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Bush
insabbia le Torri
di Franco
Pantarelli – «Il Manifesto» 10
luglio 2003
I
capi della commissione d'indagine sull'11 settembre accusano il governo di «non
collaborare» e i funzionari di atteggiamenti «intimidatori». La Casa bianca
ammette l'«errore» sull'uranio iracheno ma lo scarica sui servizi di Londra.
Il numero di americani che credono che le cose in Iraq vadano bene è crollato
dal 61 al 23 percento, la popolarità di Bush è scesa al 60 percento
FRANCO
PANTARELLI - NEW YORK
Informazioni
false e informazioni negate: le due caratteristiche principali del governo di
George Bush - l'uso menzognero dei rapporti dei servizi di spionaggio e l'amore
sviscerato che mostra di nutrire per il segreto - hanno trovato una sorta di
unificazione nelle notizie di ieri. In rapida successione è accaduto: che la
commissione di indagine su come andarono le cose immediatamente prima e
immediatamente dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001 ha apertamente
accusato il governo, e in particolare i dipartimenti della Difesa e della
Giustizia, di «non collaborare»; che sulla ormai famosa storia dell'uranio che
l'Iraq avrebbe cercato di acquistare in vari paesi africani il dipartimento di
Stato aveva espresso dubbi praticamente subito dopo che Bush l'aveva
incautamente menzionata nel suo discorso sullo stato dell'unione del gennaio
scorso; che una Corte d'appello federale ha respinto la pretesa del vice
presidente Dick Cheney di mantenere il segreto sul «processo» attraverso cui
fu decisa la politica energetica. Il tutto condito da una nuova rilevazione
demoscopica secondo cui dal 9 aprile (il giorno in cui tutti gli schermi
televisivi del mondo mostrarono la statua di Saddam Hussein che veniva abbattuta
a Baghdad) ad oggi il numero di americani secondo cui in Iraq le cose vanno bene
è crollato dal 61 al 23 per cento. La storia della commissione d'indagine è la
più «fresca» ed anche la meno sostenibile, per un'amministrazione che
sull'attentato alle Torri gemelle di New York, nel dolore che ha causato e nella
paura che ha seminato, ha in pratica basato tutta la sua popolarità. Dopo la
rinuncia a presiederla da parte di Henry Kissinger, travolto dalle accuse di «conflitto
di interessi» per via dei rapporti di consulenza che la sua compagnia mantiene
con paesi che potevano essere coinvolti nelle indagini, alla guida della
commissione erano stati messi un presidente repubblicano, l'ex governatore del
New Jersey Thomas Kean, e un vice presidente democratico, l'ex deputato
dell'Indiana Lee Hamilton. Ora questi due signori, in perfetto accordo «bipartisan»,
denunciano: abbiamo chiesto migliaia di documenti e non ci sono stati
consegnati; abbiamo chiesto di interrogare vari funzionari e ci è stato
concesso solo in minima parte e solo alla presenza di superiori dei funzionari
in questione, con palesi intenti «intimidatori» (la parola è usata
espressamente). In queste condizioni, concludono, non saremo mai in grado di
presentare un rapporto entro la scadenza prevista, cioè il maggio dell'anno
prossimo. Kean e Hamilton dicono che questa specie di boicottaggio deriva forse
dal fatto che l'amministrazione «ha sottovalutato la portata di questo lavoro»,
ma il New York Times in un editoriale diceva ieri che i due responsabili
della commissione di indagine sono stati «troppo educati» e che i dipartimenti
della Difesa e della Giustizia si stanno comportando «più come il Cremlino ai
tempi dell'Unione Sovietica che come un governo americano».