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Il
fenomeno delle “corti islamiche” somale
di Carlo Bertani - 22/06/2006
Dopo
decenni di sangue e di terrore, a Mogadiscio sembra essere scoppiata la
pace: ovviamente si tratta di una pace dal significato assai
“ristretto” – come scarni sono gli attributi democratici del paese
– ma si tratta pur sempre di una boccata di sollievo, che in quel
paese significa passeggiare in una via senza correre il rischio che
qualcuno ti spari addosso.
Il “miracolo” è avvenuto perché delle misteriose “milizie”,
d’altrettanto sconosciute “corti islamiche”, si sono organizzate
ed hanno cacciato dalla capitale i “signori della guerra” che
imperversavano da decenni.
Per capire la stranezza dell’evento dobbiamo per prima cosa tracciare
i confini, la cornice ed il contenuto del quadro somalo, per poi
riflettere e chiederci se la politica italiana può intervenire per
aiutare a stabilizzare il paese, ovviamente senza combinare i soliti
“guai” delle “missioni di pace”.
Nell’intricata
situazione somala, non sapremmo nemmeno tracciare un punto d’inizio
della vicenda: sin da quando il Khedive d’Egitto (formalmente
indipendente dalla Turchia dal 1847) – nella seconda metà
dell’Ottocento – amministrava con blandizia quei territori nel nome
della Sublime Porta, l’area era governata più da potentati locali che
da entità statuali.
Il “disastro” somalo nacque proprio nella seconda metà
dell’Ottocento, quando Italia, Francia e Gran Bretagna si spartirono
il Corno d’Africa ed i suoi commerci: frutti tropicali, avorio,
spezie, schiavi. Le necessità di spartizione fra le potenze coloniali
stravolsero la geografia politica di quei territori, poiché cercarono
d’ingabbiare in delle aleatorie entità statuali aree che si
distinguevano fra di loro soprattutto per l’appartenenza tribale.
L’occupazione
italiana durò ben oltre la fine del secondo conflitto mondiale, poiché
fu evidente che
Proviamo
a riflettere su cosa può significare gestire una nazione senza un solo
biologo, un ingegnere, un farmacologo, un geometra, un ragioniere, ma
anche senza un esperto saldatore, un motorista navale, ecc.
Dopo
la fine del protettorato italiano (1960), nacque
il primo luglio del 1960
Notiamo,
a margine, il fallimento della missione militare congiunta
italo-americana del 1993: nonostante la supremazia tecnologica, le
truppe dei due paesi dovettero lasciare il paese per le forti perdite
subite nei combattimenti dell’estate, nei quali persero la vita una
decina di militari italiani. La “campana” somala – che suonò a
morto più volte per statunitensi ed italiani – avrebbe dovuto
insegnare qualcosa: quello che oggi osserviamo in Iraq è soltanto il
seguito di quello che avvenne a Mogadiscio, ossia l’impatto di un
esercito super-tecnologico con la guerriglia urbana, alla quale non era
e non è assolutamente preparato.
Mentre
i “signori della guerra” si contendevano il potere, sacrificando
sull’altare della guerra la poca ricchezza del paese, la popolazione
precipitava sempre di più nella miseria.
Le opere d’irrigazione costruite dagli italiani, gli edifici, le
manifatture: tutto è andato in rovina in questi decenni di sangue ed
oggi, complice anche la desertificazione che avanza, il paese vive
oramai dei pochi aiuti internazionali e di una misera agricoltura di
sussistenza.
La
vita di tutti i giorni, per i somali, nell’ultimo mezzo secolo è
stata un inferno: faremmo un grave errore nel credere che popolazioni
“abituate” a decenni di guerra si “stabilizzino” in quello state
di cose; fanno di necessità virtù, ma sperano sempre che l’inferno
finisca, e – talvolta – operano per mettere fine ad una situazione
quando diventa insostenibile.
Mentre i “signori della guerra” scatenavano attacchi e ritorsioni
per il controllo del territorio, lo Stato in quanto tale si estingueva
e, con esso, anche i cardini della vita sociale: sanità, istruzione,
giustizia.
Eppure, anche nel bel mezzo di decenni di guerra si nasce e si muore, ci
si ammala e si fa all’amore: nascono figli, bisogna arrabattarsi per
sbarcare il lunario e – come spesso accade – si litiga.
Anche
in mezzo alla guerra si litiga per il possesso di una casa o di un
pozzo, per un torto subito, per un furto: senza la giustizia dello
Stato, i somali si sono “arrangiati” con il poco che la tradizione
forniva loro per superare l’impasse della paralisi statale.
Non dimentichiamo che la struttura statale, lo Stato con la “S”
maiuscola – per popolazioni vissute per secoli sotto re-pastori,
sultani o feudatari – è più sovrastruttura che struttura. In altre parole, la mancanza di uno
stato centrale è stata in qualche modo “assorbita” dalla tradizione
e dalle consuetudini.
Una delle tradizioni del mondo islamico è quella della giustizia
popolare, che spesso – con l’applicazione della sharia,
la legge islamica tradizionale – ha condotto ad esecuzioni sommarie e
feroci quali lapidazioni, impiccagioni o gente sgozzata dopo giudizi
alquanto carenti sotto il profilo delle garanzie. Per la visibilità
internazionale che ha assunto l’applicazione della sharia
in questi anni, potremmo concludere che si tratta di un’involuzione
del diritto, e per alcuni aspetti (soprattutto legati ai diritti delle
donne) così è.
C’è
però un aspetto positivo nel carente diritto islamico, ossia che per le
questioni di minore importanza – legate alla proprietà, ai rapporti
fra le persone, alla criminalità cosiddetta “minore” – in un
panorama d’assenza dello Stato questo diritto “dei poveri” riesce
a funzionare anche in condizioni d’estrema difficoltà, perché si
basa sul Corano e su un compendio di tradizioni tramandate attraverso i
secoli.
Le stesse fatwe –
tristemente note come condanne a morte emanate spesso in contumacia (si
pensi a quella emessa dagli ayatollah iraniani contro lo scrittore
Salman Rushdie) – sono solo un aspetto del diritto islamico: migliaia
d’altre fatwe trattano gli
argomenti più disparati, legati alla vita di tutti i giorni delle
popolazioni, una specie di “Codice Civile” transnazionale e con
radici antiche.
Spesso, noi occidentali confondiamo uno shaik
con un mullah, senza sapere a
cosa corrispondono quei titoli nella struttura sociale musulmana:
ebbene, gli Al-Hakim corrispondono ai nostri Del Giudice, ossia sono
cognomi che indicano la discendenza da un giudice.
Nella
dissoluzione totale dello stato somalo post-coloniale, in mezzo a guerre
ed a massacri, a chi poteva rivolgersi la popolazione per dirimere
dissidi legati al diritto d’accesso ad un pozzo, alla proprietà di un
immobile, insomma, a tutto ciò che da noi è regolato dal Codice
Civile?
La popolazione stessa ha eletto – senza complicati meccanismi,
soltanto perché la persona scelta dimostrava di conoscere il diritto
islamico tradizionale – i giudici destinati ad amministrare quel
minimo di giustizia civile che, anche in un paese sconvolto ogni giorno
da massacri ed omicidi, deve sopravvivere.
Con il trascorrere degli anni, è apparsa evidente alla popolazione la
profonda discrepanza fra quel diritto – sì povero, scarsamente
erudito ed un po’ naif – e lo spettacolo che potevano osservare
nelle strade di Mogadiscio: bande armate che depredavano ed uccidevano
secondo l’umore e gli ordini di un qualsiasi capataz locale.
Lentamente,
è aumentata la fiducia verso i giudici “scalzi” che riuscivano
almeno a mantenere un embrione di coesione sociale mentre lo stato –
identificato con i “signori della guerra” – era proprio colui che
frantumava ogni forma d’aggregazione con il sopruso e l’omicidio.
Il passaggio dalla semplice gestione della giustizia alla politica, in
realtà, non è mai avvenuto: nella Mogadiscio “liberata” dalle
milizie delle corti islamiche, il primo atto “politico” è stato
chiedere al governo ufficiale somalo (esule da decenni in Kenya) di
rientrare per prendersi carico nuovamente della nazione.
Come si può notare, la vicenda manca proprio di una strategia politica,
dacché le milizie delle corti islamiche che hanno cacciato dalla
capitale i “signori della guerra” sono raggruppamenti spontanei, una
sorta di vera milizia popolare, senza nessun “signore della guerra”
che la comanda.
Immediatamente,
da Washington è giunto il sospetto che dietro alle milizie delle corti
si celino Al-Qaeda ed il terrorismo internazionale: difficile affermare
se così è e quali possano essere i legami con la struttura
transnazionale islamica, perché non ci sono personaggi o fatti che
indichino con certezza l’esistenza di quel legame.
Nell’ottica di Al-Qaeda,
In passato, Osama Bin Laden ebbe interessi commerciali nell’area del
Corno d’Africa ma più nell’interno, soprattutto in Sudan, mentre le
aree costiere sono troppo esposte per installarvi strutture
d’addestramento o rifugi per i guerriglieri.
Più
probabile è invece una contiguità con
La tendenza a fare d’ogni erba un fascio, ed a criminalizzare
immediatamente un movimento quando un suo adepto sceglie la lotta
armata, nasce dall’ignoranza del mondo islamico: nessuno, in Italia,
ha pensato di criminalizzare il PCI per la militanza di Franceschini.
Quando, invece, il fenomeno si manifesta in aree lontane dall’Europa
– sapendo poco della storia, delle tradizioni e dei movimenti politici
di quei paesi – cacciamo tutto nel calderone del terrorismo. Così
facendo, operiamo una semplificazione di comodo dalla quale non sappiamo
poi uscire: promoviamo la crescita di nuove classi politiche (vedi Iraq
ed Afghanistan) senza interrogarci se esistono soggetti politici più
accreditati e che avrebbero maggiori opportunità di gestire poi realmente
il paese. D’altro canto, non ci piace ascoltare chi ci parla dei guai
provocati dalla colonizzazione europea – che spesso fu la prosecuzione
di quella ottomana – e se qualcuno c’infastidisce con queste
argomentazioni preferiamo voltarci per trovare altri interlocutori, i
quali saranno proni ai nostri desideri, ma poco ascoltati in patria.
Questo,
in sostanza, è il “cortocircuito” delle varie missioni di
“pace” nel mondo, che – utilizzando una locuzione assai nota –
riescono “a vincere la guerra ed a perdere la pace”.
La
nuova situazione che sta nascendo in Somalia richiama – in qualche
modo – le responsabilità italiane nella colonizzazione del paese:
oggi, dopo la cacciata dei “signori della guerra”, forse sarebbe il
momento d’aiutare quei popoli a trovare, dopo decenni di guerre, una
nuova stabilità.
La situazione somala, per noi italiani, non può essere proprio del
tutto indifferente, giacché gli italiani nel paese africano sono ancora
ascoltati: Roma, talvolta, viene chiamata da Mogadiscio ad assumersi le
sue responsabilità in campo internazionale proprio per il passato
coloniale.
Oggi è presto per capire quale piega prenderanno gli eventi: come
ricordavamo, truppe etiopi si stanno muovendo verso
Il
disinteresse internazionale per la nuova situazione somala condurrebbe
inevitabilmente ad una rinnovata stagione di sangue: scontri con truppe
mercenarie di stati confinanti oppure l’instaurazione (come
contrappeso) di un regime autoritario nel paese.
Forse il governo italiano – che cerca disperatamente una nuova
politica estera senza usare le armi – potrebbe appoggiare questo
tentativo somalo di porre termine a decenni d’instabilità e di
sangue, perché l’alternativa è gettare
Purtroppo, l’Europa non riesce a riconoscere forme di democrazia –
anche molto primordiali e fragili – se non sono correlate con gli
strumenti della democrazia parlamentare, ovvero elezioni, parlamenti,
ecc.
Chiunque abbia un briciolo di buon senso ha compreso che per giungere (sempre che questa sia le loro via alla democrazia) ad una convivenza pacifica e rispettosa delle opinioni non serve esportare i nostri modelli: stanno fallendo ovunque, anche dove c’è la forza delle armi a sorreggerle – perché sono strumenti nati da secoli di dibattiti e scontri in Europa – e non si possono “plasmare” sulle società strutturate in modelli tribali come quelle del mondo musulmano.
La definitiva soluzione al problema dovranno trovarla i musulmani
stessi, scoprendo la via per uscire dal loro infinito Medio Evo, che
perdura dalla fine dei grandi califfati (XII sec.) e dalla crisi
dell’Impero Ottomano (XVII sec.).
Quando, però, delle milizie popolari riescono a cacciare gli
ingombranti “signori della guerra”, le loro soldataglie mercenarie
ed i loro soprusi, si tratta pur sempre di una forma di liberazione
attuata dal popolo stesso e quindi – in qualche modo – democratica.
Non
sarà
Se volessimo veramente aiutare
Potremmo
intervenire anche nella sanità, nell’istruzione e nell’agricoltura
– ma non come immaginavano di fare le organizzazioni caritatevoli
legate al principe Vittorio Emanuele, ossia inviando “roba di poco
valore, acqua e zucchero” – bensì formando medici ed infermieri in
Italia e fornendo assistenza e medicine vere.
Potremmo trovare significative competenze in organizzazioni come
Emergency o Medici senza Frontiere: i loro operatori sanno bene come si
può intervenire, basterebbe dare loro la possibilità (ed i mezzi) per
agire. Abbiamo speso miliardi di euro per la missione militare in Iraq
ed ora ci tiriamo indietro – con esborsi enormemente minori –
dall’aiutare i somali?
Ciò
che purtroppo manca è una saggia e ponderata visione politica dei
problemi e delle possibili soluzioni – anche se non sono le migliori
che immaginiamo – perché l’alternativa, se i somali verranno
abbandonati a loro stessi, saranno altri decenni di guerre e di sangue:
una condanna all’Inferno perpetua. Se questo nefasto scenario dovesse
materializzarsi, siamo sicuri che l’Organetto Nazionale – presto o
tardi – trasmetterà qualche struggente servizio giornalistico sulla
miseria in Somalia: nessuna “fatalità”, bensì lo specchio
dell’insipienza e del menefreghismo della nostra politica estera.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it