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Come il
DNA si difende da Darwin
Tratto
“Uccellosauro ed altri animali: la catastrofe del darwinismo”
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La
piccante e poco rispettosa replica di Behe al celebre accademico
Doolittle tramuta il dibattito sulla Boston Review in un putiferio, sia
pur dottissimo; un alterco a tutto campo fra scettici e dogmatici (del
darwinismo) in cui s’introducono tanti nuovi argomenti, così
complessi e tecnici, che è facile perderne il filo per i non addetti ai
lavori.
Un
motivo ci sembra abbastanza chiaro, e costantemente ripetuto dai
polemisti a favore dell’evoluzionismo: tutti costoro danno per
scontato che nel DNA, nel corso dei milioni di anni, siano avvenute
accidentalmente, minime ma continue modifiche delle sequenze proteiche e
degli aminoacidi, minuscoli errori di trascrizione del patrimonio
genetico. Alcuni di questi errori sarebbero poi fissati (nella
discendenza) perché “utili”. Essi puntano il dito sulla
“somiglianza” di certe sequenze, come indizio che si tratta di
“modifiche” da un gene (o da una sequenza) originaria; anzi nel loro
discorso, a poco a poco, l’indizio diventa una prova certa, così
certa che non è necessario provarla.
E’
in base a certe somiglianze che gli evoluzionisti concludono – è una
delle loro asserzioni preferite – che l’uomo ha in comune con lo
scimpanzé “più del 99 per cento del patrimonio genetico”,
il che “dimostra” che uomo e scimpanzé si sono divaricati da un
antenato comune “in un passato recentissimo”. Gli
evoluzionisti sanno anche calcolare, ed è stupefacente, il numero di
anni trascorsi da questa presunta divaricazione. Altro esempio: dal 1997
si è scoperto nel sangue di un certo pesce artico la glicoproteina Afgp,
che impedisce al sangue di congelare. Questa proteina anti-freeze
somiglia molto, nelle sequenze di amminoacidi, al tripsinogeno, un
enzima del pancreas (che serve a tutt’altre funzioni). Subito essi
concludono che questa somiglianza significa che “l’Afgp è una
versione lievemente modificata del tripsinogeno”, prodottasi nelle
ere geologiche per caso e felice errore.
Ma
è proprio così? Un genetista di nome James A. Shapiro si permette di
dubitarne.
Negli
ultimi decenni, scrive, “la nostra conoscenza dei dettagli
dell’organizzazione delle molecole” nei viventi “sta
attraversando una espansione rivoluzionaria, le cui implicazioni non
vengono apertamente discusse”, proprio per “non dover
considerare la possibilità di una teoria scientifica dell’evoluzione
non-darwiniana”.
Tra
queste scoperte rivoluzionarie – sorprendenti, io credo c’è questa:
che il DNA dispone “di livelli multipli di meccanismi di
autocorrezione per riconoscere e rimuovere gli errori che
inevitabilmente avvengono durante la replicazione del DNA”.
Shapiro parla di proofreading mechanismus, apparati di “correzione
tipografica” molto simili ai programmi di correzione-software dei
sistemi di scrittura computerizzati: e difatti “la rivoluzione
molecolare ha rivelato un imprevisto campo di complessità e interazioni
nel DNA, più simile alla tecnologia computeristica che al meccanicismo
che dominava le menti quando fu formulata la moderna sintesi darwiniana”
Tra
questi sistemi di “correzione delle bozze” di cui è dotato
il DNA, che penso suoneranno una sorpresa per i lettori come per chi
scrive, alcuni – continua Shapiro – “comparano i caratteri
parentali del DNA con quelli appena sintetizzati”, e distinguono
le variazioni “sì da operare efficacemente per rettificare,
piuttosto che fissare, ciò che risulta da accidentali incorporazioni
del nucleotide sbagliato”. Altri programmi scorrono e analizzano (Shapiro
usa il termine scanning, ben noto per certe routine del
computer), “le porzioni non replicanti del DNA alla ricerca di
cambiamenti chimici che porterebbero a mis-codificazioni, e rimuovono i
nucleotidi modificati. Altri ancora sorvegliano le riserve di precursori
e rimuovono i contaminanti potenzialmente mutageni”. Insomma: il
DNA si difende attivamente da tutte quelle casuali accidentalità e
danneggiamenti impercettibili (non esclusi “agenti alchilanti e
raggi ultravioletti”, che gli evoluzionisti considerano tipici
deus ex machina delle mutazioni genetiche) su cui l’evoluzionismo
fonda praticamente tutte le sue ipotesi di evoluzione.
Dalla descrizione del genetista, emerge che il DNA, nel suo incessante
sintetizzare e fermentare e fabbricare, è la struttura più stabile
dell’universo. Antiche lapidi di bronzo e granito sono rese
illeggibili dai minuziosi insulti che l’ambiente infligge loro nei
millenni; i più duri cristalli minerali possono essere deformati,
metamorfizzati; il DNA si difende contro l’entropia, contro il degrado
inevitabile delle cose, e – come ora apprendiamo – anche dal
darwinismo.
Ecco il punto: il DNA è stabilissimo, proprio perché
non è una “cosa” inerte, “Non è una vittima passiva delle
forze casuali della chimica e della fisica”. La visione del genoma
come “una serie di perline infilzate in un filo, che dominava la
genetica negli anni ’40 e ‘50” è da tempo scaduta, annuncia
Shapiro ai darwinisti. “Allora i geni erano presi come unità
corrispondenti a specifici tratti dell’organismo, e l’ipotesi un
gene un enzima ci assicurava che il compito essenziale di ciascun
gene era di codificare una specifica molecola proteica a un dato
fenotipo”. Non è più così. Oggi “ogni gene” si è rivelato
essere composto da “un assemblaggio modulare di motivi regolativi e
codificativi. La maggior parte di questi motivi sono condivisi da vari
geni, inducendo a pensare che i genomi sono costituiti come con
mattoncini di Lego (genomes are assembled Lego-like) da un repertorio di
elementi più basilari, di cui molti non codificano proteine, ma
inducono altre importanti funzioni: trascrizione, traduzione,
fabbricazione del RNA, replicazione del DNA, condensazione della
cromatina e così via”.
Non basta. “Quando analizziamo la replicazione
del menoma durante la proliferazione cellulare e lo sviluppo
multicellulare, vediamo che i diversi loci genetici sono organizzati
gerarchicamente in reti interconnesse che funzionano dinamicamente. Non
confinati ad un singolo tracciato, molto geni sono attivi in tempi
differenti, partecipano all’espressione di più di un tratto
fenotipico. Il confronto di genomi di organismi differenti hanno
rivelato tratti di inattesa conservazione evolutiva fra vaste distanze
tassonomiche [come dire: nella zanzara e nella balena, certi
“loci” del DNA sono uguali, nonostante la distanza evolutiva che si
presume separare i due viventi] mentre genomi vicinissimi [scimpanzé
e uomo, per esempio] spesso differiscono in modo significativo nella
disposizione degli elementi ripetitivi di DNA che non codificano
proteine”
Ancor di più. S’è scoperto che la cellula ha una capacità autonoma
di “ingegneria genetica naturale”, per cui “taglia e
divide e ricongiunge le molecole di DNA per ricostruirle in nuove
sequenze”; in ciò guidata da “reti computanti molecolari che
elaborano informazioni sui processi interni e sull’ambiente esterno”,
che “si possono caratterizzare come reti rivelanti proprietà
biologicamente utili di intelligenza e decisionali”.
Dunque
non solo il DNA si auto-protegge, ma si auto-riorganizza. Conclusione di
Shapiro:
“La
nostra attuale conoscenza del cambiamento genetico è fondamentalmente
divergente dai postulati neo-darwiniani. Dal menoma costante, soggetto
solo a mutazioni localizzate e accidentali, siamo passati al genoma
fluido, soggetto a riorganizzazioni episodiche, massicce e non causali,
capaci di produrre nuove architetture funzionali. Tuttavia, i
neo-darwinisti continuano a ignorare o a banalizzare le nuove
conoscenze, e insistono nel gradualismo come sola via della mutazione
evolutiva”. Ma “mutazioni accidentali localizzate, selezioni
operate un gene alla volta e modifiche graduali di funzioni individuali
non possono spiegare in modo soddisfacente come tanta complessità,
modularità e integrazione sia sorte e modificata nel DNA durante la
storia della vita sulla terra. Ci sono semplicemente troppi potenziali
gradi di libertà per la variabilità casuale e troppe interconnessioni
di cui dare conto. Per quanto lungi sia il tempo
che si assume per questi cambiamenti”.
Non
c’è stato il tempo per l’evoluzione di un simile meccanismo, della
complessità del DNA. Persino per qualcosa di molto più semplice è
mancato letteralmente il tempo, dal primo giorno dell’universo ad
oggi. E’ il caso dell’antifreezer di quel pesce artico cui s’è
accennato, che pare essere “una versione lievemente modificata del
tripsinogeno”, enzima del pancreas. Gruppi di ricerca
evoluzionisti hanno provato a calcolare “la probabilità che un
gene antigelo si sia evoluto, per tentativi ed errori, nel tempo a
disposizione”. Il calcolo delle probabilità, devono ammettere a
malincuore, non è a loro favore. Già “il numero di possibili
diversi geni che possono essere creati con la cancellazione di un
singolo nucleotide, per cinque volte successive è di 10 alla 28esima”.
Si scriva il numero: è 1 seguito da 28 zeri: un numero enorme di
mutazioni, che avrebbero dovuto verificarsi per poi essere “esposte”
alla selezione naturale. Ma nella realtà è ancor peggio. “Quando
le sequenze per l’inserzione del gene-bersaglio possono essere di una
lunghezza qualunque, e possono venire da ogni altro delle migliaia di
geni, la probabilità si avvicina a 10 alla 370esima”
Scrivete il numero: 1 seguito da 370 zeri. E cercate d’immaginare che
cosa significa. In un precedente capitolo, abbiamo evocato la cifra 20
alla 250esima, e abbiamo detto che il numero dei secondi trascorsi
dell’universo dall’inizio ad oggi è inferiore a quel numero; 10
alla 370 è un numero ancora più mostruosamente spropositato,
inimmaginabile.
Non
c’è stato il tempo per l’evoluzione casuale di un anticongelante
del pesce artico da un precedente enzima, già ad esso molto
somigliante; mene che meno, c’è stato il tempo perché una struttura
così complessa, auto-protettiva e auto-organizzantesi come il DNA si
formasse “per caso”, a forza di eventi fortuiti.
E
del resto: che cosa faceva il pesce artico, in attesa che il Caso gli
preparasse l’anti-freezer? E perché un solo pesce artico, fra tutti
quelli che vivono nei gelidi mari polari, s’è dotato di un antigelo
ematico, il cui vantaggio evolutivo è così evidente? Perché, visto
che tutti i pesci, dopotutto, hanno pur adottato le pinne?
(…)
Quel
che il darwinismo non riesce a spiegare è anzitutto questo:
l’innumerevole, fastosa stranezza e diversità del vivente.