Tra
il disinteresse dei grandi sistemi di comunicazione, si combattono in
giro per il mondo più di duecento incessanti conflitti e feroci,
sanguinose guerricciole. Ma è solo una la grande
guerra che produce paura, che tiene il mondo in tensione, sulla
corda e che, sul piano dell'andamento dell’economia
globale, frena gli investimenti, riduce i consumi di beni
durevoli, esalta e amplifica le crisi finanziarie.
Il fenomeno nuovo è che la minaccia, massicciamente propagandata, di
una grande guerra si sta rivelando più redditizia della stessa
guerra. Le lobby delle armi sono molto concentrate e potenti, ma si
devono scontrare con altre lobby altrettanto potenti, interconnesse e più
diffuse: quelle del business del commercio del petrolio, delle materie
prime, dei prodotti tecnologici, delle telecomunicazioni, delle merci in
generale. Lobby non del grande business una tantum – la grande
guerra -
del business quotidiano e pervasivo.
Questo
fa si che le potenti lobby delle armi debbano sempre più tenacemente
competere con le crescenti lobby dello scambio globale: con ogni mezzo
sicuramente, ma senza arrivare ad uno scontro aperto, ad una resa dei
conti il cui esito sarebbe quanto mai incerto.
Questo
è il motivo per cui sta prevalendo nel settore delle armi la logica di
produrre business senza dover inevitabilmente produrre una grande
guerra, che limiterebbe drasticamente e rovinosamente gli intensi
traffici quotidiani. Una nuova strategia quindi: la guerra minacciata,
la guerra ossessivamente annunciata
comunicazionalmente.
Tenere l’equilibrio internazionale sul filo, del rasoio, il mondo in
bilico sul baratro, produce richiesta
non solo di acquisto di armi ma anche e soprattutto di costosi servizi
di consulenza: dall'antiguerriglia, all'antiterrorismo, alla prevenzione
della guerra epidemica e batteriologica. Basti pensare in tal senso alle
ultime esercitazioni in Kuwait in vista di un attacco batteriologico da
parte irachena: esercitazioni gestite da consulenti americani e costate
al Kuwait svariate centinaia di milioni di dollari in servizi di
consulenza, acquisto di tecnologia, materiale bellico e servizi di
assistenza. Al mercato della paura «prevenire» è già conseguire:
rende lo stesso o forse di più, e crea sicuramente meno
contrapposizioni. Il business della vendita, dell’assistenza e della
consulenza preventiva, sotto la minaccia incombente di un tragico
evento, precede ormai la guerra ed è indifferente all’atto
consequenziale: è paradossalmente indifferente proprio alla guerra
avendone già prodotto il risultato economico.
La
tensione che ne viene alimentata non produce soltanto vendita di armi ma
svuota i magazzini, favorisce nuovi investimenti in ricerca tecnologica
con l’aggiornamento di un parco armi sempre più sofisticato.
Si
creano così un secondo e un terzo livello commerciale per riciclare
l’armamentario obsoleto; un po' come vendere al terzo mondo auto usate
o ormai superate.
Insomma il sistema delle lobby degli armamenti sembra che stia mutuando
il metodo mafioso: si chiede al mondo intero il «pizzo» facendo salire
la febbre di una grande guerra e poi offrendo protezione al costo di redditizi
antidoti, con scadenza a tempo.
In tal senso la guerra all'Iraq di Saddam Hussein conviene annunciarla e
minacciarla piuttosto che farla. Il risultato economico è in gran parte
già raggiunto senza aver speso un dollaro e una vita umana occidentale
in un reale sforzo bellico; le lobbies degli affari vogliono continuare
a commerciare con l'Iraq a prezzi vantaggiosi grazie ad un embargo che
lo costringe a svendere petrolio in cambio di tutto.
Lo stesso Saddam Hussein è titolare di un patrimonio personale,
custodito in banche estere, capace di pesare più di qualunque
violazione dei diritti umani o possesso di arma chimica. Si può quindi
ragionevolmente affermare che una grande guerra questa volta non ci sarà. Esaurita, a gran richiesta,
la vendita di tutto il vendibile nel settore delle armi e dei settori
collegati, scoppierà la pace, a tempo determinato, per lasciare spazio
agli altri affari.
E con la pace, cioè con il rinvio a nuova data di questa o di un'altra grande guerra da annunciare, ci sarà una significativa ripresa dei
mercati finanziari, a tempo determinato. L'economia degli scambi e dei
flussi finanziari internazionali non possono sostenere, oltre un certo
limite, la fibrillante condizione di attesa di un evento traumatico: la
guerra è un’antieconomia. Guerra e pace, pace e guerra, clima di pace
latente, clima di guerra latente. Ad intermittenza, questi periodi sono
e saranno sempre più coesistenti, contigui, coestensivi, rischiosamente
funzionali l’uno all’altro.
In questo scenario la sacrosanta mobilitazione contro la guerra rischia
di dover affrontare in futuro altri allarmi da grande
guerra, senza per altro poter intervenire efficacemente nella
frantumazione delle piccole guerre che già si combattono e si
combatteranno.
Questo il rischio e questa la sfida per un movimento per la pace
che non può che essere universale e locale allo stesso tempo. |