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C’eravamo persi la Persia ?
di Carlo Bertani - 8 settembre 2006

Appena terminata la guerra nel Libano, la diplomazia internazionale torna a porre in primo piano la questione del programma nucleare iraniano, come se non ci fosse più altro tempo da perdere ed il ricorso alle sanzioni od alle armi sia oramai inevitabile.
C’è chi considera le attuali tensioni fra gli USA, l’Europa e l’Iran come una novità dei nostri tempi; eppure, a ben vedere, l’atteggiamento delle potenze coloniali nei confronti della Persia non furono molto diverse: anzi, sembra quasi che il film della storia sia stato riavvolto per poi svolgerlo nuovamente verso il futuro.

Senza andare troppo a ritroso nel tempo – lasciando dormire in pace Alessandro Magno e Zoroastro  – stupirà osservare come prima le Persia, e dal 1934 l’Iran, siano stati pressoché immuni dalle dominazioni coloniali.
Al termine della dominazione abbaside (1051), di quella turca e dei mongoli, la dinastia Safavide (1502-1722) pose le basi dello stato persiano, anche se giunsero successivamente le invasioni degli afgani e la dinastia dei Cagiari, che resse il paese dal 1779 al 1923.
Le basi di questa salda unità statuale sono da ricercare prevalentemente nel solido rapporto esistente fra il potere politico ed il clero sciita che – a differenza di quello sunnita – ha un’organizzazione ed una gerarchia ben definite.

Il rapporto fra la dinastia Safavide ed il clero sciita iniziò ben due secoli prima del “patto” stretto fra lo shaik Ibn Abd Al Wahab (dal quale deriva l’appellativo di wahabiti per i musulmani sunniti sauditi) e l’emiro Muhammad Bin Saud, capostipite della tribù degli Anaza e fondatore della dinastia saudita.
La differenza, però, non è tanto da ricercare nella maggior “anzianità” del “patto” persiano, quanto sulle basi stesse sul quale poggia. Nell’islam sunnita vi sono figure che sono ritenute di grande autorevolezza – come l’Imam dell’Istituto di Al-Azhar del Cairo od il Gran Muftì di Gerusalemme – ma non esiste nessun dettato che raggruppi i religiosi in una gerarchia.
Il fatto non è positivo o negativo in sé – giacché un clero non organizzato è senz’altro più libero dalle ingerenze gerarchiche – ma è ovvio che sia meno adatto per intessere relazioni con delle entità statuali che chiedono – all’altra parte – figure ben determinate sulle quali fare affidamento.

La cosa ancor più sorprendente è che le città sante della confessione sciita sono Najaf e Kerbala – site in territorio iracheno – ma gli sciiti iraniani hanno a Qom (in Iran) una sorta di “Università monastica”, un centro del pensiero sciita, dal quale proviene anche gran parte del clero sciita iracheno.
Sulla base di questo solido rapporto (e vedremo in seguito quanto sarà importante) la Persia giunse al Novecento inoltrato senza subire i traumi sociali che dovettero subire altri paesi musulmani: basti pensare all’Egitto, all’Algeria od alla Palestina.
Il periodo fra le due guerre mondiali fu molto importante per la Persia : gli ultimi re Cagiari meditarono di varare un’assemblea legislativa (Majlis) e l’importante passaggio avvenne con Reza Khan, politico abile ed ambizioso, che divenne successivamente Shah con il nome di Mohammed Reza I.

Negli stessi anni, cresceva d’importanza il mercato petrolifero: il periodo fra le due guerre mondiali corrispose alla transizione dal carbone al petrolio nella propulsione navale, mentre automobili ed aeroplani nacquero già con motori a combustibili liquidi.
Per questa ragione, i britannici obbligarono la Persia (divenuta Iran nel 1934) ad accettare una sorta di blando protettorato, in coabitazione con i sovietici, soprattutto per evitare che un successo nazista in Africa settentrionale aprisse la via verso l’Indo.
Se Hitler sosteneva che le due città “chiave” nella sua marcia verso oriente erano Alessandria d’Egitto e Bassora, gli inglesi seppero mantenere il controllo dell’Iraq (soffocando nel 1941 la rivolta interna blandamente appoggiata dall’Asse), dell’Iran e del petrolio iraniano ma senza mai giungere ad un’amministrazione coloniale.

Nel 1941 Mohammed Reza I abdicò e salì al trono il figlio – Mohammed Reza II – che governò fino al 1979, ovvero fino alla nascita della Repubblica Islamica dell’Iran.
Il primo dopoguerra fu una stagione assai ricca d’avvenimenti, che ancora oggi lasciano una traccia nella politica iraniana: un segno profondo, che porta impresso il nome di Mohammad Mossadeq.
Come già abbiamo ricordato, gli inglesi avevano forti interessi petroliferi in Iran, che gestivano mediante una società mista, la Anglo Iranian Oil Company; ebbene, nel solo 1947, la compagnia estrasse dai giacimenti iraniani e commercializzò petrolio per 112 milioni di $, una somma enorme per l’epoca, considerando che, a quel tempo, in Italia un salario netto medio era pari a 60 dollari il mese (oggi supera i 1.000). Orbene, di quella enorme cifra rimasero in tasca al governo iraniano 7 milioni di dollari, poco più del 6% del totale: ecco cosa intendiamo quando segnaliamo la “rapina” delle ricchezze naturali del pianeta da parte delle potenze coloniali! Dividiamo la torta: a me 94 ed a te 6. Non sei d’accordo? E chi se ne frega: se non ti piace ho proprio dietro l’angolo una portaerei per sistemare la faccenda.

Mohammad Mossadeq era un avvocato iraniano che aveva studiato in Europa: era un nazionalista con delle aperture socialdemocratiche, e fu Primo Ministro fino al 1953. Mossadeq chiese alla compagnia inglese di fissare un salario giornaliero minimo di 50 centesimi e di costruire – con una minima parte degli enormi profitti petroliferi – case e strutture sanitarie per i lavoratori iraniani.
Come si può notare non chiese la Luna , eppure anche quei pochi centesimi erano già troppi per gli avidi amministratori inglesi, che risposero picche alle richieste iraniane. La Gran Bretagna , però, non si trovava certo nella situazione di una potenza coloniale dominante, giacché soltanto tre anni dopo avrebbe abbandonato completamente le aree ad est di Suez.

In casi simili ci si ricorda degli amici, e gli “amici” – in quel caso – furono gli USA, la ex colonia oramai indiscussa potenza egemone del mondo occidentale. L’ex generale Eisenhower – presidente USA – sguinzagliò subito i suoi scagnozzi della CIA nel paese, ma Mossadeq fu avvertito del golpe in arrivo dall’ayatollah Kashani, massima espressione del clero iraniano dell’epoca.
Possiamo notare come già a quel tempo il clero sciita si schierò per un nazionalismo che tendeva a privilegiare le risorse minerarie iraniane per lo sviluppo locale, ed iniziò la contrapposizione con lo Shah, che avrebbe condotto anni dopo all’avvento di Khomeini.

Gli americani inviarono allora in Iran il generale Norman Schwarzkopf, che aveva comandato la guardia imperiale iraniana per anni: da esperto conoscitore della realtà iraniana, non gli fu difficile corrompere gli alti gradi militari per ottenere la destituzione di Mossadeq.
Così fu, ed al posto dell’avvocato progressista fu nominato Primo Ministro il generale Zahedi, fedele agli americani ed allo Shah, che divenne da quel momento in poi ostaggio della politica USA. Se lo strano connubio fra il repubblicano oltranzista Bush ed il tiepido laburista Blair può apparire stridente, alla luce dei trascorsi coloniali e neocoloniali delle due nazioni tanto assurdo non è.

Curiosità storica: nel 1991, un altro Norman Schwarzkopf comandava le truppe americane nel primo assalto all’Iraq, ed era il figlio del generale che seppe “liquidare” Mossadeq. Se questa follia delle avventure neocoloniali continuerà, potremo magari incontrare fra qualche anno un Norman Schwarzkopf III che comanderà un attacco in Corea od in Cina sotto un Bush III. Pessimo incubo.
I successivi 26 anni del regno di Mohammad Reza II – a parte le vicissitudini sentimentali del sovrano – furono segnati da un generale impoverimento della popolazione, ma da un relativo ammodernamento del paese, sul modello occidentale che il regnante intendeva seguire.
Le tensioni sociali sfociarono nel 1979 in aperta rivolta e, con il ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio, fu fondata la repubblica islamica, che dovette subito subire la lunga guerra scatenata in “conto terzi” (ossia pagata dall’Occidente) dall’Iraq del (oggi) “satrapo” Saddam Hussein.

In definitiva, l’Iran odierno è il prodotto di una serie di tensioni interne al paese, che però non condussero mai ad una dominazione straniera e, contemporaneamente, di un processo evolutivo (culturale e tecnologico) che non si è mai arrestato: questa è la sostanziale differenza fra l’Iran e gli altri stati musulmani dell’area, sia ad ovest (Arabia Saudita) sia ad est (Pakistan).
Questa lunga premessa è necessaria per comprendere le motivazioni politiche e strategiche di un eventuale attacco all’Iran, e gli scenari che potrebbero scaturire da questa eventuale sciagura.
Anche dal punto di vista geografico non si possono assolutamente confondere l’Iraq e l’Afghanistan con l’Iran:

Paese

Superficie (km2)

Abitanti (approx.)

Iraq

434.128

23 milioni

Afghanistan

649.969

20 milioni

Iran

1.648.196

80 milioni

Come possiamo osservare dalla tabella, l’Iran ha una superficie pari ad una volta e mezza quella della somma di quelle dell’Iraq  e dell’Afghanistan, ed una popolazione doppia rispetto alla somma di quelle afgana ed irachena.
Le cifre possono apparire aride e poco significative, ma la guerra è soprattutto una questione di potenzialità belliche e di obiettivi da raggiungere, che sono altre cifre, altri numeri.
Le guerre, però, non nascono da fumose affermazioni di scontri etnici o di civiltà: sono gli interessi economici a determinarle. Se esiste una contrapposizione etnica (come avvenne fin dai tempi dell’antica Grecia) si risolve con la vittoria di un’etnia dominante: i lunghi conflitti etnici in corso in varie parti del pianeta (pensiamo all’Africa) diventano interminabili quando le parti vengono aizzate e rifornite d’armi da chi ritiene di poter trarre vantaggio dalla perdurante instabilità.

Inutile ricordare che i motivi di contesa nell’area del Golfo Persico sono il petrolio ed il gas naturale: tutto il sangue che è scorso nell’ultimo mezzo secolo nell’area è stato generato dalla necessità di controllare – da parte delle potenze occidentali – la fornitura d’energia da quei luoghi.
Vediamo allora la situazione delle riserve petrolifere dei principali paesi dell’area[1]:

Paese

Riserve (milioni di barili)

Popolazione (approx)

Arabia Saudita

260.000

20 milioni

Iraq

100.000

23 milioni

Emirati Arabi Uniti

98.000

2,5 milioni

Kuwait

96.000

2 milioni

Iran

89.000

80 milioni

Possiamo osservare che le riserve iraniane sono stimate pressoché equivalenti a quelle degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait, che però hanno una popolazione irrisoria rispetto all’Iran: da qui nasce l’esigenza del programma nucleare iraniano.
I piccoli paesi del Golfo potranno continuare ancora per decenni ad estrarre, vendere petrolio e trasformarlo in denaro, investimenti o partecipazioni azionarie, giacché il rapporto fra la popolazione e le riserve consentirà loro di garantire il benessere alle loro popolazioni per lungo tempo.
L’Arabia Saudita si trova in una situazione intermedia, giacché non è certo che i proventi finanziari derivanti dal mercato petrolifero saranno sufficienti per creare investimenti tali da sostenere la popolazione anche quando i giacimenti saranno esauriti. Non a caso, il terrorismo di Al-Qaeda nasce proprio da settori della società saudita.

La situazione dell’Iraq è per certi versi abbastanza simile, anche se – data la situazione d’alta instabilità interna ed un futuro assolutamente non prevedibile – potremmo affermare, per dirla con Dante, che gli iracheni sono come “color che son sospesi”.
Il dato che invece salta agli occhi è il rapporto riserve/popolazione, il quale ci indica che un singolo abitate del Kuwait ha teoricamente a disposizione per il futuro una riserva di petrolio pari a 48.000 barili, mentre un iraniano ne possiede soltanto 1.113. In alte parole, un iraniano ha a disposizione soltanto la 43 esima parte delle riserve che ha a disposizione un kuwaitiano.

Da questa semplice constatazione dipende il futuro dei due paesi: mentre il Kuwait può tranquillamente ritenere che quei 48.000 barili pro-capite saranno sufficienti per garantire i livelli di reddito per molte generazioni – anche quando il petrolio sarà terminato, grazie agli investimenti effettuati nel tempo – per l’Iran diventa essenziale trasformare quei 1.113 barili a testa in tessuto produttivo, giacché nessun investimento sarà in grado di garantire, in futuro, la sopravvivenza ed i livelli di reddito degli iraniani.
Se l’Iran consuma quei 1.113 barili pro capite per alimentare l’apparato produttivo, non ci sono sufficienti risorse per acquistare all’estero la tecnologia necessaria per impiantare fabbriche ed infrastrutture, ossia tutto ciò che può far diventare l’Iran un paese produttore ed esportatore d’altri beni che non siano quelli energetici.

In definitiva, i piccoli stati del Golfo Persico hanno sufficiente petrolio per garantire loro decenni e forse secoli di ricchezza, ma dobbiamo anche ricordare che – proprio a causa della scarsa popolazione – non avrebbero altre scelte: la stessa Libia, con circa 8 milioni d’abitanti, è tributaria verso l’estero di quasi tutti i prodotti ed i servizi della tecnologia.
Possiamo quindi suddividere gli stati produttori di petrolio fra quelli che s’accontentano – per così dire – di scambiare il petrolio con i dollari (accettando tutti i rischi del caso) ed in quelli che invece considerano quella ricchezza mineraria come la base sulla quale costruire un apparato produttivo.
Dobbiamo notare che quella strada fu già percorsa dall’Iraq, che si vide bombardare da Israele – un vero e proprio atto di guerra, senza nessuna giustificazione giuridica – la sua prima centrale nucleare, ancora in costruzione.

L’Iran è chiaramente più determinato nel raggiungere gli obiettivi dell’Iraq – che si prestò a combattere contro l’Iran come una legione mercenaria al soldo dell’Occidente – proprio perché è una solida entità statuale, una concretezza che proviene dalla storia stessa del paese.
Il percorso evolutivo dell’Iran è osteggiato per vari motivi.
Il primo è sempre il solito, ovvero la determinazione europea ed americana di non permettere ai paesi produttori di petrolio di trasformare l’energia in tessuto produttivo: storicamente, è sempre stato l’Occidente a farlo (almeno negli ultimi cinque secoli) e perdere questo predominio significherebbe permettere un mutamento che – in definitiva – priverebbe gli apparati produttivi occidentali di parte del mercato.

Il secondo è da ricercare nel sempre più stretto rapporto che lega l’Iran alla Russia: i dollari di provenienza petrolifera prendono la via di Mosca, che contraccambia fornendo all’Iran tecnologie di vario tipo (fra le quali, quella nucleare) ed armi.
Il terzo riguarda i destinatari della produzione energetica iraniana, che sono sempre di più la Cina e l’India e sempre di meno l’Occidente: la Cina si è impegnata ad acquistare – a prezzi di mercato – gran parte del gas iraniano per i prossimi 25 anni.

Il quarto è invece una questione tutta interna ai paesi del Golfo Persico – che vedono la progressione economica dell’Iran come una possibile minaccia, ossia il timore che l’Iran diventi il paese egemone nell’area – e per questa ragione non si levano molte voci di protesta da parte dei paesi arabi alleati dell’Occidente, soprattutto da parte dell’Arabia Saudita.
Il quinto è la paventata borsa del petrolio in euro che Teheran minaccia di creare: notiamo come questo raffinato strumento sia un “grimaldello” per differenziare la posizione europea da quella USA.
Invece, si grida “al lupo” perché l’Iran vuole costruire centrali nucleari: alla luce del diritto internazionale, chi può chiedere a Teheran di soprassedere?

Non esiste nessun principio giuridico che neghi la possibilità per qualsiasi paese di dotarsi di centrali nucleari a scopo civile: qualsiasi risoluzione dell’ONU che indicasse il contrario sarebbe in aperta violazione delle norme internazionali, secondo le quali la politica energetica di una nazione può deciderla esclusivamente il suo governo. Su questo punto non c’è assolutamente nulla da aggiungere (a parte le obiezioni di tipo ecologico), a meno d’accettare che le cinque nazioni con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU siano le sole depositarie per qualsiasi decisione che riguardi l’intero pianeta.

Il timore più volte espresso da Washington è quello che Teheran si doti d’armi nucleari, il che sarebbe perfettamente possibile – ma fra parecchi anni – giacché il processo d’arricchimento dell’Uranio per scopi militari è parecchio più lungo e tecnologicamente più complesso di quello per uso civile.
Anche se l’Iran si dotasse d’armi nucleari, chi potrebbe impedirglielo? Le nazioni che sono piene zeppe di testate e missili? Strano modo d’intendere i rapporti internazionali: io ho l’arma assoluta e, per comandarti a bacchetta, sostengo che tu non dovrai mai costruirla.

Analizzando meglio lo scenario mondiale, bisogna evidenziare che – a parte le cinque nazioni uscite vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale, USA, Russia, GB, Francia e Cina – la prima nazione che costruì armi atomiche fu l’India.
L’atomica indiana fu un elemento di stabilizzazione dell’area – non per la storica contrapposizione con il Pakistan – bensì per stemperare eventuali attriti con la Cina , che avrebbero condotto il continente verso una guerra apocalittica.
Quando anche l’India ebbe le armi nucleari, i rapporti fra i due paesi divennero meno tesi ed oggi stanno virando decisamente verso il bel tempo, soprattutto perché la Cina è una grande produttrice di beni di consumo (anche d’elevato livello tecnologico) mentre l’India ha centrato la sua attenzione più sulla ricerca e sul know-how: in un certo senso, si tratta di un’intesa che ha basi simbiotiche.

La seconda nazione che pervenne all’atomica fu Israele e questo non fu un elemento di stabilizzazione, giacché l’arma atomica consentì a Tel Aviv di rapportarsi con i vicini arabi da una posizione di potenza: questa è stata una delle ragioni dell’interminabile conflitto per la Palestina.
La legge mai scritta dell’equilibrio nucleare prevede che due o più competitori ne siano provvisti: la consapevolezza di poter subire un attacco della stessa natura, porta le armi nucleari a diventare un mero simbolo di deterrenza.
L’atomica israeliana ha invece condotto ad uno strapotere di Tel Aviv nell’area, che si è sentita sollevata dall’intrattenere normali trattative diplomatiche per risolvere i molti nodi della regione, ma c’è ancora di peggio.

La vera atomica “impazzita” è quella pakistana, e non si venga qui a raccontare che l’Occidente non sapeva nulla, quando anche Benazir Bhutto dichiarò che “avrebbero mangiato soltanto cicoria, pur di raggiungere l’atomica”.
Al Pakistan fu consentito di dotarsi di armi nucleari: ma chi è il Pakistan?
Il Pakistan è uno dei paesi più instabili del pianeta: nato per essere la patria dei musulmani d’Oriente – dopo l’indipendenza indiana – ha sempre fatto di una retorica difesa dell’Islam la sua bandiera. Allo stesso tempo – vista la vicinanza dell’India all’URSS ed oggi alla Russia – fu da sempre considerato un alleato chiave per gli USA nello scacchiere orientale.

Washington sapeva che Islamabad sosteneva apertamente il regime talebano di Kabul – al punto che i pochi e decrepiti Mig dei talebani erano condotti in volo da piloti pakistani – ma faceva finta di nulla, come si è voltata dall’altra parte mentre i pakistani costruivano l’atomica.
E’ forse un paese più stabile dell’Iran?

Dopo la stagione di Zulfikar Alì Bhutto – che intraprese una politica di nazionalizzazioni – salì al potere nel 1977 con un colpo di stato il generale Zia Ul Aq, che si liberò del suo predecessore facendolo semplicemente impiccare. Zia Ul Aq – fanatico integralista – morì in un misterioso incidente aereo nel 1988 – forse una vendetta sovietica per l’appoggio fornito ala resistenza afgana, più probabilmente una “ripulitura” del comparto “alleati spazzatura” da parte di Washington – e salì al potere la figlia del socialdemocratico Alì Bhutto, Benahzir, oggi esule in Europa dopo l’ennesimo colpo di stato che ha condotto al potere il generale Musharraf.

La situazione odierna del Pakistan vede Musharraf (un dittatore al pari di Saddam Hussein) mantenere un precario equilibrio, giacché la popolazione è fra le più vicine agli ambienti estremisti dell’integralismo islamico, e persino molti appartenenti ai servizi di sicurezza (ISI) non nascondono simpatie per Al-Qaeda.
Si tratta evidentemente, per Washington, di un paese stabile, che ben “merita” di possedere l’arma atomica, giacché siamo certi che la sua salda e riflessiva classe politica – e le sue solide basi democratiche – sapranno controllare l’impulso di premere il fatidico bottone. Stano modo di declinare la democrazia, dalle parti del Pentagono e della Casa Bianca.

Eppure, anche in questo panorama di non esaltante equilibrio democratico, forse possiamo affermare che l’atomica pakistana ha già condotto ad una maggior attenzione nel rapporto con l’India per la spinosa questione del Kashmir. Probabilmente – circa tre anni or sono, in un momento d’acuta tensione – il possesso d’armi atomiche da parte d’entrambi i contendenti ha scongiurato una nuova guerra convenzionale.
Ipotizziamo allora un Iran armato con missili (che già possiede, con una gittata che raggiunge il Mediterraneo) con testate nucleari: lo scenario che tendono a farci passare come “inevitabile” è il lancio di quelle armi su Israele.
Chi sostiene questa tesi ha mai riflettuto su quali sarebbero le conseguenze?

Israele lancerebbe immediatamente i suoi missili con testate nucleari sulle città iraniane; risultato: nell’arco di poche ore non esisterebbero più né Israele né l’Iran. Chi dei due contendenti ne trarrebbe vantaggio?
Non certo Israele, ma nemmeno l’Iran, poiché non raggiungerebbe l’obiettivo di restituire la Palestina ai palestinesi: consegnerebbe ai (sopravvissuti) palestinesi una landa desolata, radioattiva, completamente distrutta.

A questo punto, i sostenitori della pericolosità dell’Iran sentenziano che a Teheran sono tutti pazzi e – pur di distruggere Israele – accetterebbero la completa distruzione del loro paese.
I conti non quadrano, giacché gli iraniani – distruggendo completamente il loro paese – consegnerebbero ciò che rimarrebbe del Golfo Persico ai sunniti sauditi, e questa è proprio l’ultima delle mire politiche di Teheran.
Quale sarebbe allora il significato di una eventuale atomica iraniana? L’eventuale atomica di Teheran varrebbe quanto quella coreana: un minimo potere di deterrenza per scoraggiare altri verso avventure belliche nei confronti dell’Iran. Per come l’Occidente ha trattato l’Iran nel Novecento, qualche motivo per essere sospettosi l’hanno.

L’unico paese che invece parla di un uso “tattico” delle armi nucleari sono gli USA: non sarebbe possibile distruggere l’Iran come l’Iraq senza le armi nucleari per molte ragioni: l’ampiezza del paese, il grande numero di siti da colpire (molti in bunker sotterranei), le difese antiaeree iraniane, la stessa aeronautica, gli attacchi alla navigazione nel Golfo Persico, la determinazione alla difesa del proprio paese degli iraniani, non divisi in più etnie come gli iracheni.
Non possiamo sorvolare sul fatto che l’unico paese a sostenere un uso “tattico” delle armi nucleari è lo stesso che ne fece uso nel 1945 contro il Giappone: l’azione bellica più devastante e criminale mai condotta contro delle popolazioni civili.

L’uso “tattico” delle armi nucleari americane condurrebbe alla soluzione del problema, ossia tutto finirebbe con la resa degli iraniani? Può darsi, ma ci sono alcuni “se” e “ma” molto, ma veramente molto sinistri.
Se gli iraniani hanno acquistato dapprima i missili coreani Nodong e li hanno successivamente migliorati (Sharab III e IV) è molto improbabile che siano dotati di sole testate ad esplosivo: le testate chimiche e batteriologiche sono armi relativamente più facili da costruire o da ottenere.
L’Arabia Saudita ha recentemente ristrutturato il proprio arsenale missilistico con materiale cinese, ed i nuovi missili sono stati installati in bunker sotterranei, come quelli iraniani. Parecchi analisti concordano sul fatto che i sauditi hanno armato i loro missili con testate chimiche e batteriologiche: perché gli iraniani non l’avrebbero fatto?

Invece del possibile futuro scenario di un Iran armato di bombe atomiche, quale sarebbe quello molto più realistico di una guerra nella quale gli USA attaccassero l’Iran e gli iraniani rispondessero con le testate chimiche e batteriologiche?
Supponiamo che all’uso d’armi nucleari cosiddette “tattiche” per colpire i bunker iraniani, Teheran rispondesse con il lancio di missili con testate chimiche e batteriologiche contro Israele.
Un’arma nucleare uccide con un’onda di calore di migliaia di gradi e con la stessa onda d’urto generata dall’esplosione: a seconda della potenza dell’ordigno, chi viene colpito è polverizzato in frazioni di secondo, mentre chi si trova più lontano dall’esplosione viene colpito dalle radiazioni e s’avvia verso una morte lenta dovuta alle ustioni ed alle radiazioni stesse.

Un’arma chimica rilascia dei gas che si espandono in pochi secondi nel raggio d’alcuni chilometri: chi inspira anche una sola volta i gas si ritrova con i polmoni bruciati all’istante dall’agente chimico, e muore nel giro di qualche decina di minuti sputando letteralmente i polmoni in terra. Ci sono poi gli aggressivi nervini, che paralizzano la respirazione e le funzioni vitali provocando la morte per asfissia in pochi minuti.
Le armi batteriologiche sono molto subdole ed ancor più terribili: apparentemente non accade nulla, ma gli agenti patogeni modificati in laboratorio sono insensibili a qualsiasi vaccino, giacché il paese attaccato non sa quale ceppo di quale batterio verrà utilizzato nell’attacco, mentre l’infezione è immediata.

La morte è più lenta: giorni, a volte settimane. I sintomi sono febbri altissime e degenerazioni degli apparati interni, fegato e reni in particolare. Le maschere antigas servono a poco od a nulla, così come le cure dei sanitari: le esercitazioni messe in atto in caso d’attacco batteriologico sono soltanto degli sproloqui mediatici utilizzati per rassicurare le popolazioni.
La virulenza dei batteri varia molto secondo l’agente utilizzato: per mesi – in ogni modo – nessuno sarebbe al sicuro nelle aree colpite. Anche l’evacuazione – trattandosi di migliaia o milioni di persone infette – sarebbe difficoltosa e molti stati chiuderebbero semplicemente le loro frontiere.
Dopo un simile attacco, Israele risponderebbe con il suo arsenale atomico, uccidendo la quasi totalità della popolazione iraniana ed irrorando l’Iran con una quantità di radiazioni che lo renderebbero inabitabile per decenni.

Il risultato finale sarebbero due lande desolate, l’una inquinata dai residui degli agenti chimici e batteriologici, l’altra dall’olocausto nucleare.
Per gli USA, ci sarebbe un solo risultato positivo: aver impedito all’Iran di diventare una potenza regionale – giacché l’estrazione petrolifera, per anni, sarebbe da dimenticare – mentre Israele e l’Iran non raggiungerebbero nessun obiettivo, bensì otterrebbero solo la loro completa distruzione.
Tutta la strategia d’alcuni personaggi americani ed israeliani per un attacco all’Iran (giacché non tutti negli USA ed in Israele ne sono, per fortuna, persuasi) poggia solo su quel “può darsi” che tutto ciò non avvenga, ossia che gli iraniani si lascino bombardare con le armi atomiche “tattiche” senza protestare, che non lancino missili con testate chimiche o batteriologiche su Israele, sul fatto che Israele non lanci le sue testate atomiche.

Un “può darsi” sul quale giocare il rischio di una guerra mondiale, un “può darsi” sottile come una lama di Damasco.

Carlo Bertani bertani137@libero.it  www.carlobertani.it 


[1] Fonte: British Petroleum. Altre fonti potranno indicare cifre diverse, secondo le stime, l’estrazione e la scoperta di nuovi giacimenti, ma in questo caso è importante definire non tanto i valori assoluti, quanto il rapporto fra di essi.

 
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