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Economia:
disastro imminente?
A cura di Maurizio Blondet
Pubblicato dalla casa editrice Effedieffe www.effedieffe.com
La caduta di tutte
le Borse asiatiche – a cominciare da Tokio – e di tutte le Borse
europee annuncia l’apocalisse del capitalismo finanziario?
Certo è che la fuga dalle
azioni denuncia una improvvisa “avversione al rischio”, per
non dire panico, fra speculatori e investitori. Tale fuga ha provocato
persino un incredibile (e temporaneo) rialzo del dollaro rispetto alle
valute asiatiche, perché la speculazione ha svenduto azioni in Asia e
ha comprato in massa Buoni del Tesoro americani: nell’illusione che
siano più sicuri. Illusione a tutti nota, perché nessuno ignora che
gli Usa sono il Paese più indebitato della storia, e virtualmente
insolvente.
Ma dove mettere al sicuro il denaro rovente della speculazione? Non
nell’euro: difatti la domanda di euro è caduta con le Borse asiatiche
e non è strano, viste le previsioni di crescita zero per l’Europa,
esangue e anemica. Almeno, i Bot del superdebitore mondiale, gli Usa,
sono comparativamente più alti dei tisici interessi europei. Ma un
indebitato che offre interessi alti rivela che il denaro altrui ormai
gli necessita come una droga, e che la sua reputazione è scossa.
La grande finanza globale si trova di colpo a barcollare senza appigli,
senza punti fermi. Il fatto che si rifugi nei dollari è solo l’indice
paradossale del suo terrore.
E
non è il solo paradosso, in questa imminente resa dei conti.
A Tokio, sono cadute tragicamente proprio le azioni di tutte le imprese
di navigazione, acciaio, trasporti e viaggi che stanno avvantaggiandosi
dell’impetuoso boom economico della Cina. Nippon Steel è caduta del
3,9%, Toyota del 2,8 %, Sony del 5%; Kinki Nippon Tourist (grande
agenzia di viaggi) è scesa del 6.3 %, la Taiyo Yuden Co. (componenti
elettronici) del 5,2%, e via precipitando.
Ma perché se queste imprese vanno bene, e se il loro cliente, la Cina,
chiede sempre più materie prime, componenti semilavorati, trasporti,
servizi, merci finite?
Il fatto è che la Cina prospera, perché vende soprattutto le sue
carabattole agli Stati Uniti. E finché riuscirà a rifilargliele. Ma il
deficit commerciale americano, ormai al ritmo di 60 miliardi di dollari
al mese, ha toccato record mai visti.
Gli Usa comprano a credito, perché gli americani non hanno soldi da
parte. E chi glieli presta?
La Cina, acquistando Bot americani col suo surplus di dollari. La Cina
ha un avanzo commerciale verso gli Usa che tocca 167 miliardi di
dollari. L’America un deficit commerciale che tocca ormai i 720
miliardi di dollari.
“La
più ineguale relazione commerciale della storia umana”,
dice un esperto di commercio estero, Charles McMillion. Non può durare.
E infatti, è bastato un rallentamento dei consumi americani a scatenare
il panico, la fuga folle dalle azioni di aziende di successo. Perché
ormai, nella patologica economia Usa, sono i consumi delle famiglie
americane a contare per i due terzi del prodotto interno lordo. Non la
produzione di merci e servizi, non l’esportazione, la vendita, la
manifattura: il puro e semplice consumo. L’America non fabbrica nulla
e importa tutto, persino le scarpe dei soldati che spedisce nelle sue
guerre nel mondo sono Made in Cina. A credito, per di più.
E’ il capolinea dell’ideologia del libero mercato planetario, delle
frontiere aperte a capitali e merci, dell’abolizione dei dazi in tutto
il mondo, del calcolo dei profitti in termini puramente monetari, la “finanziarizzazione”
dell’economia.
La dottrina di Adam Smith ( “Anziché produrre le proprie merci,
acquistatele dai paesi che le producono a prezzo inferiore”)
rivela la sua faccia feroce: la rovina globale dietro l’angolo,
l’alluvione di merci destinate a Paesi il cui potere d’acquisto
cala, per cui finiranno per restare invendute.
Che l’assenza di dazi crei prosperità si sta rivelando il grande
falso del secolo.
L’America
crebbe del 4% l’anno per 50 anni continui quando, sotto le presidenze
da Lincoln a Teddy Roosevelt, imponeva dazi medi del 40% sulle merci
importate dall’estero; oggi l’America declina in regime di commercio
ultralibero.
La Germania dal 1870 al 1914 è cresciuta sana e forte in regime
protezionista, così come il Giappone dal 1950 al 1990.
Non
a torto, oggi Hillary Clinton propone dazi del 27 % sulle merci cinesi.
L’ortodossia ideologica liberista sta per essere rovesciata. Come
accade nella grandi rovinose crisi, si cambia binario: ma dopo aver
pagato il prezzo del disastro.
Chi e come lo pagherà?
In teoria, ciò che ci attende dovrebbe essere la deflazione: prezzi in
calo di tutto, perché le merci cinesi sono troppo abbondanti per il
nostro potere d’acquisto di occidentali, in calo epocale.
Ma in questi anni e ancor più negli ultimi mesi e giorni, la Banca
Centrale Usa ha stampato trilioni di dollari per pagare i debiti
americani: carta svalutata, la gigantesca molla di una inflazione
esplosiva.
Da una parte, il rischio di un oceano di merci invendute. Dall’altra,
il pericolo di un’alluvione di dollari, oggi in mano a cinesi e paesi
petroliferi, che possono – al minimo accenno di calo – proiettarsi
in Usa per fare man bassa, a qualsiasi prezzo, di qualsiasi merce
disponibile, perché ogni merce è più sicura di pacchi di
dollari-carta senza valore.
Rischio
di deflazione estrema, o di estrema inflazione. Impossibile dire quale
prevarrà, perché è la prima volta che una simile patologia si
presenta nella storia, grazie al “libero mercato globale” e alla
sottrazione di ogni aggancio reale (oro) alle valute. I due fenomeni,
concettualmente opposti, potrebbero persino sommarsi e presentarsi
assieme. In fondo è già quello che avviene: la benzina e il cibo
rincarano, i telefonini e computer calano di prezzo.
La sola cosa certa è che il punto di rottura è imminente.
In Italia, l’occhio esercitato coglie già le prime fratture.
Solo due dati: gli ingenui neoricchi brianzoli e del nord-est, che sono
corsi a comprarsi i SUV (“sport utility vehicle”) – tipicamente la
Porsche Cayenne da 110 mila euro – stanno rivendendoli al
concessionario Bepi Koelliker, perché non ce la fanno a mantenerli
(bollo, benzina, assicurazione).
Koelliker
ricompra le Porsche Cayenne a 35 mila euro e non ci fa un affare, perché
è dubbio che troverà altri fessi cui rivenderla. Secondo dato: un
numero enorme di mutui-casa, si dice il 60% di quelli accesi in Italia,
è in ritardo di pagamenti. In teoria, le banche possono rivalersi
reclamando la proprietà della casa del debitore insolvente, ipotecata
dal mutuo.
Esitano a farlo, perché dovrebbero poi mettere in vendita quelle case
– decine di migliaia – facendo crollare il mercato immobiliare oggi
fantasticamente inflazionato. Così, prolungano il credito ai poveri
insolventi, sperando che rientrino.
Ma
molti non rientreranno: stiamo tutti sperimentando il calo di potere
d’acquisto. Fra poco, molte case pignorate saranno messe in vendita, a
prezzi più che convenienti. Troveranno compratori?
Sono segni premonitori di deflazione. Sono segni di apocalisse
imminente.