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Sbarre
a stelle e strisce
Dossier sul Correctional Business in USA
di Ida Sconzo
Carcerati
nel mondo
Nove milioni di persone nel mondo vivono in una dimensione parallela
e invisibile: il carcere.
In Italia la popolazione carceraria conta circa 56mila individui contro
43mila posti letto. Il 47% non ha una condanna passata in giudicato.
Il 72%, al momento dell’arresto, era disoccupato. Un terzo dei
detenuti è composto da cittadini stranieri. Negli ultimi vent’anni,
il numero dei carcerati, in Italia, è cresciuto del 20%.
Nel resto del mondo la situazione non è diversa: negli ultimi dieci
anni la popolazione carceraria è in continua crescita. In Spagna è
aumentata del 50%. In Francia, soltanto nel 2002, è cresciuta del 14%,
prigioni più affollate anche in Olanda, Belgio e Portogallo.
USA: primi in classifica
Il record di crescita spetta però agli Stati Uniti, con un incremento
medio settimanale di 1.500 unità. Per ogni 100mila abitanti, circa 700
sono in carcere (due milioni di persone su 275 milioni di americani).
1.100 maschi americani, maggiorenni, su centomila, hanno vissuto
l’esperienza carceraria. Se
a questi sommiamo i condannati liberi sulla parola (circa 700mila) e
quelli in stato di sorveglianza (più di tre milioni) avremo un totale
di circa sei milioni di statunitensi sotto tutela penale.
Nel corso degli ultimi dieci anni la popolazione carceraria americana è
raddoppiata. Nel 1999, in seguito all’applicazione del sistema
“tolleranza zero” ideato dal sindaco Giuliani, (ribattezzato per
questo “Amaro Giuliani”) era prigioniero in USA un quarto della
popolazione carceraria mondiale.
Il 60% dei carcerati,
all’ombra della Statua della Libertà, è composto da minoranze
etniche, la più numerosa delle quali è quella afroamericana (50%).
Statistiche del 1995 dicono che su 22 milioni di neri maggiorenni,
767mila erano in prigione, 999mila in libertà vigilata e 325 rilasciati
sulla parola. Nel 1970, le
donne detenute erano 5.600, nel 1997 erano 75mila, in maggioranza nere.
Negli States, (creatori ed
esportatori di democrazia) un milione di persone sono detenute per
possesso o spaccio di droga, ma il consumo di sostanze stupefacenti non
tende a diminuire.
Nel 2001, oltre 5mila
minori, tra i sette e i 17 anni, immigrati clandestini,
orfani o abbandonati dai genitori, erano rinchiusi nelle prigioni
americane. Almeno 500 bambini sotto i cinque anni, non adottabili perché
privi di documenti, sono stati tenuti, per mesi e addirittura anni,
negli asili nido delle carceri, in attesa che i burocrati decidessero
del loro futuro.
Mentre per gli adulti lavoratori, le autorità, sotto la pressione delle
aziende che hanno bisogno di forza lavoro, chiudono un’occhio, nei
confronti dei minori la legge è inflessibile.
L’industria carceraria americana
Gli americani lo chiamano “Correctional Business” perché anche
l’amministrazione della pena è ormai diventata un affare.
Il boom, del business carcerario in USA, è un fenomeno relativamente
recente. Nel corso degli ultimi vent’anni, sono state costruite più
di mille nuove prigioni e negli ultimi trent’anni, il numero dei
detenuti e più che raddoppiato.
Lo sviluppo delle privatizzazioni ha favorito la nascita di una grande e
articolata “industria delle carceri”. Negli States la spesa
carceraria supera i 20 miliardi di dollari l’anno. Gli istituti di
pena privati sono circa 160 sparsi in trenta Stati, coprono il 7% del
mercato carcerario, crescono a un ritmo del 35% l’anno. Tra le cinque
società che gestiscono il business, le due maggiori sono quotate in
Borsa e dominano il mercato. La Correctional Corporation of America
gestisce il 51% circa delle prigioni private mentre la Wackenhut
Corrections Corporation ne gestisce il 22%.
La potente lobby, esercita forti pressioni su politici e magistrati, per
impedire che nuove procedure e norme sulla libertà provvisoria, o nuovi
finanziamenti alle prigioni pubbliche, interferiscano con i suoi
interessi, incoraggiando, di fatto, l’incremento delle carcerazioni.
La privatizzazione ha favorito lo sviluppo di un sistema carcerario
sempre più impersonale e automatizzato, con alti livelli di
sorveglianza e conseguente riduzione del personale. La lobby non ha
nessun interesse nei confronti dei programmi di riabilitazione per i
detenuti e quindi non opera per ridurre le percentuali di recidiva.
Appaltatori, fornitori delle forze dell’ordine
e sindacato delle guardie carcerarie, hanno fatto approvare una
legge che inasprisce i tempi di detenzione: le celle non rimangono mai
vuote.
In California il 20% dei programmi di reinseriemento sono stati
tagliati. L’amministrazione Bush, nel 2004, spenderà 238 milioni di
dollari per i programmi di reinserimento e 750 milioni andranno a
potenziare le Federal Prison Industries. Le carceri-fabbrica da 111
diventeranno 120 per accogliere oltre duemila nuovi detenuti.
Il Correctional Business si muove su tre fronti: investimenti per
progettare, costruire e gestire le carceri; creazione di nuovi posti di
lavoro (nelle aree rurali gli amministratori locali cercano di ottenere
un carcere sul proprio territorio per le opportunità di lavoro
all’interno e nell’indotto di servizi); sfruttamento del lavoro dei
detenuti. Le prigioni private vengono costruite, dalle multinazionali
delle sbarre, in metà tempo, rispetto a quelle pubbliche.
Lo sfruttamento di forza lavoro nei luoghi di detenzione è diffuso
anche in Russia e in Cina, mentre il business delle carceri private è
presente, oltre che negli Stati Uniti, anche in Gran Bretagna e
Australia. In Italia, il leghista Pagliarini ha proposto di affidare ai
privati la gestione delle carceri.
La produzione dei detenuti
Il lavoro carcerario fu introdotto in USA nel 1934 dal presidente
Franklin Delano Roosevelt, fondatore delle Federal Prison Industries. La
società for-profit, gestita dal Dipartimento Prigioni di Washington,
nel 2002 ha fatturato 678,7 milioni di dollari. Oltre il 60% dei beni e
dei servizi prodotti sono destinati al Pentagono.
Circa 22mila detenuti, in 111 carceri, vengono utilizzati soprattutto
per rifornire l’industria bellica. Già nel corso della seconda guerra
mondiale, i carcerati produssero tende, paracaduti, aerei, bombe, da
inviare al fronte europeo e sul Pacifico, per un valore di 75 milioni di
dollari. I prigionieri hanno lavorato per il Pentagono anche durante la
guerra del Vietnam, di Corea e del Golfo. Le Federal Prison Industries
sono tra i maggiori fornitori dell’amministrazione statunitense (39mo
posto).
Tremila “dipendenti” in 14 stabilimenti delle industrie
penitenziarie, lavorano esclusivamente ai sistemi di comunicazione per
le forze armate.
In Texas, a Beaumont, si producono tutti gli elmetti Kevlar utilizzati
dai soldati americani. Dagli stabilimenti di Greenville, Illinois,
escono ogni giorno mille magliette mimetiche. Nel 2002 il Pentagono ne
ha acquistate quasi duecentomila.
Biancheria intima, materassi, pigiami, automobili, radio, magliette,
cavi elettrici, scarpe, utilizzati dai militari americani vengono
prodotti nelle carceri.
I “fortunati” prigionieri-operai, che vendono anche biglietti aerei,
per conto di grandi compagnie, e confezionano jeans di marca (Levis),
vengono retribuiti con un salario inferiore del 20% allo stipendio
minimo dei colleghi “liberi”. Il Dipartimento Penitenziario ne
trattiene l’80% per coprire le spese di vitto e alloggio.
L’indotto
Il giro d’affari che prospera intorno al business carcerario vale
miliardi di dollari l’anno. Più di cento imprese specializzate
operano esclusivamente nel campo dell’edilizia penitenziaria, ma
l’indotto comprende, oltre ai costruttori di “prigioni Chiavi in
mano”, anche fornitori di servizi per la gestione penitenziaria,
produttori di bracciali elettronici, di armi speciali, di sistemi di
controllo. Nell’industria del carcere il settore delle nuove
tecnologie è quello che cresce più velocemente, per le alte tecnologie
impiegate all’interno degli istituti di pena: la schedatura
elettronica interessa ormai un terzo della popolazione maschile.
Tecnologie di seconda generazione prevedono dispositivi in grado di
controllare l’individuo 24 ore su 24, registrando il ritmo cardiaco,
la pressione, la quantità di adrenalina e la presenza nel sangue di
alcool o sostanze stupefacenti.
L’industria delle sbarre svolge paradossalmente anche un ruolo
calmierante nei confronti dei tassi di disoccupazione, sottraendo al
mercato del lavoro migliaia di persone, ma crea occupazione nel campo
dei beni e dei servizi carcerari. È stato calcolato che negli ultimi
dieci anni le carceri americane hanno contribuito a
ridurre, di due punti, il tasso di disoccupazione “assorbendo
le eccedenze”.
Chi entra nella vasta rete del sistema penale americano, spesso resta
impigliato nelle maglie delle numerosissime agenzie e istituzioni,
passando dall’una all’altra in un processo chiamato di “transcarcerazione”.
La privatizzazione ha contribuito alla creazione di circoli viziosi,
provocando, non soltanto, lo sviluppo delle carceri, ma anche
l’aumento delle misure alternative e la nascita di nuove attività
manageriali.
Le “epidemie da arresti”
La
giornalista Megan Confort, su Le Monde Diplomatique, giugno 2003,
annuncia la costruzione di 28 nuove prigioni in Francia, entro il 2007.
“A questo ritmo sfrenato s’intende raggiungere il “modello”
americano? – Si chiede la Confort - negli Stati Uniti si contano circa
due milioni di detenuti... ma queste carcerazioni di massa pongono molti
più problemi di quanti ne risolvano. Quando escono dal carcere –
scrive Megan – i pregiudicati americani ricevono tra i due e i 200
dollari di “gate money” (buonuscita) per ricominciare, i loro vecchi
vestiti e un biglietto per raggiungere la città in cui sono tenuti a
stare. Ma molti di loro nella realtà escono dal carcere con un bagaglio
diverso: dei 9 milioni di detenuti liberati nel 2002, più di 1.3 sono
portatori del virus dell’epatite C, 137mila hanno contratto l’AIDS
e 12mila hanno la tubercolosi. Queste cifre, fornite dalla
Commissione nazionale per la salute in carcere, rappresentano
rispettivamente il 29%, tra il 13 e il 17%, e il 35% del numero totale
di americani colpiti da queste malattie. Da anni, i ricercatori nel
campo della salute pubblica, lanciano l’allarme sulla
“epidemia di arresti” che ha colpito il paese
e si è trasformata in una incubatrice di massa delle malattie
infettive negli istituti penitenziari.