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Il
fallimento di Cancun
Più realismo alla spinta
sovrannazionale
Di
Maurizio Blondet
da
"Avvenire" 16 settembre 2003
All'annuncio del
fallimento del vertice della Wto, molti manifestanti no-global hanno
ballato per le strade di Cancun. Sinceramente, è difficile dire chi
abbia più ragione di celebrare. Europa e Usa non hanno aperto i loro
mercati alle derrate agricole del Terzo Mondo, e si sono rifutati di
ridurre da subito i sussidi che danno ai loro agricoltori: lasciando
alla porta 144 milioni di contadini asiatici e africani che, secondo la
Banca Mondiale, avrebbero tratto vantaggi dalle liberalizzazioni.
D'altra parte c'è chi, come Michael Lind, sociologo della New America
Foundation, sostiene che l'abolizione dei sussidi agricoli europei
eliminerebbe più contadini del Terzo Mondo di quanti ne potrebbe
arricchire. L'apertura dei mercati occidentali infatti spingerebbe alla
modernizzazione rapida e violenta dell'agricoltura dei Paesi
sottosviluppati: milioni di lavoratori delle risaie e delle banane
verrebbero espulsi e sostituiti da macchinari, pesticidi e
fertilizzanti. E potrebbe essere la fine di quelle comunità arcaiche ma
umane che i no-global vogliono preservare.
La globalizzazione, per la sua
natura complessa, può essere giudicata da angoli visuali opposti e
tuttavia legittimi. Proviamo a suggerirne uno: la Wto, gran tribunale
del liberismo, fu sacra ai Paesi ricchi finché vi avevano l'egemonia.
Ora che ha più voce in capitolo un blocco di 140 Paesi poveri,
l'Occidente è disposto a rovesciarne i tavoli. Chi vince dunque?
D'altra parte, era seriamente sperabile che Usa e Ue tagliassero
senza fiatare i 300 miliardi di dollari annui che regalano ai loro
agricoltori - loro cittadini e loro elettori - per fedeltà alla
dottrina liberista? Se c'è una cosa certa nell'incertezza, mi pare
questa: la crisi della Wto a Cancun è, in fondo, la crisi
dell'idealismo sovrannazionale. Della spinta a un "governo
mondiale" gestito solidarmente anziché duramente negoziato dagli
interessi nazionali. I segni di questa crisi, per certi versi, si
moltiplicano. Il voto della Svezia contro l'euro segnala lo sgonfiarsi
degli entusiasmi iniziali, il crescere di perplessità europeiste. Che
cosa ci ha guadagnato il consumatore dall'euro, oltre a rialzi dei
prezzi e stagnazione? E sullo sfondo un allarme inespresso ma ben
presente: l'Europa non sta forse cambiando natura, grazie all'entrata
imminente con diritto di voto di altri 10 membri dell'Est? Questo
"arcipelago gulash" povero, affamato di sussidi ma liberista
"all'americana" con ingenuità da neofita, non ha una storia
in comune con l'Europa renana e keynesiana, Parigi-Berlino-Roma degli
alti salari, che lotta per recuperare l'economia di mercato sociale
anziché smantellarla. Sapranno convivere?
Anche l'Onu, l'altro centro
dell'utopia sovrannazionale, è stato messo in crisi dall'unilateralismo
americano: segnali insomma che la potenza reclama il suo spazio in un
discorso pubblico politicamente corretto, ma concretamente liquidabile
quando non fa più comodo. Il che ovviamente non vuol dire che vada
abbracciato l'egoismo nazionale come nuova regola. Il nucleo
dell'idealismo sovrannazionale merita di essere salvato: ma a patto di
ripensarlo a fondo. Non più "sognato", va costruito nel mondo
reale: e perciò realisticamente.