Il Business della guerra minacciata
di Sergio Cusani e Luca Cusani - tratto da Il Manifesto 15/11/2002

Tra il disinteresse dei grandi sistemi di comunicazione, si combattono in giro per il mondo più di duecento incessanti conflitti e feroci, sanguinose guerricciole. Ma è solo una la grande guerra che produce paura, che tiene il mondo in tensione, sulla corda e che, sul piano dell'andamento dell’economia globale, frena gli investimenti, riduce i consumi di beni durevoli, esalta e amplifica le crisi finanziarie.
Il fenomeno nuovo è che la minaccia, massicciamente propagandata, di una grande guerra si sta rivelando più redditizia della stessa guerra. Le lobby delle armi sono molto concentrate e potenti, ma si devono scontrare con altre lobby altrettanto potenti, interconnesse e più diffuse: quelle del business del commercio del petrolio, delle materie prime, dei prodotti tecnologici, delle telecomunicazioni, delle merci in generale. Lobby non del grande business una tantum – la grande guerra - del business quotidiano e pervasivo.
Questo fa si che le potenti lobby delle armi debbano sempre più tenacemente competere con le crescenti lobby dello scambio globale: con ogni mezzo sicuramente, ma senza arrivare ad uno scontro aperto, ad una resa dei conti il cui esito sarebbe quanto mai incerto.
Questo è il motivo per cui sta prevalendo nel settore delle armi la logica di produrre business senza dover inevitabilmente produrre una grande guerra, che limiterebbe drasticamente e rovinosamente gli intensi traffici quotidiani. Una nuova strategia quindi: la guerra minacciata, la guerra ossessivamente annunciata comunicazionalmente. Tenere l’equilibrio internazionale sul filo, del rasoio, il mondo in bilico sul baratro, produce   richiesta non solo di acquisto di armi ma anche e soprattutto di costosi servizi di consulenza: dall'antiguerriglia, all'antiterrorismo, alla prevenzione della guerra epidemica e batteriologica. Basti pensare in tal senso alle ultime esercitazioni in Kuwait in vista di un attacco batteriologico da parte irachena: esercitazioni gestite da consulenti americani e costate al Kuwait svariate centinaia di milioni di dollari in servizi di consulenza, acquisto di tecnologia, materiale bellico e servizi di assistenza. Al mercato della paura «prevenire» è già conseguire: rende lo stesso o forse di più, e crea sicuramente meno contrapposizioni. Il business della vendita, dell’assistenza e della consulenza preventiva, sotto la minaccia incombente di un tragico evento, precede ormai la guerra ed è indifferente all’atto consequenziale: è paradossalmente indifferente proprio alla guerra avendone già prodotto il risultato economico.
La tensione che ne viene alimentata non produce soltanto vendita di armi ma svuota i magazzini, favorisce nuovi investimenti in ricerca tecnologica con l’aggiornamento di un parco armi sempre più sofisticato.
Si creano così un secondo e un terzo livello commerciale per riciclare l’armamentario obsoleto; un po' come vendere al terzo mondo auto usate o ormai superate.
Insomma il sistema delle lobby degli armamenti sembra che stia mutuando il metodo mafioso: si chiede al mondo intero il «pizzo» facendo salire la febbre di una grande guerra e poi offrendo protezione al costo di redditizi antidoti, con scadenza a tempo.
In tal senso la guerra all'Iraq di Saddam Hussein conviene annunciarla e minacciarla piuttosto che farla. Il risultato economico è in gran parte già raggiunto senza aver speso un dollaro e una vita umana occidentale in un reale sforzo bellico; le lobbies degli affari vogliono continuare a commerciare con l'Iraq a prezzi vantaggiosi grazie ad un embargo che lo costringe a svendere petrolio in cambio di tutto.
Lo stesso Saddam Hussein è titolare di un patrimonio personale, custodito in banche estere, capace di pesare più di qualunque violazione dei diritti umani o possesso di arma chimica. Si può quindi ragionevolmente affermare che una grande guerra questa volta non ci sarà. Esaurita, a gran richiesta, la vendita di tutto il vendibile nel settore delle armi e dei settori collegati, scoppierà la pace, a tempo determinato, per lasciare spazio agli altri affari.
E con la pace, cioè con il rinvio a nuova data di questa o di un'altra grande guerra da annunciare, ci sarà una significativa ripresa dei mercati finanziari, a tempo determinato. L'economia degli scambi e dei flussi finanziari internazionali non possono sostenere, oltre un certo limite, la fibrillante condizione di attesa di un evento traumatico: la guerra è un’antieconomia. Guerra e pace, pace e guerra, clima di pace latente, clima di guerra latente. Ad intermittenza, questi periodi sono e saranno sempre più coesistenti, contigui, coestensivi, rischiosamente funzionali l’uno all’altro.
In questo scenario la sacrosanta mobilitazione contro la guerra rischia di dover affrontare in futuro altri allarmi da grande guerra, senza per altro poter intervenire efficacemente nella frantumazione delle piccole guerre che già si combattono e si combatteranno.
Questo il rischio e questa la sfida per un movimento per la pace che non può che essere universale e locale allo stesso tempo.

 
www.disinformazione.it