendendo 58 milioni. In totale il nostro ha investito
118.680.000 lire e possiede adesso 700 azioni del titolo. E’ altamente
probabile che a questo punto il titolo risalga con altrettanta violenza,
anche se in genere si attesta al di sotto del livello da cui è partita
la discesa.
E’ sufficiente che il titolo del nostro investitore
arrivi a 85 dollari perché lui guadagni in pochi giorni, sull’intero
investimento 18 milioni, ovvero proprio lo stipendio che la mia amica
pendolare riceve per un anno di lavoro.
E se il titolo dovesse scendere ancora, il nostro è pronto ad
effettuare nuove mediazioni al ribasso. Se poi il titolo dovesse
crollare i casi sono due: o è la fine del capitalismo finanziario, e
allora i soldi non servono più a nessuno, né all’investitore né
all’impiegata, o la scelta del titolo era clamorosamente sbagliata ed
allora, incassate le perdite, il giochetto si può ripetere su altri
titoli.
D’altra parte avevamo presupposto che per fare questa
attività è necessario disporre di denari che si è disposti a perdere.
Se poi il titolo che il nostro ha acquistato all’inizio della storia
sale, invece di scendere, allora lui dopo un po’ vende ed incassa,
passando ad un’altra operazione.
Non crediate che siano pochi fortunati a fare questa attività. Nel
mondo occidentale, sono ormai decine di milioni le persone che svolgono
attività di borsa per proprio conto dalla quale traggono proventi
maggiori di quelli che ricevono dal lavoro.
Il 70% delle famiglie americane ha denari in titoli o fondi di
investimento che hanno avuto una redditività media superiore al 20%
negli ultimi cinque anni. Insomma cento milioni ne rendono venti
l’anno, senza far nulla e con le tasse pagate.
Ah già, le tasse. Sapete quanto paga di tasse il nostro
investitore sui diciotto milioni che ha guadagnato con il giochetto di
cui parlavamo prima? Una cedolare secca del 12,5% e senza dover fare né
dichiarazioni né gli altri complicati calcoli richiesti dalla normale
dichiarazione dei redditi, dato che fa tutto
E vi viene in soccorso la statistica, per la quale negli ultimi 30 anni
la redditività dei titoli in borsa è stata in media del 16% netto
l’anno. Applicandola al nostro esempio di chi possiede duecento
milioni, questi ne ricaverebbe ben trentadue l’anno, tasse pagate ed
escludendo l’inflazione. Vale a dire, quasi il doppio di quello che
riceve la mia amica per le sue otto ore di lavoro oltre alle due o tre
di trasporto.
Un vecchio detto popolare sostiene che i soldi vanno a chi
già ce li ha e questo meccanismo di funzionamento della borsa ne è
appunto una riprova.
In altri termini, ciò che produce ricchezza è l’attività
finanziaria che cresce a tassi compresi tra tre e quattro volte quelli
dell’economia reale.
C’è, però, un piccolo particolare spesso dimenticato quando si parla
di queste cose. Il particolare è che la ricchezza finanziaria non
produce nulla, se non pezzi di carta e adesso bytes di memoria sui
computer.
Perciò, chi si è arricchito per il tramite della finanza, deve
togliere ricchezza a coloro che questa ricchezza l’hanno prodotta con
il proprio lavoro.
Non solo. Se la ricchezza finanziaria continua a crescere a
tassi superiori a quelli di crescita della ricchezza reale, alla fine ci
saranno un’infinità di pezzi di carta che gireranno sempre più
velocemente tra la gente ed a valori sempre più variabili.
Eh già, perché più aumenta la quantità di mezzi finanziari, più
cresce la loro velocità di circolazione e maggiori diventano le
oscillazioni tra i prezzi. L’enorme massa di strumenti finanziari si
risolve in una definitiva perdita di correlazione tra il prezzo delle
azioni o il valore nominale dei titoli, e l’effettiva attività delle
aziende.
I prezzi dei titoli, come di qualunque altro bene che sta
sul mercato, dipendono dalla domanda e dall’offerta. Poiché la
crescita degli strumenti finanziari è maggiore della crescita della
produzione, le transazioni relative agli stessi strumenti finanziari
finiscono per diventare preponderanti nel sistema economico, e questa
preponderanza tende a crescere in misura esponenziale, dato che essa
stessa diventa uno strumento finanziario. Alla base di questa
riflessione è il dato della continua nascita di nuovi strumenti
finanziari, soprattutto derivati dai principali, che ha caratterizzato
le attività finanziarie dell’ultimo decennio.
Ma questa crescita dell’area finanziaria avviene a discapito della
produzione economica che è gravata da un indebitamento crescente dal
quale non può liberarsi se non per mezzo di una distruzione di buona
parte della massa finanziaria. Oltretutto, alla crescita degli strumenti
finanziari non si accompagna una loro distribuzione equa, o quantomeno,
non tanto squilibrata.
In conseguenza di questo squilibrio, la domanda non riesce
a crescere in maniera congrua, poiché comunque le innovazioni tecnologiche hanno
portato nuova linfa nella produzione.
Come nel 1929, quando il mondo sperimentò le delizie della crisi di
sovrapproduzione, anche oggi ci si trova di fronte allo stesso pericolo.
Allora, come oggi, le innovazioni tecnologiche spinsero la produzione a
livelli mai raggiunti prima. Allora, come oggi, la distribuzione delle
risorse finanziarie era ineguale. Ne seguì un’improvvisa caduta della
domanda ed una profonda crisi dalla quale i paesi occidentali uscirono
solo nel dopoguerra.
Uno dei primi a trovare una soluzione al problema della
debolezza della domanda fu Henry Ford, che pure, nei primi tempi della
crisi, aveva reagito con ottusa durezza alle proteste ed alle iniziative
degli operai e del sindacato contro la chiusura degli stabilimenti di
produzione.
Prima della crisi, la produzione della Ford era rivolta soprattutto ad
una fascia di acquirenti medio alta, dati i prezzi delle automobili
prodotte dall’azienda. Ford pensò di introdurre modifiche ai modelli
ed al ciclo di produzione tali da abbassarne in maniera consistente il
prezzo di produzione ed allo stesso tempo alzare enormemente la quantità
di unità prodotte, cosicché fosse possibile vendere le automobili ad
un pubblico più ampio, compresi gli stessi operai della sua fabbrica.
Nel 1935 lanciò l’obiettivo di produrre un milione di automobili in
quell’anno, e finalmente, dopo tanti anni di recessione, assunse molti
nuovi operai, cui propose di acquistare l’automobile a rate.
Nacque in questo modo empirico l’economia fondata sul
debito al consumo, dato che l’esempio di Ford fu ben presto seguito
dalla maggior parte dei proprietari delle altre aziende. Soprattutto nel
dopoguerra, milioni di famiglie americane, così come milioni di
famiglie europee, furono indotte ad acquistare ogni sorta di beni di
consumo utilizzando i crediti che venivano erogati da Banche,
finanziarie o dalle stesse aziende di produzione.
6)
La finanza del debito
L’economia fondata sul debito ci sta portando verso una
nuova crisi, poiché appare sempre più chiaro che questo debito non
solo non potrà mai essere pagato, ma che esso cresce in misura maggiore
dell’economia reale.
Com'è noto, in tutti i tempi ed a tutte le latitudini, un eccesso di
massa monetaria rispetto alla quantità dei beni in circolazione produce
inflazione. Lo strumento tradizionalmente usato per ridurre la crescita
della massa monetaria, è il rialzo dei tassi di interesse, che genera
una contrazione del credito. Le banche, infatti, creano denaro per mezzo
della concessioni di linee di credito a imprese, famiglie ed enti
pubblici.
A questa massa monetaria creata dalla banche si aggiunge la
massa dei titoli di credito creati dallo Stato a fronte del debito
pubblico e per la copertura delle politiche di deficit pubblico, nonché
quella creata dai privati per mezzo di obbligazioni o titoli (c'è anche
da considerare la circolazione semi illecita, quale quella degli assegni
postdatati, cambiali, tratte e ricevute bancarie).
Si tratta di strumenti finanziari che hanno un'origine diversa, ma da
tempo tutti questi strumenti svolgono una funzione monetaria checché ne
dicano l'Istat e
A questi strumenti, dobbiamo aggiungere sia le azioni, la
cui funzione monetaria è sempre più rilevante, sia i derivati la cui
elasticità ne consente l'uso monetario in determinate circostanze. Sui
derivati gira la favola che essi siano un giochino a somma zero, nel
senso che le Clearing Houses[3]
aprono sempre posizioni equivalenti ma di segno opposto.
Si tratta, appunto di una favola, dato che com'è noto, l'apertura delle
posizioni avviene sul margine e non sul sottostante e quindi, in caso di
forte direzionalità in un senso o nell'altro, l'effetto leva genera
squilibri pesanti nei conti. La chiusura forzata di posizioni indurrebbe
crisi di panico non dissimili da quelle vissute dalle banche fino al
1932.
E, a proposito di derivati, le opzioni, che non hanno posizioni put in
corrispondenza, non sono certo strumenti finanziari a somma zero.
Le dimensioni del fenomeno ci chiariscono i termini della
faccenda. Le banconote in circolazione in Italia sono oltre 50 miliardi
di euro. I depositi bancari a vista e breve sommano oltre 2.600
miliardi, più o meno come i titoli del debito pubblico. Aggiungendo i
titoli emessi da enti pubblici, regioni e comuni, il debito pubblico
complessivo dovrebbe attestarsi intorno ai 1.800 miliardi di euro.
Azioni ed obbligazioni di società quotate sommano circa 1.000 miliardi,
mentre i titoli ed obbligazioni emessi dai privati (dagli assegni
postdatati alle ricevute bancarie) sommavano oltre 1.500 miliardi nel
1998. La maggior parte degli economisti consideravano fino a qualche
anno fa', che i derivati ammontassero a circa il 50% di tutti gli altri
strumenti finanziari, percentuale che a me sembra un po' bassa, ma che,
se presa per buona, porta la somma totale della carta in circolazione in
Italia a circa 8.000 miliardi (la mia stima per il 2000 è di oltre
9.000, con un picco a marzo di circa 9.500).
Ah, dimenticavo le riserve di oro ed altri preziosi, che
attualmente sono di poco superiori ai 24 miliardi di euro, ovvero circa
lo 0,25% del totale dei pezzi di carta, alla faccia della convertibilità
stampata sulle nostre banconote!
E' proprio l'inesigibilità (nel senso dell'inconvertibilità) degli
strumenti finanziari (se non tra loro) che ci induce a ritenere che
tutti svolgano la stessa funzione, che si risolve alla fine in una
funzione monetaria dalla maggiore o minore elasticità.
Nel senso che non posso andare a comprare con i BOT le sigarette, ma
certo ci compro un appartamento. D'altra parte, se porto da un notaio un
camion di 20 tonnellate di monetine da cento per pagare 200 milioni di
lire per un appartamento, è presumibile che riaprano un manicomio per
rinchiudermi dentro.
Sempre più spesso, per l'acquisto di aziende, società
quotate in borsa e non emettono proprie azioni fissando il rapporto di concambio
con quelle dell’azienda acquistata.
In questo caso le azioni svolgono una funzione monetaria né più né
meno dei BOT o degli assegni circolari.
A fronte di questa montagna di carta, il popolo italiano produce più o
meno 1000 miliardi, ovvero il Prodotto Interno Lordo. Sul conteggio del
PIL ci sono un'infinità di obiezioni, ma adesso prendiamo per buono il
dato, depurandolo dalle attività finanziarie che incidono sul PIL per
circa 150 miliardi.
In altri termini, la carta in circolazione è circa tra 9 e
11 volte la produzione nazionale. Non solo: mentre infatti, il PIL
cresce ad un tasso medio inferiore al 2%, la massa finanziaria cresce al
tasso decisamente superiore di oltre il 6%. Da questo diverso tasso di
crescita discendono le preoccupazioni sull'inflazione e le politiche di
tassi alti che, però, abbiamo constatato non risolvere il problema,
dato che il tasso di crescita della massa è maggiore di quello
dell'economia reale, per di più depressa per via dell'alta redditività
delle obbligazioni (pubbliche e private).
Una politica di bassi tassi di interesse nemmeno risolve il problema,
dato che produce un aumento della massa monetaria creata dal sistema
bancario in misura comunque maggiore del tasso di crescita
dell'economia.
Alla fine questa montagna di carta collasserà su sé
stessa bruciando di colpo tutta la ricchezza virtuale e non che essa
rappresenta.
E' questo lo scenario che viene comunemente indicato come
lo scoppio della bolla speculativa, che precipiterà di colpo nel
momento in cui sarà stato raggiunto il limite dell'indebitamento del
sistema.
7)
Lo scenario prossimo venturo
Questa analisi descrive in linea generale un sistema
economico che cresce sul debito, qual è quello che si è venuto
determinando dal 15 agosto 1971, data in cui Nixon proclamò
l'abrogazione unilaterale degli accordi di Bretton Woods. Quegli accordi
prevedevano la convertibilità di tutte le monete nel dollaro e la
convertibilità di questo nell'oro. Prevedevano, anche, l'istituzione
del FMI come strumento per il controllo e l'intervento finanziario
diretto al sostegno dei livelli dei cambi decisi nell'ambito politico.
Com'era presumibile, il FMI ha svolto un ruolo politico essenziale per
il mantenimento degli assetti di potere usciti da Yalta, mentre la
sostanza del potere, all'interno dei singoli paesi, era determinata
dalla gestione del credito nei confronti di pubblico e privato.
Qual è il rischio in questa situazione?
Che all’improvviso, l’impossibilità di far crescere ulteriormente
l’economia sul debito, ovvero le difficoltà della gente comune e
delle imprese, nonché degli Stati, di contrarre altri debiti determini
una brusca caduta della domanda, proprio in un momento in cui il
sistema, spinto verso nuovi livelli di produttività dalle attività
della nuova economia, ne ha più bisogno. I tassi di crescita
presupposti dalle produzioni della nuova economia sono formidabili. Con
tutti i freni che la politica monetarista di Greenspan ha imposto agli
USA negli ultimi anni a colpi di rialzi dei tassi di interesse,
l’economia americana è cresciuta ad un tasso superiore al 5%
all’anno, alla faccia dei menagramo che ritenevano illusorio un tasso
del 4%.
Questo è potuto accadere per le peculiari caratteristiche
delle produzioni della nuova economia di cui parleremo in seguito. Resta
il fatto che il monetarismo, figlio di questo sistema di gestione della
ricchezza finanziaria, ha necessità di ridurre i tassi di crescita dato
che altrimenti il sistema rischia di generare un’inflazione
incontrollabile.
Le cause di questa inflazione sono dovute alla crescita della massa
finanziaria maggiore di quella dell’economia, ed abbiamo visto che non
c’è modo di arrestarla, né alzando né abbassando i tassi di
interesse. In entrambi i casi, infatti, la massa finanziaria continua a
crescere o per il verso del debito pubblico o per quello del debito
privato.
Questi elencati di seguito sono, in sintesi, i punti deboli del sistema:
1) La crescita del debito pubblico non è più tollerabile,
anche se è continuata imperterrita negli ultimi dieci anni
2) Il livello di indebitamento delle famiglie sta spingendo
fasce crescenti di popolazione in condizioni di povertà in tutti i
paesi occidentali, USA compresi, il che rende, tra l'altro, ridicole
certe cifre sull'occupazione e la crescita economica.
3) L'incremento esponenziale dell'immigrazione, ovvero di
gente alla ricerca di condizioni accettabili di vita (non sanno quello
che trovano qui), indice dell'impoverimento crescente nel terzo mondo.
4) L'estrema volatilità dei mercati finanziari, nonché
l'estrema sensibilità dell'economia reale alle manovre sui tassi (la
caduta del PIL USA nell’ultimo semestre del 2000 dal +5.4% di giugno
allo 0.9% di dicembre è estremamente significativa).
5) L'enorme potenzialità produttiva della new economy a
fronte della quale c'è una domanda sempre più debole, ai limiti della
recessione. In questo contesto una crisi improvvisa di sovrapproduzione
diventa probabile.
6) L'assoluta mancanza di chiarezza tra economisti,
politici, operatori finanziari e banche centrali sulla gravità della
situazione e sui rimedi possibili. Chi mette in guardia sui pericoli
viene tacciato, nella migliore delle ipotesi, di essere uno iettatore,
come accadde nel
Dal lato dei politici, non mi stancherò mai di ricordare
le ottimistiche previsioni di crescita e sviluppo formulate dal
Presidente americano Coolidge nel suo discorso sullo stato dell'Unione
del dicembre
I segnali che stanno giungendo da tutto il mondo sono di un
rallentamento delle attività dell’economia reale e di un aumento
della povertà in tutto il mondo, mentre i PIL continuano a salire in
alcuni paesi in maniera consistente.
E’ chiaro che si tratta di segnali contraddittori, poiché alla
crescita del PIL dovrebbe corrispondere un miglioramento delle
condizioni di vita delle popolazioni. Ma così non è, per la semplice
ragione che quell’incremento del PIL tiene conto di attività
finanziarie che, non solo non migliorano la vita della gente, ma al
contrario ne determinano un aumento della povertà.
I segnali, peraltro ci dicono che la soluzione giusta, oltre che da un
punto di vista etico anche da un punto di vista di mera convenienza
economica, è quella di una maggiore distribuzione della ricchezza
finanziaria e di una sua omogeneizzazione con la crescita
dell’economia reale al fine di evitarne l’esplosione.
L’unico strumento che ci consente di effettuare una
manovra del genere è quello fiscale. In altri termini è necessario
ridurre le tasse sulle attività dell’economia reale e spostare il
peso fiscale sull’economia finanziaria. Allo stesso tempo, è
necessario distribuire ricchezza finanziaria in maniera equa,
riconsiderando il ruolo di essa nell’economia.
Date le proporzioni tra le attività finanziarie e quelle
dell’economia reale, lo spostamento può avvenire in tempi
relativamente brevi ed in maniera pressoché indolore[5].
Ho ipotizzato che in cinque anni si possono detassare completamente le
attività economiche e spostare tutte le imposte sulle attività
finanziarie senza provocare crolli dei mercati azionari né fughe di
capitali dai paesi che adottassero provvedimenti del genere.
Una considerazione finale. Anche nel 1929, nessuno pensava
che gente come Charles Mitchell o Richard Whitney o Ivan Kreuger o
Goldman e Sachs, si facessero scippare il giocattolo dalle mani. Chi
erano costoro? Appunto i Gates, i Colaninno, i Whiteman, i Soru
dell'epoca.
Purtroppo non è andata così. Il giocattolo si è rotto. E le
dichiarazioni di un economista famoso ed indubbiamente capace come
Irving Fisher, che nell'autunno del 1929, pochi giorni prima del crollo,
disse testualmente; "I corsi delle azioni hanno raggiunto quello
che sembra un livello permanentemente elevato" ci spiegano
perché la caduta fu così dura.
Domenico De Simone - http://www.youtube.com/user/domenicods
[1]
Questo per l’ovvia ragione di non indurre la massa
monetaria ad esercitare una pressione sui prezzi che genererebbe un
aumento dei costi e, quindi, inflazione.
[2]
Il debito pubblico è la somma dei debiti dello Stato e degli
Enti pubblici non economici. Il deficit pubblico è l’importo che
deve essere annualmente finanziato per coprire il disava
nzo dei conti dello Stato, disavanzo che nasce da un eccesso di
spesa rispetto alle entrate ordinarie.
[3]
Le Clearing Houses sono le stanze di compensazione dei
prodotti derivati. Il loro compito consiste nel verificare la
corrispondenza di posizioni in attivo con le posizioni in passivo su
qualunque titolo trattato.
[4]
Il Presidente americano Coolidge, nel suo messaggio al popolo
americano sullo stato dell'Unione, alla fine del 1928, scriveva
testualmente: "Nessun
Congresso degli Stati Uniti si era mai trovato di fronte, esaminando
lo stato dell'Unione, a prospettive più rosee di quelle che si
annunciano in questo momento. Sul piano interno c'è tranquillità e
soddisfazione… e una serie di record di anni prosperi".
J. Kenneth Galbraith, The Great crash, 1929, Houghton Mifflin Co., Boston
[5]
cfr D. de Simone Un milione al mese a tutti subito!
op cit.