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Falsa cattura: Saddam venduto
agli Usa, era prigioniero
di Giulietto Chiesa tratto
da "Avvenimenti" nr. 50 gennaio 2004
Stupisce, o dovrebbe stupire, la
dabbenaggine di gran parte degl’inviati al fronte, e dei commentatori
rimasti in patria, di fronte alle immagini della cosiddetta
“cattura” di Saddam Hussein. Tutti, o quasi tutti, così stabilmente
embedded da restituirci fedelmente e del tutto acriticamente la versione
loro offerta, già confezionata dai servizi segreti statunitensi. (segue)
Aprire il pacco sarebbe stato
molto più interessante che tenerlo chiuso, anche per i lettori, ma
evidentemente l’idea di folclore che domina al Pentagono è ormai
considerata l’unica praticabile anche in Italia dove, del resto, ormai
si festeggia Halloween invece del carnevale e tra non molto diventerà
festa nazionale anche quella del Ringraziamento.
Resterà negli annali della credulità la valigetta con i 750mila
dollari trovata accanto al “nascondiglio”, la pistola alla cintura
del catturato, la misteriosa nebbia in cui sono sparite, nei racconti,
le sue due (?) guardie del corpo. E tantissimi altri dettagli.
Ma uno non sarebbe sfuggito, se non fossero stati tutti embedded: colui
che è stato catturato era un prigioniero. Ed era un prigioniero da
diverso tempo. Di chi non sappiamo, probabilmente dei curdi, o di
qualcuno che, comunque, ha fatto i suoi calcoli e ha condotto una
trattativa con gli occupanti statunitensi, fino a che - dopo essersi
assicurato che la taglia di 25 milioni di dollari era stata pagata in
qualche banca svizzera, e dopo averla ritirata - lo ha consegnato al
signor Bremer.
Che Saddam fosse prigioniero da diverso tempo lo dicono le condizioni in
cui è stato trovato. Lo dice il nascondiglio catacombale che poteva
aprirsi solo dall’esterno, lo dice la sporcizia (perché mai non
avrebbe dovuto lavarsi, o pettinarsi?), lo dicono i graffi sul volto.
Abbiamo visto un prigioniero, che era trattato anche piuttosto male, e -
dati gli avanzi di cibo trovati nella casupola - anche nutrito piuttosto
male. Per uno che aveva a disposizione 750 mila dollari in contanti e in
banconote di piccolo taglio non è spiegabile.
Ma questa circostanza è di decisiva importanza per capire una quantità
di altre cose e il non averla descritta potrebbe non essere stato una
distrazione. L’obiettivo mediatico numero uno era di far respirare la
popolarità declinante di Bush e della sua guerra. Ed è stato raggiunto
con immediata facilità. Agli occhi di due miliardi di persone è stata
fatta balenare l’idea che, tolto di mezzo Saddam, la resistenza
sarebbe stata decapitata, la guerra sarebbe finita, e tutti i piani di
Washington sarebbero andati in porto. Respiro di sollievo.
Questa idea non avrebbe potuto funzionare, invece, se Saddam fosse stato
descritto per quello che era, cioè per un prigioniero. Se infatti
Saddam Hussein era prigioniero, egli non poteva essere la mente della
resistenza armata. Non poteva dirigerla, tanto meno finanziarla. Del
resto questa circostanza non ha potuto essere taciuta. Il suo stato
psico-fisico era evidentemente troppo depresso per assegnargli un ruolo
in quel senso. E non si può guidare una lotta armata senza nemmeno un
telefono cellulare.
Lasciando dunque da parte l’imbecillità dei giornalisti e dei
direttori di giornali che si sono fatti menare per il naso, e la
disonestà di coloro che, avendo mangiato la foglia, hanno fatto finta
di non vedere, occorre tornare all’analisi dei fatti.
La prima conclusione da trarre, dunque, è che la cattura di Saddam
Hussein non farà fermare la guerriglia e il terrorismo sul territorio
iracheno. Il centro o i centri di comando erano da tempo, se non da
subito, sotto altra guida. Il decentramento dei depositi di armi e di
munizioni, i loro nascondigli, tutte cose probabilmente decise da Saddam
Hussein prima dell’attacco americano, continuano a funzionare. Il modo
umiliante come è stata gestita la cattura nei confronti degl’iracheni
potrà avere reso felici i molti nemici di Saddam Hussein in Iraq, ma ha
sicuramente fatto infuriare ancor di più i suoi non pochi amici in
patria e i milioni di arabi all’estero. Come riconoscono perfino
autorevoli osservatori statunitensi, l’ostilità del mondo arabo verso
gli occupanti non è sicuramente diminuito.
Non c’è dunque ragione per alcun sospiro di sollievo. La tregua è
stata e sarà soltanto virtuale. Lo stillicidio di morti americane
continua. L’offensiva delle truppe di Bush e una loro maggiore
accortezza difensiva, ha soltanto prodotto un intensificarsi degli
attacchi contro le forze di polizia irachene. Ai primi segnali di
inevitabile rallentamento delle operazioni di stanamento della
guerriglia, gli attentati contro le truppe anglo-americane e contro i
consiglieri civili stranieri riprenderanno con feroce vigore.
Il problema dell’uscita degli americani entro un termine e con modalità
che non siano nocive o catastrofiche per la rielezione di George Bush
rimane per il momento irrisolto.
Anche il campo di battaglia di Washington non è affatto tranquillo.
Grandi manovre sono in corso. Papà Bush è andato in soccorso del
figlio mandandogli il suo fedele consigliere James Baker a gestire un
po’ meglio i problemi della cosiddetta “ricostruzione”. Ma i
falchi del Pnac che circondano il presidente, che gli scrivono i
discorsi, che lo guidano dove vogliono, continuano a sabotare
energicamente ogni via d’uscita “onorevole” e ogni tentativo di
ricostruire una qualche forma di dialogo interatlantico.
Tutti coloro che non hanno partecipato alla guerra restano esclusi dal
banchetto dei vincitori. E, mentre Baker arriva, il
sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz emette un violento e
offensivo discorso che ribadisce la ferma determinazione
dell’amministrazione di non permettere a nessuno degli alleati
riottosi nemmeno di partecipare alle aste americane per le
“concessioni”. Dice Wolfowitz che «limitare la competizione per i
contratti incoraggerà l’espansione della cooperazione internazionale
in Iraq e negli sforzi futuri». In altri termini: chi non manda truppe
non avrà favori. Ma è quell’accenno agli «sforzi futuri» che ho
appena sottolineato a sollevare inquietanti interrogativi. Non solo la
fazione di Wolfowitz non desidera alcuna “riconciliazione” con gli
alleati europei Francia, Germania e Russia, ma annuncia che si procederà
oltre. Dunque sono tutti avvertiti: l’esperimento iracheno deve
servire di lezione. In futuro si procederà nello stesso modo e, quindi,
tutti devono rifare i loro calcoli mentre si prepara la prossima guerra.
In altri termini, mentre un pezzo dell’amministrazione di George Bush
padre sta cercando di tessere qualche filo che riduca l’isolamento
americano, un pezzo decisivo dell’amministrazione di George Bush
figlio si preoccupa di tagliare quegli stessi fili.
Quanto al significato degli «sforzi futuri» di cui parla Wolfowitz non
c’è da esercitare molta fantasia. Durante l’estate, e nel pieno
della controffensiva della guerriglia irachena e del terrorismo contro
le truppe anglo-americane - rivela Paul Krugman sul New York Times -
alcuni alti funzionari del Pentagono agli ordini di Douglas Feith,
sottosegretario alla difesa per la pianificazione, hanno intavolato
trattative segrete con «iraniani dalla dubbia reputazione».
Dunque non solo le traversie irachene non stanno modificando la linea
dei falchi di Washington, ma tutto lascia pensare che sia in corso la
preparazione di «sforzi futuri», cioè di un rilancio. Il che conferma
che costoro non sono affatto preoccupati della destabilizzazione
crescente in tutto il Medio Oriente e nelle aree circostanti, e
intendono dunque accentuarla, aggravarla, moltiplicarla. Non è a un
nuovo ordine che essi si accingono, ma a un prolungato e crescente
disordine. Condizione essenziale per moltiplicare la paura e per
intensificare il riarmo in tutte le direzioni. Poiché si preparano per
guerre ben più impegnative delle tre prove sperimentali fino a qui
realizzate.