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in Ruanda? |
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Inferno
Congo: la grande rapina del nuovo secolo
Il Mattino, 8
luglio 2006 – Visto su www.terrelibere.org
L'Onu e i missionari: le multinazionali straniere sono il motore del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo. L'olocausto nascosto dietro il business del tantalio, un componente fondamentale per l'industria elettronica.
«Potenze straniere,
in combutta con i nostri fratelli congolesi, ancora una volta hanno
organizzato la guerra per le risorse naturali del nostro Paese. Le
nostre ricchezze oggi servono solo ad ucciderci. Il nostro Paese, il
nostro popolo, sono diventati oggetto di sfruttamento. Tutto quel che ha
valore è saccheggiato, esportato, o semplicemente distrutto».
La notte di Natale del
Sorvolando le immense estensioni di giungla fittissima che
ricopre buona parte delle province orientali, niente farebbe pensare che
questo pezzo di Eden sia invece divenuto l'inferno in terra per i suoi
abitanti. Il Congo è uno dei
paesi più ricchi al mondo di risorse naturali, il sottosuolo
letteralmente ne trabocca. Ma i suoi 66 milioni di abitanti muoiono
di fame, di malattie e di stenti, senza poter usufruire di tali
straordinarie ricchezze. Nel cortile del «comptoir» di Maurice Ciyane,
un commerciante di minerali di Bukavu, sulle rive del lago Kivu, al
confine fra Congo e Ruanda, come ogni giorno Pierre pesta con gesto
paziente nel mortaio un misterioso minerale di colore grigio-scuro,
quasi nero. Deve trasformarlo in polvere finissima, qui tutti lo
chiamano coltan, e da alcuni
anni riveste un'importanza economica e strategica immensa. Il coltan è
un composto di due minerali piuttosto rari, il Niobio
e il Tantalio. Ed è
proprio il Tantalio ad aver scatenato, a partire dalla seconda metà
degli anni '90, una corsa frenetica, planetaria, verso il Congo.
Pochi lo sanno, ma proprio nelle regioni orientali della
Repubblica democratica del Congo si concentra la maggior parte delle
riserve mondiali di tantalio. Molto più potente del silicio, il
tantalio è un componente fondamentale per l'industria elettronica.
Straordinario conduttore, inattaccabile da quasi tutti gli acidi,
resistente alle altissime temperature, serve a ottimizzare il consumo di
corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione. Condensatori al
tantalio si trovano praticamente in ogni telefono cellulare, in ogni
telecamera digitale, nei computer portatili, nei palmari. Il tantalio
permette un enorme risparmio energetico e una straordinaria velocità e
versatilità degli apparecchi. Non è un caso, quindi, che venga
utilizzato anche nelle playstation, per gli airbag delle automobili, nei
motori dei missili e dei jet, nei radar. Basti pensare che le industrie
elettroniche ed aerospaziali di Stati Uniti, Europa e Giappone consumano
il 75 per cento del tantalio estratto a livello mondiale.
Nelle regioni orientali del Congo, il coltan si trova in
enormi quantità, persino nel terriccio e nel fango della foresta
pluviale. Estrarlo è facile ma anche molto faticoso: bisogna disboscare
un pezzo di giungla, scavare e filtrare il fango con l'acqua, finchè si
deposita sul fondo, grazie al suo notevole peso specifico. «Alla
fine degli anni '
Prima per l'avorio, poi per il caoutchou, poi ancora per
l'olio di palma o per il cotone, durante 80 anni di era coloniale, il
Belgio depredò brutalmente il Congo. Le cose non cambiarono granchè
dopo il 30 giugno del 1960 con l'indipendenza. Due settimane il primo
ministro Patrice Lumumba si trovò a fronteggiare una rivolta
dell'esercito e il tentativo di secessione della ricchissima provincia
del Katanga sostenuta da Belgio e Stati Uniti. Lumumba fu assassinato
nel 1961 su ordine di Mobutu Sese Seko, ex-agente dei servizi segreti
belgi, che, appoggiato da Bruxelles, con un colpo di stato militare,
riuscì poi nel
Nel maggio del 1997, Kabila entrò trionfalmente a Kinshasa,
alla testa del suo esercito di ribelli, dopo una lunga marcia di duemila
chilometri. Mobutu morì poco dopo in esilio, in Marocco, con un
patrimonio di 4 miliardi di dollari. Quel che non tutti sanno, però, è
che prima di partire alla conquista di Kinshasa, Kabila aveva firmato
contratti miliardari preventivi con alcuni i paesi limitrofi Ruanda e
Uganda e con i grandi importatori occidentali di minerali. Americani,
ovviamente, ma anche belgi, inglesi, tedeschi, giapponesi, russi, kazaki,
israeliani, persino pachistani. I nomi degli stessi destinatari che, a
dire il vero, leggiamo a Bukavu sui bidoni e sui sacchi di coltan e di
cassiterite di Maurice Ciyane, il grossista di minerali.
Quel che colpisce è che, violando la sovranità
dell'allora Zaire, nel '97 i grandi importatori di minerali avevano
ottenuto da Kabila contratti e concessioni per lo sfruttamento minerario
di estensioni enormi di territorio prima ancora che queste passassero
sotto il suo controllo. Fu talmente frenetica la corsa contro il tempo
da parte delle grandi multinazionali che, un mese prima della caduta di
Kinshasa, così cominciava l'articolo dell'inviato del New York Times:
«La pista dell'aeroporto di Lubumbashi è piena di jet privati. È
sbarcata una quantità incredibile di manager di compagnie minerarie.
Stanno firmando contratti di favore, malgrado la totale incertezza circa
il futuro. L'unico albergo decente della città è diventato il loro
quartier generale».
In quei giorni si arrivò al punto che
Cifre da capogiro. Eppure, la luna di miele fra Kabila e i
suoi amici finì molto presto perché nel maggio del '98 Laurent Kabila
nazionalizzò una grande società ferroviaria. E pochi giorni dopo,
davanti a un gruppo di diplomatici, dichiarò di voler favorire le
industrie e le società della neonata Repubblica Democratica del Congo.
Dichiarazioni che misero immediatamente in allarme le grandi
corporations occidentali. Tre mesi dopo, nell'agosto del 1998, Ruanda e
Uganda invasero di nuovo il Congo, ma stavolta, gli alleati si erano
trasformati in nemici di Kabila. Avevano creato dal nulla un nuovo
gruppo ribelle, da loro interamente armato e finanziato. E, nemmeno a
dirlo, le popolazioni delle regioni di Kivu e Ituri videro di nuovo
atterrare, sulle piste nel mezzo della giungla, gli stessi jet privati
con gli stessi manager occidentali, che stavolta venivano a rinegoziare
contratti e concessioni di favore con i nuovi leader ribelli.
Dal gennaio del 2001 al potere non c'è più Laurent-Desirè
Kabila, assassinato da una guardia del corpo in circostanze che non sono
mai state del tutto chiarite. Al posto di Kabila è subentrato il figlio
Joseph, ex-Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Grazie alla paziente e
preziosa opera di mediazione del Sudafrica, dell'ONU e della Comunità
di Sant'Egidio, il nuovo presidente sta dimostrando una notevole capacità
negoziale e una grande duttilità, qualità che gli hanno consentito di
varare un fragile governo di transizione e una nuova Costituzione. In
attesa delle elezioni che sono state rinviate al 2006. Ufficialmente, in
territorio congolese, oggi non ci sono più soldati del Ruanda e
dell'Uganda. Ma restano sempre le milizie loro alleate. Ma tuttavia, coltan,
cassiterite, cobalto, oro, stagno, zinco, uranio, continuano ad
essere esportati illegalmente in Ruanda e in Uganda, da dove poi sono
rivenduti, a prezzi più alti, ai grandi importatori occidentali. Se,
fino a qualche anno fa, a Bukavu erano ben 19 i grandi grossisti che
acquistavano minerali dai privati, oggi ne sono rimasti solo quattro. «Il
grosso problema, per noi - ci dice Maurice Ciyane- è
il rifornimento di minerali. Gli hutu ruandesi occupano praticamente
tutte le zone minerarie della regione di Kivu. I minatori non riescono
più ad arrivarci liberamente. E chi ci va, lo fa a rischio della
propria vita. Pensi che abbiamo un fornitore che da mesi dispone di
grandi quantità di coltan, ma per lui è troppo pericoloso avventurarsi
in camion fin qui a Bukavu». Ma allora i minerali partono
direttamente per il Ruanda? «Certo, esiste un altro circuito ben organizzato, e ovviamente
clandestino. Sappiamo che non ha mai smesso di funzionare. Dove poi
venga spedita la produzione, noi qui non lo sappiamo. Ecco, sì, è una
mafia, è proprio una mafia».
In due rapporti esplosivi delle Nazioni Unite, redatti da
un gruppo internazionale di esperti, prima nel 2000 e poi nel 2003, si
citavano 34 grandi società occidentali, importatrici di minerali
congolesi attraverso il Ruanda. Si denunciava addirittura la complicità
della Sabena, la ex-compagnia di bandiera del Belgio, accusata di
trasportare il coltan (il prezioso composto di due minerali - il Niobio
e il Tantalio - prodotto in Congo) dall'aeroporto ruandese di Kigali ai
destinatari finali in Europa. Una torta talmente ricca che nell'anno
2000, il solo esercito ruandese lucrò 20 milioni di dollari al mese, e
con il solo traffico di coltan. Ma, si sa, l'appetito vien mangiando. Da
Bunia a Goma, da Bukavu a Kindu, le milizie ribelli, che fino a poco
prima erano alleate, e i loro protettori ruandesi e ugandesi, tutti
cominciarono a contendersi il controllo delle aree minerarie più
ricche. Vere e proprie battaglie campali che in poco tempo sfociarono in
conflitti fra etnie e tribù. Oggi questo è il risultato: villaggi e
campi bruciati, immensi campi-profughi, bande armate senza più alcun
controllo, disintegrazione del già disastrato tessuto sociale. E un
bilancio spaventoso delle vittime: 1.000 morti al giorno, ossia 30.000
al mese, 360.000 all'anno.
Secondo cifre concordanti di numerose agenzie dell'Onu e di
molte organizzazioni non governative, si calcola che dal 1997 ad oggi 3
milioni e 800mila morti siano da attribuire, direttamente o
indirettamente, al conflitto. Colera, malaria, epatite, infezioni
respiratorie, carestia, malnutrizione, deforestazione, saccheggi,
stupri, massacri di interi villaggi. È sconvolgente la conclusione dei
due rapporti stilati dagli esperti Onu: «Le
grandi multinazionali minerarie sono state il motore del conflitto
ancora in corso, e hanno preparato il terreno per le attività illegali
e criminali di estrazione nella Repubblica Democratica del Congo».
Chi non può e non vuole tacere sono spesso solo i missionari. Come i
padri saveriani, che ci ricevono di sera nella loro parrocchia in
collina, un'oasi di pace e di serenità nell'inferno di Bukavu.
Padre Franco Bordignon vive in Congo da oltre 30 anni. È
impietosa, senza appello, la sua condanna per il silenzio colpevole
dell'Occidente e dei suoi mass-media: «Oggi
- dice - una realtà è vera se è
vista, se è portata di fronte alla gente. Qui non sono uscite immagini,
riprese. Ne deduco che non si è voluto far sapere. Evidentemente chi
tira le fila di tutto ciò ha più potere dei politici stessi. Vorrei
che fosse chiaro: la guerra del Congo non è una guerra etnica, perchè
il Congo ha più di 400 tribù e non si ricordano, nella storia di
questo Paese, lotte fra etnie e tribù al punto da creare genocidi».
Con una laurea in medicina e la specializzazione in ginecologia, il
dottor Denis Mukwege lavorava da anni in Francia. Qualche anno fa, la
scelta coraggiosa, temeraria di tornare in patria, a Bukavu, con moglie
e 5 figli. Assieme a una volontaria inglese, oggi il dottor Mukwege è
l'unico medico ad operare nell'ospedale di Panzi, specializzato in cura
e assistenza alle donne vittime di stupri e di violenze sessuali. Quelle
che abitano troppo lontano, o che sono state rifiutate dalle proprie
famiglie, o che sono in degenza post-operatoria, sono ammassate a decine
in un paio di stanzoni dell'ospedale di Panzi. Due, tre, quattro donne
per letto, spesso con i figli nati da quegli stupri. «Solo
l'anno scorso - spiega Mukwege - abbiamo
avuto 3.650 ricoveri di donne violentate. Di queste, 560 sono state
sottoposte ad intervento chirurgico. Le donne che giungono al nostro
ospedale hanno tutte subito gravissime violenze sessuali. La più
giovane è stata una bimba di 3 anni, la più anziana aveva 75 anni. In
maggioranza si tratta di bambine, di ragazzine di 10, 12, 14 anni.
Rapite, violentate, usate come schiave sessuali dai gruppi armati
ribelli. Spesso rimangono incinte».
Susan ha 45 anni, 8 figli. È seduta sulle luride lenzuola
di uno dei tanti letti sovraffollati. La sua storia, terribile, è solo
una delle tante: «Vengo dal
villaggio di Maleghe. A gennaio, 5 ribelli armati ruandesi sono venuti
dalla foresta. Sono entrati nella mia capanna, io dormivo. Erano le 5
del mattino. Hanno ordinato a mio marito di uscire. Hanno detto che mi
volevano. Mio marito si è opposto. Lo hanno picchiato e legato. Poi,
uno di loro, che sembrava il capo, ha cominciato a violentarmi. Ho
tentato di resistere. Mi ha spezzato la clavicola. Non sono più
riuscita a difendermi. Quando il primo ha finito, gli altri 4 si sono
spogliati e, l'uno dopo l'altro, mi hanno violentata. Quando hanno
finito, hanno rubato tutto quello che avevamo in casa, hanno preso mio
marito e sono tornati nella foresta. Per alcuni giorni, non abbiamo
saputo più nulla di mio marito. Poi lo hanno liberato. Eppure, io sono
fortunata perché sono viva. Mia cugina, invece, aveva 6 figlie. Quel
giorno di gennaio, volevano portarsele tutte nella foresta. Mia cugina
tentò di impedirglielo. L'hanno ammazzata davanti a tutti e hanno preso
le sue 6 figlie. Le hanno legate per i polsi ad una lunga corda e le
hanno portate via dopo averle violentate, una per una, davanti a tutti.
Da quel giorno, non sappiamo più nulla di loro».
Secondo un calcolo approssimativo, per difetto, realizzato
sulla base delle testimonianze raccolte, quindi assolutamente parziale,
le donne e le bambine violentate in Congo, dal '98 ad oggi, sono almeno
40.000. Soprattutto nelle province orientali di Kivu e Ituri, confinanti
con Ruanda e Uganda. A Bunia, non lontano dal lago Albert, una Ong
italiana,
È il trionfo del mercato globale: kalashnikov non solo
russi, anche «Made in China» o in Jugoslavia. Micidiali Uzi fabbricati
in Belgio, ma su licenza israeliana. Persino mortai dell'esercito Usa,
con tanto di numero di matricola, arrivati chissà come, chissà quando.
È un lavoro lungo, paziente, di catalogazione, quello che vede assieme,
fianco a fianco, ufficiali pachistani e del Bangladesh, svizzeri e
marocchini. Una volta consegnata la propria arma, ogni ribelle
smobilitato riceve dai caschi blu marocchini un certificato di disarmo
che gli dà il diritto di ottenere un incentivo di 50 dollari e di
partecipare, per alcuni giorni, ad un corso di reinserimento rapido
nella vita civile. Al termine, prima di ricevere la carta di
smobilitazione, ad ogni ex-combattente viene fotografata l'iride:
l'unico modo - ci viene spiegato - per evitare che la stessa persona si
ripresenti qualche giorno dopo con un'altra arma per ottenere un nuovo
contributo economico. Mentre andiamo via, incontriamo Laurent. Era un
diacono di una chiesa protestante a Bukavu. «Quando
un gruppo armato ammazzò mia moglie e le mie figlie, io mi arruolai in
un gruppo nemico per vendicarmi. Grazie a Dio, non ci sono riuscito. Non
sapevo nemmeno con chi me la dovevo prendere, chi le aveva uccise. Poi,
col tempo, mi sono chiesto: ma perché devo vendicarmi? Mia moglie, le
mie figlie ormai sono morte». Nel suo ufficio spartano,
superprotetto dai caschi blu, da quasi due anni c'è una donna a
dirigere la missione Onu a Bunia. Tutti la chiamano «Madame». Ma
Dominique Mc Adams ha il piglio e l'autorità di un generale di corpo
d'armata: «Dal primo di aprile
abbiamo ottenuto il disarmo di 11mila combattenti sui 15mila stimati
nella regione. Ora, purtroppo, abbiamo a che fare con gli irriducibili,
con quelli che non ne vogliono assolutamente sapere. Chiamateli
terroristi o ribelli, questi 4.000 armati rifiutano di smobilitare»
Cinquecento chilometri più a sud, non lontano dal lago Tanganica, nella
torrida piana di Rusizi, lì dove Ruanda, Burundi e Congo sono separati
solo da un fiume, le parole di Madame Mc Adams trovano una tragica,
dolorosa conferma. Case diroccate, squallide capanne di paglia, torme di
uomini in uniformi sbrindellate e lercie, sciami di mosche.
All'ingresso, un cartello dipinto a mano: «Centre de Brassage».
Nome pomposo per indicare il luogo in cui gli
ex-combattenti di fazioni armate, fino a ieri in lotta fra loro,
dovrebbero ora prepararsi a formare il nuovo esercito della Repubblica
Democratica del Congo. Malgrado il nome, la realtà è assai meno
promettente. Quando sono pagati (e non lo sono da 3 mesi) ricevono uno
stipendio mensile di 7 euro. Sono accampati in condizioni che definire
disumane è decisamente riduttivo. Quasi tutti questi futuri
soldati/ex-briganti non sanno fare altro che maneggiare armi. Conoscono
ben poco di una vita normale: solo la terribile esperienza di una guerra
che li ha semplicemente travolti. Altro non possiedono se non l'arma che
portano sempre con sé. E da settimane aspettano. Intanto bivaccano,
fumano, dormono. E attendono, nella speranza finora vana di una vita più
degna, che finalmente venga avviato il programma di loro integrazione
nell'esercito.
Ma per i 3.000 uomini di questo Centre de Brassage, l'unica
acqua potabile, soltanto mille litri al giorno, è quella offerta dai
caschi blu dell'Onu. Per lavarsi, bisogna arrangiarsi con le fetide
acque di un ruscello, di fatto una fogna a cielo aperto. Col risultato
che il colera ha già mietuto decine di vittime. Come ogni sabato dalla
chiesa cattolica del Carmelo, giungono, portate dal vento, le voci di un
coro che sta intonando un coro in lingua swahili. Sono le voci di uomini
e donne che stanno provando i canti della messa domenicale. Malgrado
tutto, nemmeno qui a Goma la speranza è ancora morta.