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La
bufala dell’oro
di Carlo Bertani – 10 agosto 2007
Nei
lontani anni ’60, i “tormentoni” estivi si chiamavano “Con le
pinne il fucile e gli occhiali”, cantata dai Vianella,
oppure l’ultima canzone di Battisti: oggi – a testimoniare la
decadenza da basso impero che stiamo vivendo – c’è il tormentone
dell’oro della Banca d’Italia. Meglio le pinne e i fiori di pesco,
credetemi.
Tutto sembrerebbe nascere dalla
proposta di Fernando Rossi (uno dei dissidenti sull’Afghanistan) di
devolvere ad un piano d’edilizia pubblica il miliardo circa di euro
l’anno che si risparmierebbe.
Tale risparmio, se si vendesse l’oro di Stato (quanto, poi, tutto da
decidere), deriverebbe dai minori interessi che si pagherebbero sul
debito pubblico qualora si decidesse di regalare ai banchieri anche
l’oro italiano.
Scorrendo
alcuni forum sul Web, ho notato che molte persone ancora credono che
quell’oro sia il controvalore della moneta circolante: è bene
chiarire che l’oro che riposa nelle banche centrali non ha più –
per l’Italia – nessun rapporto con la moneta circolante dagli
accordi di Bretton Wood, nel 1944.
L’ancoraggio delle valute all’oro è vecchio come il mondo, e durò
praticamente fino alla Prima Guerra Mondiale.
L’entità delle devastazioni subite dai belligeranti –
A
margine, segnaliamo che nel Secondo Conflitto Mondiale le tonnellate
mandate a picco furono 32.000.000 circa, poco meno del doppio della
Prima: si tratta di circa 6.000 navi! Gli esseri umani, dunque, lavorano
come matti per costruire beni, impiegando enormi quantitativi
d’energia, per poi dilapidare tutto nelle guerre. Anche l’odierna
guerra in Iraq è una voragine energetica.
Tornando al 1919, la flotta inglese
era stata letteralmente dissanguata dagli U-boot e, al tavolo di
Versailles, i tedeschi consegnarono praticamente il loro oro nelle mani
dei loro ex nemici.
Per uscire dall’impasse, l’economista Hjalmar Schacht propose di
abbandonare il vecchio marco per una nuova moneta, il Rentenmark.
La nuova moneta non aveva corrispondenza aurea (non ce n’era!), e fu
creata ipotecando le industrie tedesche ed altri beni, ma era una moneta
di pura imputazione per il mercato interno, tanto che non poteva essere
usata per gli scambi internazionali, che dovevano avvenire in oro o in
altre valute.
Il
Rentenmark, in ogni modo,
riuscì a fermare l’apocalittica inflazione.
Nel 1944, affinché non si ripetessero gli errori del 1919 – ed anche
perché gli USA erano diventati i padroni del pianeta non comunista –
si trovò, a Bretton Wood, questa soluzione: solo il dollaro rimase
“ancorato” all’oro – e poteva quindi esserne richiesto il
controvalore in metallo – mentre le altre monete, per essere scambiate
nel prezioso metallo, dovevano prima essere convertite in dollari.
La fine del sistema aureo avvenne il giorno di Ferragosto del 1971:
siccome il dollaro era convertibile in oro, gli arabi chiesero a Nixon
di pagare il petrolio in oro e non in moneta cartacea.
Nei sotterranei di Fort Knox, c’era soltanto la quarta parte
dell’oro necessario per garantire la valuta circolante: gli USA, forti
del loro predominio sul pianeta, avevano semplicemente fatto girare le
rotative che stampavano i dollari 4 volte la velocità che avrebbero
dovuto avere per essere sincrone ai depositi aurei! Oggi, non pubblicano
nemmeno più i certificati M3, quelli che indicano quanti dollari si
stampano.
La
conseguenza fu che, il 15 agosto del 1971, Richard Nixon abolì
unilateralmente gli accordi di Bretton Wood: da qual giorno, non esiste
nessun rapporto fra le monete e l’oro. Il prezioso metallo è sì
ancora bene di rifugio, ma come un immobile o un giacimento petrolifero:
vale di più d’altri metalli, ma è ridiventato un metallo e basta.
La vicenda dell’oro apre altri scenari, ovvero il dibattito sul
signoraggio e su una seria teoria del valore, che oggi – praticamente
– non esiste.
Riflettiamo che, se produco una penna e la vendo per un euro, il giorno
dopo – la stessa penna prodotta dalla medesima persona – può valere
di meno perché l’euro è sceso nei confronti delle altre valute: in
pratica, il giorno dopo, io valgo meno del giorno prima! A questo siamo
arrivati.
La vicenda dell’oro e delle monete richiederebbe ben altro spazio e più
ampie precisazioni: quel che volevo soltanto chiarire, è che l’oro
della Banca d’Italia non garantisce l’Euro né altro. E’ oro e
basta, come quello che acquistano i gioiellieri.
La
decisione di vendere l’oro della Banca d’Italia, quindi, è simile
alla dismissione degli immobili delle Forze Armate, oppure di aree
demaniali: è un bene pubblico che viene venduto e nient’altro.
Ci sono dei limiti, imposti da un trattato sottoscritto dall’Italia,
per non immettere sul mercato più di 500 tonnellate d’oro l’anno:
come per qualsiasi bene, si cerca di non inflazionarne il valore con
vendite di massa.
La speculazione politica interna, sull’argomento, è di bassissima
lega: il “portavoce” di Berlusconi – quel guitto di Bonaiuti –
ha paragonato Prodi a Capitan Uncino, altri hanno gridato alla svendita
della Patria.
Il centro destra dimentica che fu proprio lui – nel 2004 – a varare
il provvedimento che consentiva la vendita dell’oro: Tremonti ci stava
pensando, ma incontrò il “nemico” Fazio sul suo cammino e non se ne
fece nulla.
Oggi,
temono soltanto che siano altri a farlo.
Il vero problema, quindi, è
stabilire a cosa servirà pagare un po’ di debito pubblico con
quell’oro.
Se Rossi propugna la costruzione di case popolari, non dimentichiamo che
l’ipotetica decisione sarà presa da un governo. Quello successivo,
potrebbe decidere di destinarlo alle missioni di “pace”
all’estero.
In altre parole, smobilizziamo un bene di rifugio per convertirlo in
beni fruibili: ma a chi? E per farne che cosa?
A quanto ammonta questo benedetto oro? Quanto renderebbe venderlo?
Le
riserve auree ammontano a 2.451,8 tonnellate per un controvalore di
37,970 miliardi di euro[3].
Insomma, vendendo tutto, in parecchi anni, ricaveremmo 38 miliardi di
euro: siamo probabilmente intorno al 2% del debito pubblico. Mi rendo
conto che, a questo punto, molti italiani saranno delusi. Tutto qui?
Con il risparmi sugli interessi, potremmo ricavare ogni anno 1 miliardo
di euro che ogni governo – passata la novità – inserirebbe in
Finanziaria per il consueto balletto delle ripartizioni partitiche.
Non è quindi possibile attuare un piano come quello di Fernando Rossi
– pur ammettendo la sua completa buona fede – perché qualche anno
dopo – poniamo Berlusconi – li consegnerebbe probabilmente tutti al
suo amico Lunardi, per spargere un po’ di cemento qui e là.
L’unica
soluzione, che legherebbe le mani ai politici, sarebbe quella
d’inserire la destinazione dei risparmi in Costituzione, ma non la
vedo come una via molto praticabile.
Quel “tesoro”, che fa
inorridire Bonaiuti, non corrisponde nemmeno alla bolletta energetica
annua italiana, che per il 2007 è previsto che si attesti intorno ai 45
miliardi di euro[4]:
insomma, con tutto l’oro della Banca d’Italia, non riusciamo nemmeno
a pagare petrolio, gas, carbone ed elettricità per un anno!
Se, invece, l’Italia varasse finalmente un serio programma per le
rinnovabili – eolico in testa, senza trascurare però il piccolo e
medio idroelettrico, il risparmio energetico, il fotovoltaico e domani
il termodinamico – potremmo raggiungere gli obiettivi che l’UE ci
chiede, ossia un 10% in più dell’attuale sulle rinnovabili.
Quanto
fa il 10% su 45 miliardi?
Sarebbero 4,5 miliardi di euro che rimarrebbero nelle tasche degli
italiani e che non prenderebbero la via dell’estero. Il miliardo
dell’oro, a questo punto, semplicemente sparisce.
Gli esempi si sprecano: a Varese Ligure, ogni anno – grazie a due soli
aerogeneratori – immettono nelle casse comunali 30.000 euro, e i
bilanci dei piccoli comuni sono più facilmente controllabili dalla
gente. Mica sono i bilanci di ENI ed ENEL: nei comuni, se il bilancio è
in attivo, la gente chiede la riduzione o la cancellazione dell’ICI,
altrimenti non ti vota più. Sono soltanto sogni di mezza estate? No.
Senza
andare troppo lontano, basta che mi sporga dalla finestra: l’antico
mulino del mio piccolo paese, non usa più la cascata per far girare le
macine; la utilizza, invece, per produrre energia elettrica mediante una
turbina e quando deve far ruotare le macine fa uso la corrente di rete.
La turbina produce 30 KW/h continuativi, giacché è alimentata da una
roggia che spilla a monte l’acqua: in un giorno, quindi, ricava 720 KW/h,
che al prezzo medio di 7 centesimi di euro (calcolando una media sui
valori della Borsa Energetica) fanno 50 euro il giorno, 1500 euro il
mese. Senza far nulla.
Quante
famiglia italiane vedrebbero risolti i loro problemi economici, se
potessero contare su un introito mensile extra di 1.500 euro? Quante
rogge dimenticate, canali abbandonati che servivano vecchi mulini ci
sono in Italia? Migliaia? Decine di migliaia? Quanti italiani
conservano, per diritto ereditario, il privilegio di servirsi di quelle
acque? Quante potrebbero essere messe a disposizione di chi perde il
lavoro?
Se si mettesse mano seriamente al “sistema acqua” italiano,
scopriremmo che, un mare d’energia che i nostri nonni traevano dalle
semplici macchine ad acqua di pianura e di collina, oggi è abbandonato.
Acqua che diventa ricchezza, non l’oro del re Mida.
Già, ma quei soldi finirebbero nelle tasche degli italiani e non nei
bilanci di ENI ed ENEL, che hanno il Tesoro come azionista!
Invece, pensiamo di risolvere – come una vecchia famiglia nobile
decaduta – i nostri problemi vendendo l’argenteria: questo è il
livello del dibattito politico italiano. Mai guardare al futuro, mai
cercare soluzioni sensate ed innovative, mai modificare l’esistente.
Piuttosto, si vende l’argenteria.
Torniamo
ad ascoltare “Con le pinne il fucile e gli occhiali”, che è meglio.
Carlo
Bertani articoli@carlobertani.it
www.carlobertani.it
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