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L'analisi
di William R. Clark autorevole ricercatore americano esperto di petrolio
«Il
petro-euro scalza il petro-dollaro: è la vera ragione della crisi con
l'Iran»
Sabina Moranti – tratto da
“Liberazione”
Detto
questo, quindi, manca qualcosa. Per trovare la notizia, il tassello che
potrebbe rendere comprensibile un confuso puzzle di propagande
contrapposte, bisogna risalire a qualche mese fa, quando un autorevole
ricercatore esperto di petrolio - quel William R. Clark autore di
Revisited - The Real Reason for the Upcoming War with Iraq: a
Macroeconomic and Geostrategic Analysis of the Unspoken Truth (Le vere
ragioni della prossima guerra contro l'Iraq: un'analisi macroeconomica e
geostrategica della verità non detta) - puntava l'indice sul prossimo
obiettivo. Attenzione, scriveva Clark il 5 agosto scorso, le tensioni
geopolitiche fra Stati Uniti e Iran «vanno
ben oltre le preoccupazioni per il programma nucleare iraniano, come
pubblicamente affermato, ma riguardano molto più plausibilmente il
tentativo di Teheran di proporre un sistema di scambio del petrolio
basato sul petro-euro». Esattamente come per il conflitto con
l'Iraq, scrive Clark, «le
operazioni militari contro l'Iran sono strettamente collegate con la
macroeconomia e con la sfida alla supremazia del dollaro costituita
dall'euro come moneta alternativa per le transazioni petrolifere, una
sfida non pubblicizzata ma molto, molto seria». Secondo Clark e
numerosi analisti, infatti, più dell'accesso ai pozzi garantito
dall'occupazione militare è stata proprio la salvaguardia della
supremazia del dollaro all'origine dell'invasione dell'Iraq. Saddam
insomma avrebbe firmato la sua condanna a morte non per le sue
inesistenti armi di distruzione di massa né tanto meno per i massacri
dei civili, quanto per avere deciso di farsi pagare in euro le
esportazioni di petrolio. Secondo alcuni insider della Casa Bianca
l'operazione Iraq freedom, oltre a stabilire una presenza militare e un
governo filo-americano, aveva specificamente l'obiettivo di riconvertire
in dollari gli scambi petroliferi iracheni e far passare ai paesi Opec
ogni fantasia di transizione all'euro - ovviamente più conveniente in
quanto meno svalutato del biglietto verde.
Nel caso dell'Iran, sostiene Clark, la
minaccia sarebbe molto più concreta visto che Teheran ha annunciato,
per il marzo prossimo, l'apertura di una vera e propria borsa
petrolifera alternativa alle uniche due ufficialmente riconosciute, il
Nymex di New York e l'Internatonal Petroleum Exchange di Londra, una
borsa appunto basata su di un sistema di scambi interamente basato
sull'euro e tacitamente appoggiata da altri paesi produttori. Perché
sia così grave lo spiega a chiare lettere lo stesso Clark: «Se la borsa iraniana prendesse piede, l'euro potrebbe irrompere
definitivamente negli scambi petroliferi. Considerando il livello del
debito statunitense e il progetto di dominio globale portato avanti dai
neocon, la mossa di Teheran costituisce una minaccia molto seria alla
supremazia del dollaro nel mercato petrolifero internazionale».
Dal punto di vista esclusivamente economico e monetario, l'avvio di un
sistema in petroeuro è uno sviluppo logico visto che l'Unione europea
importa più petrolio dai paesi Opec di quanto non facciano gli Stati
Uniti e, di fatto, gli europei pagano il petrolio iraniano in euro già
dal 2003. Ma una vera e propria competizione fra le due monete, in una
borsa indipendente dai desiderata di Washington ma lasciata in balia
della proverbiale mano invisibile, è l'incubo della Federal Reserve
perché, come scrive Clark «gli
Stati Uniti non potrebbero più continuare a espandere facilmente il
credito attraverso i buoni del tesoro e il valore del dollaro
crollerebbe». La borsa iraniana sarebbe insomma una tappa fondamentale verso il
passaggio dell'Opec dai petrodollari ai petroeuro, passaggio facilitato anche dal comportamento delle banche centrali di
due giganti, Russia e Cina, che dal 2003 hanno cominciato ad accumulare
la divisa europea.
Non
la solita vecchia propaganda anti-sionista, quindi, né tanto meno un
programma nucleare che forse, fra una decina d'anni, potrebbe condurre
l'Iran alla bomba atomica - ma allora perché non nuclearizzare subito
Il problema dei generali è che, forti dell'esperienza irachena, sono
costretti a scartare a priori l'ipotesi soft - quella del cambio di
regime - così come un'invasione su larga scala contro il ben più
solido e numeroso esercito di Teheran. Ed ecco allora farsi strada
svariate ipotesi, tutte abbastanza spaventose ma alcune decisamente
agghiaccianti, come quella descritta dall'esperto di intelligence Philip
Giraldi su The American Conservative, sotto l'illuminante titolo:
"In caso di emergenza, nuclearizzate l'Iran".
Oltre a fornire notizie sulla ripresa dell'intensa attività di
pianificazione da parte dei militari, Giraldi rivela che, in
caso di un altro attacco terroristico sul suolo americano, l'ufficio del
vice-presidente Dick Cheney vuole che il Pentagono sia pronto a lanciare
un attacco nucleare contro Teheran, anche se il governo iraniano non
risultasse coinvolto con l'attentato. Su istruzioni del
vicepresidente il Pentagono ha quindi incaricato il Comando strategico
statunitense (Stratcom) di stilare un piano che include appunto un
attacco aereo su vasta scala contro obiettivi iraniani, sia con armi
convenzionali che con le nucleari tattiche progettate per distruggere i
bunker. La domanda è quindi una sola: l'operazione è già cominciata?