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Lettera
a una devolution mai nata
di Rosanna Sapori in esclusiva per
Disinformazione.it
31 marzo 2005
Quando
si parla di devolution, si cita spesso e volentieri l’esempio
scozzese. Ma quali sono le condizioni che hanno portato la Scozia ad
affrontare la devolution? Il referendum dell’11 settembre 1997 ha
sancito la necessità di portare a compimento, attraverso la creazione
di un Parlamento, quel processo di riconoscimento dell’identità
scozzese. Già il 12 settembre il premier Blair dichiarava che il
risultato referendario rappresentava un ineluttabile impulso alla
realizzazione dello Stato indipendente della Scozia e tenendo fede alle
promesse elettorali, concesse appunto a Scozia e Galles la possibilità
di ottenere speciali forme di autonomia.
Di
devolution si parla spesso, e a sproposito, anche in Italia. Da noi vige
il vezzo delle parole inglesi e americane usate a iosa
forse solamente per il suono che emettono quando le si
pronunciano: welfare state, governance, authority, antitrust e appunto
devolution.
Di quella tragicomica farsa che da più di vent’anni viene recitata
sul palcoscenico della politica italiana, denominata “La Grande
Riforma” si è chiuso da poco un nuovo atto.
Quello che si è visto nel corso di un ventennio è stato un
dibattito schizofrenico e inconcludente
tutto orientato a perdere tempo per trovare quelle formule che
unissero il più possibile di cambiamenti di facciata e il minimo
possibile di trasformazioni di sostanza. A questa farsa ha assistito
impotente un Paese letteralmente affamato e bisognoso di una radicale
riforma dell’assetto costituzionale, invecchiato e responsabile dei
mali peggiori dei quali ha sofferto la Prima Repubblica e che continuano
tutt’ora: spreco colossale di risorse, corruzione, parassitismo,
perdita di competitività internazionale per le imprese.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione – approvata in fretta e
furia dalla maggioranza di centrosinistra alla fine della scorsa
Legislatura e poi dal referendum confermativo – si è creata una
situazione di caos, un puzzle a incastro di competenze, un insieme
indistricabile di materie concorrenti Stato-Regioni e una conseguente
pioggia di ricorsi alla Consulta. Le conseguenze non potevano che essere
l’avvio del dissesto del sistema istituzionale e la paralisi
dell’azione amministrativa, che tutti i cittadini hanno incominciato a
pagare, accorgendosi dei costi chi più e chi meno, dato che i costi
decisionali hanno provocato dissesti, ritardi, decisioni mancate e
disfunzionalità.
La “devolution” è stata la prosecuzione di questa tendenza. Si
tratta di un’altra forma di decentramento (poche materie e marginali
delegate alle Regioni, legate però finanziariamente al governo
centralizzato) nel tentativo di mettere ordine al complicato intreccio
di competenze lasciato in eredità dalla scardinante riforma del Titolo
V.
Quello
che emerge è un ibrido tragicomico, frutto di compromessi e di
cedimenti su questioni basilari. Dei 52 articoli riformati dal Ddl
costituzionale approvati dal Senato in seconda lettura – chissà come
mai a ridosso delle elezioni regionali – è riemerso lo spostamento
verso il governo centrale di molte materie (alcune delle quali sottratte
alle competenze concorrenti). Se ad esempio l’assistenza e
l’organizzazione sanitaria saranno affidati alle Regioni, lo Stato
dovrà preoccuparsi delle norme generali sulla tutela della salute. In
poche parole le Regioni non possono affatto concorrere alle decisioni
degli organi centrali dello Stato. L’elenco delle materie sulle quali
prevale la legislazione centralizzata è lungo. Lo Stato da Roma
dovrebbe occuparsi perfino dell’esercizio di arti e professioni che
prima invece era attribuito alla competenza concorrente. Anche
sull’ordinamento sportivo nazionale interverrà lo Stato, mentre alle
attività sportive e ricreative, compresi impianti e attrezzature,
dovranno pensare le Regioni. La tanto decantata Polizia regionale è soltanto amministrativa, così come le
norme sull’istruzione che sono e rimarranno di competenza
ministeriale. Nemmeno nel sistema tedesco, caratterizzato da una forma
di regionalismo unitario in decadenza, si ha una simile concezione
dell’istruzione pubblica.
Il
cosiddetto “Senato federale” composto da 252 senatori eletti insieme
ai consigli regionali e provinciali non ha diritto di voto, una sorta di
Camera vuota, senza forza e senza potere. Ma allora a cosa serve?
Si
sono anche spesi numerosi proclami sulla diminuzione dei parlamentari
che passerebbero da 945 a 756, si è fatto credere ai cittadini che con
questa riduzione ci sarà un risparmio notevole per le casse dello
Stato. E’ vero, peccato però che con un'altra legge si sia data alle
Regioni la possibilità di aumentare la composizione dei consigli
regionali, in alcuni casi aumentando il numero dei consiglierei del 50%.
Insomma la politica ha un suo prezzo ed i professionisti della politica
non intendono rinunciarvi, anche questo con un sistema federale è
assolutamente incompatibile. Ne sono espressione l’enfasi posta sull’interesse
nazionale e la sua riduzione a strumento per annullare leggi
regionali considerate lesive di questo principio e l’introduzione
della “clausola di supremazia” che consente allo Stato di
sostituirsi ai poteri locali. Anche se questo “interesse nazionale”
è in qualche modo sempre esistito, adesso diventa assai più micidiale,
perché vengono stabilite procedure e modalità precise per il suo
utilizzo: nel giro di 30 giorni una legge regionale può praticamente
essere cancellata per volontà dello Stato sulla base di una formula
estremamente elastica. Sotto l’”interesse nazionale” si può
mettere e intendere tutto. Una riforma come questa non solo non
assomiglia affatto a una riforma “in senso federale”, ma nemmeno
alla devolution inglese alla quale pretende di ispirarsi. Esistono
riferimenti di sorta nella letteratura e nella realtà dei sistemi
federali esistenti che contemplino un sistema del genere? Ovviamente no,
questa riforma non dà naturalmente vita ad alcun sistema federale. Un
secondo problema fondamentale di queste pseudoriforme è quello di non
fare in alcun modo chiarezza sui conti, sulla provenienza e sulla
destinazione delle risorse. L’accento posto sull’interesse nazionale
deriva proprio da qui: dal fatto di poter godere ancora per molto tempo,
da parte dei beneficiari del sistema, dell’impossibilità di fare
chiarezza sulla contabilità nazionale, sull’origine delle risorse
prelevate, sul dare e sull’avere. Un testo contorto e farraginoso, che
questo non faccia parte di una ben architettata strategia da parte di
politici che hanno sempre avuto tutto da guadagnare dalla
centralizzazione del potere, è molto dubbio. Una delle cose peggiori
però che questa classe politica ancor più della precedente,
indipendentemente dagli schieramenti formalmente contrapposti, lascerà
in eredità alle giovani generazioni sarà, dato il facilmente
prevedibile e inevitabile fallimento di questa riforma, il discredito
che in Italia cadrà sul Federalismo, ritenuto come qualcosa di
irrealizzabile o fonte di gravi problemi. Il termine Federalismo è
stato sganciato totalmente dal suo significato e dalla realtà alla
quale in tutto il mondo fa riferimento. Questa è una delle cose
peggiori che si possano provocare, perché non solo non stimolerà i
giovani a studiarlo, ma li condannerà a cercare ancora per decenni
rimedi ai guasti di uno Stato accentrato e fortemente burocratizzato che
produce quotidianamente spreco e ingiustizie, disfunzioni, corruzione e
criminalità.
*Liberamente tratto da: I Quaderni Padani – bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana