Capitolo
I
Se
non si mette in discussione il prevalente atteggiamento ebraico nei
confronti dei non ebrei, non è dato capire neppure il concetto stesso
di «stato israeliano» (Jewish State),
come Israele preferisce definirsi. La generalizzata mistificazione
che, senza considerare il regime apartheid
dei territori occupati, definisce Israele come una vera democrazia,
nasce dal rifiuto di vedere cosa significa per i non ebrei lo «stato
israeliano». Sono convinto che Israele in quanto Jewish
State è un pericolo non solo per se stesso e per i suoi abitanti,
ma per tutti gli ebrei e per gli altri popoli e stati del Medio Oriente
e anche altrove. Sono altresì convinto che altri stati o entità
politiche del Medio Oriente che si proclamano «arabi» o «musulmani»,
definizioni analoghe a quella di «stato israeliano», rappresentano
anch'essi un pericolo. Comunque mentre di quest'ultimo pericolo tutti ne
parlano, quello implicito nel carattere ebraico dello Stato d'Israele è
sempre taciuto e ignorato. Fin dalla sua fondazione, il concetto che il
nuovo Stato d'Israele era uno «stato israeliano» fu ribadito da tutta
la classe politica e inculcato nella popolazione con ogni mezzo.
Nel
1985, quando una piccola minoranza di ebrei cittadini d'Israele contestò
questo concetto, il Knesset, approvò
a stragrande maggioranza una legge costituzionale che annulla tutte le
altre leggi che non possono esser revocate se non con procedura
eccezionale. Si stabilì che i partiti che si oppongono al principio
dello «stato israeliano», o propongono di modificarlo per via
democratica, non possono presentare candidati da eleggere al Parlamento,
il Knesset.
Personalmente, io mi sono sempre opposto a questo principio
costituzionale e quindi, in uno stato di cui sono cittadino, non posso
appartenere a un partito di cui condivido il programma a cui è vietato
eleggere i suoi, rappresentanti al Knesset.
Basterebbe questo esempio per dimostrare che Israele non è una
democrazia, visto che si fonda sull'ideologia israeliana ad esclusione
non solo di tutti i non ebrei ma anche di noi ebrei, cittadini
d'Israele, che non siamo disposti a condividerlo.
Comunque il pericolo rappresentato da questa ideologia dominante non si
limita agli affari interni, ma permea di sé tutta la politica estera
d'Israele. E tale pericolo sarà sempre maggiore via via che il
carattere israelitico d'Israele si accentuerà sempre più e crescerà
il suo potere, particolarmente quello nucleare. Un'altra ragione per
preoccuparsi è l'aumentata influenza d'Israele sulla classe politica
degli Stati Uniti e per questi motivi oggi non è solo importante ma,
addirittura politicamente vitale, documentare gli sviluppi del giudaismo
e specialmente il modo di trattare i non ebrei da parte d'Israele.
Consideriamo la definizione ufficiale del termine «israeliano», che
chiarisce la differenza di fondo tra Israele come «stato israeliano» e
la maggioranza degli altri stati. Dunque, secondo la definizione
ufficiale, Israele «appartiene» solo a quelle persone che le autorità
israeliane definiscono appunto «israeliane», indipendentemente da dove
vivono. Al contrario, Israele non «appartiene» giuridicamente ai suoi
cittadini non ebrei, la cui condizione è ufficialmente considerata
inferiore.
In realtà, questo vuol dire che se i membri di una tribù peruviana si
convertono al giudaismo e così sono definiti e considerati, come ebrei
hanno immediatamente diritto alla cittadinanza israeliana e a sistemarsi
in circa il 70% delle terre occupate del West Bank, e nel 92% dell'area
vera e propria d'Israele, destinate all'uso dei cittadini ebrei. A tutti
i non ebrei, e quindi non soltanto ai palestinesi, è proibito usufruire
di queste terre, e il divieto riguarda persino i cittadini arabi
d'Israele che hanno combattuto nell'esercito israeliano e raggiunto
anche gradi assai elevati.
Alcuni anni fa, scoppiò il caso dei peruviani convertiti al giudaismo.
Ad essi furono assegnate terre nel West Bank vicino a Nablus, zona da
cui sono esclusi i non ebrei. Tutti i governi d'Israele sono stati e
sono pronti ad affrontare qualsiasi rischio politico, tra cui la guerra,
perché gli insediamenti del West Bank restino sotto la giurisdizione «israeliana»
come è affermato continuamente nei media, che sanno perfettamente di
diffondere una menzogna, decisiva a coprire l'ambiguità discriminatoria
dei termini «ebreo» e «israeliano».
Sono sicuro che gli ebrei americani o britannici accuserebbero subito
di antisemitismo i governi degli Stati Uniti, o dell'Inghilterra, se
questi decidessero di definirsi «stati cristiani», cioè stati che «appartengono»
solo a cittadini definiti ufficialmente «cristiani». Conseguenza di
una simile dottrina sarebbe che, solo se si convertissero al cristianesimo,
gli ebrei diventerebbero cittadini a pieno diritto e, non
dimentichiamolo mai, proprio gli ebrei, forti dell'esperienza di tutta
la loro storia, sanno quanto grandi fossero i benefici per chi si
convertiva al cristianesimo.
In
passato, quando gli stati cristiani, e islamici, discriminavano quelle
persone, compresi gli ebrei, che non seguivano la religione dello stato,
bastava convertirsi per essere accettati come tutti gli altri. La
discriminazione che lo Stato d'Israele sanziona nei confronti di tutti i
non ebrei cessa nel momento in cui quelle persone si convertono al
giudaismo, e sono riconosciute come tali. Ciò vuol dire che lo stesso
genere di esclusivismo che gli ebrei della diaspora denunciano come
antisemitismo è fatto proprio dalla maggioranza di tutti gli ebrei,
come principio ebraico. Chi, tra di noi, si oppone sia all'antisemitismo
che allo sciovinismo ebraico è accusato di essere affetto dall'odio di
sé, concetto che ritengo assolutamente privo di senso.§
Nel contesto della politica israeliana il significato del termine «ebraico»
(Jewish) e dei suoi derivati
ha la stessa importanza del termine «islamico» così com'è
ufficialmente usato in Iran o anche del termine «comunista» com'era
stato ufficializzato nell'URSS. Comunque, il significato di Jewish
non è chiaro né nella lingua ebraica né nella traduzione in altre
lingue, per cui il termine ha dovuto esser definito ufficialmente.
Secondo
la legge dello Stato d'Israele è da considerarsi «ebreo» chi ha avuto
una madre, una nonna, una bisnonna e una trisavola ebrea, di religione ebraica, oppure perché si è convertito al giudaismo da
un'altra religione, secondo i criteri riconosciuti e accettati come
legittimi dalle autorità d'Israele. Chi si sia convertito dal giudaismo
a un'altra religione non è più considerato «ebreo». La
prima di queste tre condizioni non è altro che la definizione talmudica
di «chi è ebreo», fondamento di tutta la tradizione ortodossa
ebraica. Anche il Talmud e la legge rabbinica post-talmudica riconoscono
la conversione di un non ebreo al giudaismo, come pure l'acquisto di uno
schiavo non ebreo da parte di un ebreo cui segue una forma diversa di
conversione, come un modo per diventare ebreo, purché la conversione
sia avallata da rabbini autorevoli e autorizzati e si svolga secondo
modalità per essi accettabili. Per quanto riguarda le donne, una di
queste «modalità accettabile» è il rito del «bagno di purificazione»,
durante il quale tre rabbini ispezionano accuratamente la donna nuda.
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La
cosa è ben nota ai lettori delle pubblicazioni in lingua ebraica ma i
media in inglese non ne parlano, anche se sicuramente susciterebbe un
certo interesse. Mi auguro che
questo mio libro, le cui fonti sono tutte in lingua ebraica, possa
essere utile a correggere il divario tra l'informazione che viene data
in lingua ebraica e quella che è tradotta in inglese e destinata
all'esterno d'Israele.
Ufficialmente, lo Stato d'Israele ha una legislazione
discriminatoria nei confronti dei non ebrei, che favorisce
esclusivamente gli ebrei in molti aspetti della vita come, tra i più
importanti, il diritto di residenza, il diritto al lavoro e il diritto
all'eguaglianza di fronte alla legge.
Per
quanto riguarda la discriminazione del diritto di residenza, si fonda
sul fatto che, in Israele, il 92% della terra è proprietà dello Stato
ed è amministrato dalla Israel
Land Authority secondo i criteri del Jewish National
Fund (JNF), affiliato all'Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization). Sono regole fondamentali del JNF la
proibizione a chi non è «ebreo» di stabilire la propria residenza, di
esercitare attività commerciali, di rivendicare il proprio diritto al
lavoro e questo soltanto perché non è ebreo. Al contrario, agli ebrei
non è in nessun caso proibito stabilire la propria residenza o aprire
attività commerciali in qualsiasi località d'Israele. Se
discriminazioni simili fossero imposte in altri stati agli ebrei, si
parlerebbe subito, e a ragione, di antisemitismo e ci sarebbero massicce
proteste.
Quando invece quelle discriminazioni sono normalmente applicate come
logica conseguenza della cosiddetta «ideologia ebraica», sono
volutamente ignorate o, le rare volte che se ne parla, giustificate.
Secondo le regole del JNF, ai non ebrei si proibisce ufficialmente di
lavorare le terre amministrate dalla Israel
Land Authority. E' vero che queste regole non sono sempre applicate
né globalmente imposte, però esistono e vengono tirate fuori tutte le
volte che servono. Di tanto in tanto Israele ne impone l'applicazione,
come quando, per esempio, il Ministero dell'Agricoltura si scaglia
contro la pestilenza di
permettere che negli orti che appartengono a ebrei sulla National
Land, la terra dello Stato d'Israele, la raccolta sia affidata a
coltivatori arabi, anche se questi sono cittadini d'Israele. E
severamente proibito agli ebrei insediati sulla National
Land subaffittare anche una parte delle loro terre agli arabi,
persino per tempi brevissimi e chi lo fa incorre in pesantissime multe.
Al contrario, non c'è nessuna proibizione se si tratta di non ebrei che
affittano le loro terre ad altri ebrei. Nel mio caso, per esempio, io
che sono ebreo ho il diritto di affittare un orto per il tempo della
raccolta ad un altro ebreo, ma a un non ebreo, sia esso cittadino
d'Israele o residente non naturalizzato, non è consentito.
Israele è uno stato fondato sull'apartheid.
Questo è il principio primo di tutto il suo sistema legale, oltre
che la dimensione evidente e verificabile ad ogni livello sociale,
residenziale, del viver quotidiano. Tuttavia, la maggior parte delle
leggi approvate dal Knesset, il parlamento
israeliano, non sembrano discriminatorie, almeno nella forma. Se si
analizzano con un po' di attenzione, si vede subito che, alla base dì
tutte c'è la discriminazione tra «ebrei» e «non ebrei».
La
Legge dell'Ingresso del 1952 aveva apparentemente la funzione di
regolare l'accesso al paese ma, senza specificare tra «ebrei» e «non
ebrei», recitava che «chi non è in possesso di un visto o di un
certificato d'immigrazione sarà immediatamente deportato e non potrà
più chiedere il rilascio dei visto». La definizione di chi ha le
qualifiche per ottenere il visto d'immigrazione si trova nella parallela
Legge del Ritorno: solo «gli ebrei».
Infatti, la clausola della deportazione degli «stranieri» è
applicabile solo ai «non ebrei». Il Ministero dell'Interno non ha
l'autorità d'impedire a un ebreo, anche se ha precedenti penali e può
costituire un pericolo per la società, di esercitare il suo diritto a
stabilirsi in Israele. Solo un cittadino straniero non ebreo ha bisogno
del permesso, ma agli ebrei che giungono da altre nazioni vengono subito
concessi tutti i diritti e i privilegi previsti per i cittadini
d'Israele: il «certificato d'immigrazione» conferisce
automaticamente la cittadinanza, il diritto di votare e di essere eletti
anche se non conoscono una sola parola di ebraico. Il «certificato
d'immigrazione» dà diritto immediato alla «cittadinanza» in virtù
del ritorno nella «terra madre d'Israele» e a molti benefici
finanziari che variano a seconda della nazione da cui provengono gli «ebrei».
Per esempio, quelli che provengono dall'ex URSS ricevono subito una «gratifica
complessiva» di $ 20.000 per famiglia.
Agli stranieri, cioè ai «non ebrei», può essere revocata la
residenza anche se hanno vissuto in Israele anni ed anni, mentre nessuno
può espellere gli indesiderabili se ebrei, com'è stato in moltissimi
casi di trafficanti e comuni malfattori che sono persino riusciti a
farsi eleggere nel Knesset. E ciò grazie alle leggi sulla cittadinanza del 1952 che,
senza mai menzionare «ebrei» e «non ebrei», sono il fondamento primo
dell'apartheid, insieme alle leggi sull'istruzione pubblica, alle norme
della Israel Land Authority, che
garantiscono la segregazione delle terre e le leggi matrimoniali
religiose che sono mantenute separate dal codice matrimoniale civile.
I «non ebrei» debbono risiedere molti anni in Israele prima di
ottenere la cittadinanza, possono essere espulsi dall'oggi al domani e
debbono ufficialmente rinunciare alla loro cittadinanza originaria.
Per esempio, i cosiddetti «diritti dei residenti che rientrano in
patria» (doganali, sussidi per le abitazioni e l'istruzione) valgono
solo per gli «ebrei», gli yored. La discriminazione più plateale è
quella che appare nei documenti d'identità che tutti sono tenuti a
portare con sé e ad esibire in qualsiasi momento. Sotto la dicitura «nazionalità»
figurano le seguenti categorie: «ebreo», «arabo», «druso», «circasso»,
«samarita», «caraita» o «straniero». Dal documento d'identità i
funzionari dello stato sanno subito a quale categoria appartiene la
persona. Malgrado innumerevoli pressioni, il Ministero dell'Interno si
è sempre rifiutato di accettare la dicitura «nazionalità israeliana».
A quelli che l'hanno richiesta, viene risposto su carta intestata «Stato
d'Israele» che «si è deciso di non riconoscere una nazionalità
israeliana», mentre si ricorda che si ha il diritto a lasciare in
bianco la voce «nazionalità», previa richiesta al ministero di
competenza. Nella lettera non si specifica chi ha preso tale decisione né
quando.
La legge sulla coscrizione militare del 1986 non sembra discriminatoria
perché usa l'espressione «giovani di leva arruolati» come termine
universale e riferibile a tutti i cittadini d'Israele. In realtà
contiene un semplice marchingegno che ne fa una delle leggi più
discriminatorie, un vero e proprio pilastro dell'apartheid: è la figura
dell'enumerator, autorizzato a chiamare i giovani ad iscriversi
nelle liste di leva, a convocarli al distretto con uno specifico
richiamo alle armi. Nella legge si fa uso del termine «autorizzato»,
il che implicitamente lascia all'enumerator la facoltà di
chiamare, o di non chiamare alle armi, i giovani in età di leva. Quelli
che non ricevono la chiamata sono automaticamente esentati dal servizio
militare. E’ semplicissimo: quelli che dai documenti d’identità
risultano appartenenti al «settore arabo» non vengono chiamati.
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