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Il
canto degli ayatollah
Anton
Cechov, Chirurgia
Il
presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad non perde occasione per lanciare
invettive contro Israele, e lo fa con una cadenza quasi regolare,
sincronizzata con gli appuntamenti della grande politica internazionale:
il che – a chi conosce un po’ il linguaggio del perenne suk
medio-orientale – infonde qualche sospetto.
Se avessimo osservato un aumento degli attacchi di Hezbollah contro la
frontiera nord d’Israele, forse potremmo ritenere che ci sia la
precisa volontà di far seguire alle parole i fatti – e cercare, in
questo modo, di “rubare la scena” ad un’invadente Al-Qaeda – ma
così non è: nel Libano meridionale avviene sì qualche scaramuccia, ma
niente di diverso dal solito tran tran di contrapposizione armata.
Siccome Hezbollah è il braccio armato di Teheran in Libano, quale
valore attribuire alla parole di Ahmadinejad?
Tutta la vicenda nasce e muore all’interno dei confini iraniani, per
mere questioni di bottega: lo strisciante confronto che continua da
decenni fra l’ala conservatrice iraniana – il clero, i pasdaran
ed alcuni settori economici – ed i progressisti, ovvero i discendenti
di una linea di pensiero che parte da Mossadeq, passa per Bani Sadr, e
giunge (con qualche distinguo) fino a Khatami e Rasfanjani.
Un lungo percorso, non privo di
spunti interessanti e necessari per illuminare l’oggi.
L’Iran,
nel periodo fra le due guerre mondiali, non fu direttamente colonizzato,
ma ebbe sempre due potenti “protettori” che “garantivano” per le
scelte politiche iraniane: la Gran Bretagna – che aveva importanti
concessioni petrolifere – e l’URSS, che difendeva in quel modo –
eterno e secolare leitmotiv della grande Russia – i confini meridionali.
Il punto di rottura dell’equilibrio fu l’avvento al potere come
Primo Ministro di Mohammad Mossadeq, che nel 1951 nazionalizzò le
compagnie petrolifere ed estromise gli inglesi. Non si giunse alla
rottura dal nulla: Mossadeq chiese più volte una più equa ripartizione
dei proventi petroliferi, che prevedevano una curiosa suddivisione degli
introiti: il 6% allo stato iraniano ed il 94% alle compagnie inglesi.
Mossadeq non era certo un rivoluzionario – aveva studiato in Francia
ed in Svizzera, e potremmo oggi definirlo un economista
“socialdemocratico” – ma, la semplice richiesta di fissare a 50
centesimi il giorno il salario minimo per le maestranze iraniane,
condusse alla frattura con gli inglesi.
In quegli anni, le compagnie inglesi estraevano e commercializzavano 112
milioni di dollari l’anno di petrolio dai giacimenti iraniani, che
attualizzati potrebbero corrispondere a circa 2-3 miliardi di dollari:
proprio una bella sommetta. L’Iran riceveva soltanto 7 milioni di
dollari rispetto al totale di 112 milioni, e Mossadeq ritenne che si
dovevano ri-definire gli accordi, altrimenti – vista la crescita
demografica – il paese, pur ricchissimo di ricchezze minerarie,
sarebbe precipitato nella miseria.
Nella sua
battaglia, Mossadeq fu sempre appoggiato dal potere religioso –
rappresentato all’epoca dall’ayatollah Kashani – mentre lo Scià
Reza Phalavi II mostrava d’appoggiare il suo ministro, mentre in realtà
tramava con Washington per liberarsene.
In quegli anni – non dimentichiamo – l’impero britannico stava
disgregandosi: nel 1947 l’India aveva raggiunto l’indipendenza, in
Egitto stava nascendo la rivoluzione di Nasser e molte ex colonie
africane mordevano il freno.
In sintesi, gli inglesi non erano più in grado di difendere con la
forza gli impianti iraniani, ma nel 1952 l’ex generale Eisenhower
(repubblicano) sconfisse i democratici e s’installò nello Studio
Ovale, che era stato regno dei democratici sin dai tempi di Roosevelt.
Proprio da quei lontani eventi nacque una sorta di velato “accordo”
fra inglesi ed americani che – ancora oggi – li vede pattugliare
insieme le strade dell’Iraq per difendere gli interessi delle proprie
compagnie petrolifere: sangue in cambio di petrolio.
Il primo tentativo di defenestrare Mossadeq andò a vuoto grazie
all’astuzia del Primo Ministro – che aveva provveduto ad epurare gli
alti gradi dell’esercito dalle figure a lui ostili – ed
all’appoggio offerto dall’ayatollah Kashani: lo Scià si limitò ad
accettare la sconfitta, ma proprio dal monarca era partito l’ordine di
rovesciare Mossadeq.
Il secondo
tentativo, nel 1953, vide l’ingresso in campo del generale americano
Norman Swarzkopf, che aveva comandato per sei anni la guardia imperiale
iraniana. Ricordate un altro Norman Swarzkopf, che comandava la prima
alleanza contro Saddam nel 1991? Ebbene sì: era il figlio di tanto
padre; evidentemente, alla dinastia dei Bush corrispondono precise
connotazioni dinastiche anche in campo militare. Probabilmente, Norman
Swarzkopf III comanderà in futuro un attacco in Corea sotto Bush III[1]:
speriamo che la profezia non s’avveri.
Mossadeq fu obbligato a dimettersi e riuscì fortunosamente (grazie
all’appoggio dell’ayatollah Kashani) a salvare la pelle, giacché il
piano ordito dallo Scià e dagli americani prevedeva anche la
“sparizione” del Primo Ministro.
Nel 1953, quindi, Mohammad Reza Phalavi II riuscì in un sol colpo a
centrare tre obiettivi: liberarsi dell’ingombrante Mossadeq,
assicurarsi l’appoggio americano come “custode” del Golfo Persico
e “limare le unghie” al potere del clero. Questi tre eventi
diverranno, nel 1979, le corrispondenti cause della sua fine.
Trascorsero ben 26 anni, decenni nei quali l’alta borghesia iraniana
s’arricchì con la corruzione all’ombra dello Scià, che divenne
sempre più “occidentale” e meno legato alle tradizioni del suo
paese, mentre le condizioni di vita degli iraniani peggioravano.
Nel 1979, vivevano a Parigi due esuli: l’ayatollah Khomeini e
Abolhassan Bani Sadr, un giovane e promettente politico di formazione
marxista; anche l’URSS, in tanti anni di protettorato strisciante,
aveva generato degli effetti. Khomeini discendeva direttamente – nella
“linea” degli ayatollah – da Kashani, mentre Bani Sadr – per le
sue aperture in senso democratico e di maggior equità sociale – aveva
molti punti in comune con Mossadeq.
La terza
causa della rivoluzione iraniana del 1979 era invece profondamente
radicata in Iran: complici la corruzione dilagante, le enormi spese
militari e l’asservimento alle compagnie occidentali, le condizioni di
vita della popolazione erano diventate insopportabili, al punto che
scoppiò la rivolta.
Come nel 1953, anche il primo tentativo fallì e lo Scià – con una
sanguinosa repressione – riuscì a rimanere in sella, ma la saldatura
che nacque a Parigi fra il tradizionalista Khomeini ed il progressista
Bani Sadr fu il mix che avrebbe scatenato la seconda rivolta, alla quale
Reza Phalavi non riuscì ad opporsi: il sovrano e l’intera famiglia
reale fuggirono in Egitto.
Il ritorno a Teheran dell’ayatollah Khomeini e di Bani Sadr sancì un
instabile equilibrio fra le fazioni conservatrici e quelle progressiste
– con il comune obiettivo di defenestrare lo Scià – un
bilanciamento dei poteri che fu solo apparente: l’alleanza fra il
Diavolo e l’Acqua Santa.
Al ritorno in Iran, Khomeini assunse la nuova carica di “Suprema guida
della rivoluzione islamica”: una posizione apparentemente super partes, una specie di Presidente che non rispondeva – in
pratica – a nessuna legge, ma soltanto alla sua interpretazione del
Corano.
Per Bani Sadr era pronta la poltrona di Primo Ministro – per
accontentare i settori progressisti della società iraniana – ma sotto
costante controllo delle autorità religiose.
L’equilibrio
a tre degli anni ’50 – lo Scià, Mossadeq e Kashani – si era
trasformato in una partita a due – Khomeini e Bani Sadr – che
ammetteva pochi compromessi: difatti, al primo contrasto Bani Sadr scoprì
di non avere più l’appoggio del clero.
Nel 1980 scoppiò la guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, che era
sorretto dagli stati sunniti del Golfo e dagli occidentali: i gas che
furono usati nella guerra contro l’Iran provenivano dagli arsenali
USA, i sistemi antiaerei erano francesi, i cacciabombardieri russi; i
soldi – tanti – giunsero dall’Arabia Saudita e dal Kuwait.
L’ultima “rata” per la guerra contro l’Iran – non onorata dal
Kuwait – scatenò l’occupazione irachena del 2 agosto 1990.
Sapendo che le forze armate iraniane non avrebbero retto a lungo, Bani
Sadr intavolò immediatamente trattative con Saddam Hussein e, già nel
1982, era pronto un piano d’armistizio, ma il Primo Ministro non aveva
fatto i conti con gli ayatollah.
Per Khomeini, Saddam cascava a fagiolo, proprio come sarebbe accaduto
molti anni dopo per un Presidente USA: Saddam Hussein è l’archetipo
del dittatore violento ed opprimente, e giustifica qualsiasi guerra.
Tipi come lui sono una vera benedizione per giustificare qualsiasi
azione strategica: se non esistessero, bisognerebbe inventarli (!).
La
“patriottica” guerra contro l’Iraq fu l’occasione cercata dagli
ayatollah per fomentare l’odio contro il nemico, per far passare in
secondo piano le difficoltà economiche e liberarsi dei progressisti
come Bani Sadr, che venne detronizzato.
Per reggere lo scontro contro l’Iraq, si fece leva sulla forte
vocazione al martirio presente nell’Islam sciita (anche i martiri Alì
ed Hussein, caduti un millennio prima, tornarono utili): schiere di
civili si lanciarono nei campi minati, e saltarono in aria per indicare
ai carristi come evitare le mine.
La fine della guerra contro l’Iraq lasciò un paese dissanguato, ma
saldamente nelle mani degli ayatollah: come in tutti i dopoguerra, per
un po’ l’epica riempì lo stomaco, ma dopo qualche anno i morsi
della fame tornarono a farsi sentire.
Saldamente al comando, l’ayatollah Khamenei – succeduto a Khomeini
dopo la morte della “Suprema Guida” – tornò a cercare equilibri
con la fazione moderata: Khatami divenne Primo Ministro e si tornò al
“solito”, ovvero a qualche manifestazione repressa nel sangue oppure
a “decimare” le liste elettorali cancellando semplicemente dagli
elenchi i nominativi degli avversari più combattivi.
Nel
frattempo, la situazione economica era leggermente migliorata: anche
l’isolamento dell’Iran – con il crollo dell’URSS – ebbe fine.
Il presidente Putin comprese subito le opportunità che l’Iran
offriva: dollari in cambio d’armi e tecnologia; non a caso, la
tecnologia nucleare iraniana è completamente di provenienza russa.
La costruzione d’impianti nucleari, consentirebbe all’Iran di
continuare a vendere petrolio e gas all’estero (soprattutto alla Cina)
e d’utilizzare l’energia elettrica di fonte nucleare per alimentare
le industrie nazionali: ovviamente, non c’è modo di sapere se le
stesse installazioni sarebbero usate a scopi bellici, giacché un
reattore nucleare può soddisfare entrambe le esigenze.
Oggi, il paese sta marciando verso la modernizzazione: il più grande
altoforno esistente nel pianeta si trova proprio in Iran; inoltre,
Teheran ha acquistato la licenza di produzione dei missili Nodong
coreani, ed oggi costruisce in proprio delle versioni migliorate,
denominate Sharab III e IV.
Dove non possono arrivarci da soli, gli iraniani acquistano
all’estero: ecco allora la Russia fornire i micidiali missili antinave
Mosquit, od i sistemi contraerei Tor-M1; con i primi Teheran può bloccare la navigazione nel Golfo
Persico, con i secondi cercare di proteggere le installazioni nucleari.
Ma, esiste
veramente un’opzione bellica nei confronti dell’Iran, da parte degli
USA o di Israele?
I fatti sembrerebbero affermarlo, mentre le analisi strategiche
parrebbero negarlo.
Nel 2004, Israele ricevette dagli USA due squadriglie di F-15
opportunamente modificati per missioni a lungo raggio: non è difficile
immaginare a cosa potrebbero servire, ovvero a raggiungere l’Iran e
bombardare le installazioni nucleari.
Anche alcune esercitazioni aeronavali americane, avvenute fuori del
Golfo Persico, sembrerebbero indicare che gli USA preparino la sorpresa,
ma la situazione politica non lo consente.
Queste esercitazioni non sono altro che la consueta prassi americana di
preparare anzitempo le mosse – così come la cessione degli F-15 ad
Israele – ma non è assolutamente certo che i piani saranno messi in
pratica.
Per come stanno andando le cose in Iraq, è molto improbabile un attacco
all’Iran: basti pensare che sono state “inglobate” nelle nuove
forze armate irachene anche le milizie del leader sciita Muqtada al Sadr,
legatissimo all’Iran.
In caso
d’attacco all’Iran, gli USA vedrebbero precipitare nel caos l’Iraq
(come se non bastasse ciò che già avviene!), giacché l’appoggio
della fazione sciita – cercato affannosamente, per usarla contro i
sunniti – verrebbe meno.
Inoltre, l’attacco a Teheran sarebbe soltanto aereo, giacché oggi gli
USA non hanno sufficienti forze per controllare il solo Iraq:
figuriamoci per un’avventura dentro i confini iraniani! Anche un
attacco aereo ai siti nucleari iraniani, però, diventerebbe una miccia
per l’esplosiva situazione irachena, giacché il legame fra gli sciiti
iracheni e quelli iraniani è fortissimo.
Considerati questi aspetti, che significato attribuire alla vittoria di
Ahmadinejad nelle recenti elezioni?
Dopo anni di equilibrismi, gli iraniani sanno che il potente nemico
americano è impantanato in un secondo Vietnam, proprio sull’uscio di
casa, e possono nuovamente permettersi di fare la voce grossa: ma,
attenzione, solo ad uso interno, per frenare nel patriottismo qualsiasi
richiesta di riforme sociali.
Le stesse, bellicose affermazioni, consentono al governo di non
mostrarsi timoroso per avere alla frontiera occidentale il più potente
esercito del mondo – ma lo ricordano come monito – così da avere
“mano libera” nei confronti degli oppositori. Insomma: il solito
trucco di pubblicizzare un nemico esterno a fini interni, condito però
con quel tanto di roboante retorica che consente di non perdere la
faccia.
Addirittura, Khamenei è intervenuto per moderare le affermazioni contro
Israele di Ahmadinejad, in un gioco delle parti che mostra un potere
politico aggressivo, mentre quello religioso si può permettere il lusso
d’agitare qualche ramoscello d’ulivo: un escamotage
per confondere ancor di più le acque.
Tutto – in
definitiva – nasce dalla situazione irachena: le velleità
espansionistiche degli USA in Oriente e verso la Russia sono state
arrestate dalla guerriglia irachena, ed i generali – al Pentagono –
stanno iniziando a far sentire la voce dei militari, attraverso uomini
politici come il senatore Mc Cain (repubblicano), il quale avverte che
il morale delle truppe USA in Iraq è giunto a livelli troppo bassi.
Insomma, la pericolosa “sindrome del Vietnam” è oramai dietro
l’angolo, al punto che un modesto Ahmadinejad può permettersi
d’agitare velleitari proclami di guerra dal pulpito dell’ONU, e
tanto da far scrivere ad un noto storico inglese
– Niall Ferguson, in Colossus – una frase sintomatica: «Gli americani, come
imperialisti, sono proprio inadeguati. Mancano del necessario spirito di
sacrificio, di vocazione, dell'opportuna cast
of mind, disposizione della mente».
In sostanza – afferma Ferguson – prima d’andare per il pianeta a
creare pasticci, leggetevi qualcosa su come gestiva un impero la Gran
Bretagna, altrimenti anche i “galletti” come Ahmadinejad potranno
cantare tutto ciò che vorranno ovunque, indisturbati. Ed i media
italiani – fessacchiotti – ci cascano come polli.
Carlo
Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it