|
- Pagina
storia
- Pagina guerra e terrorismo
C’eravamo
persi la Persia
?
di Carlo Bertani - 8 settembre 2006
Appena
terminata la guerra nel Libano, la diplomazia internazionale torna a
porre in primo piano la questione del programma nucleare iraniano, come
se non ci fosse più altro tempo da perdere ed il ricorso alle sanzioni
od alle armi sia oramai inevitabile.
C’è chi considera le attuali tensioni fra gli USA, l’Europa e
l’Iran come una novità dei nostri tempi; eppure, a ben vedere,
l’atteggiamento delle potenze coloniali nei confronti della Persia non
furono molto diverse: anzi, sembra quasi che il film della storia sia
stato riavvolto per poi svolgerlo nuovamente verso il futuro.
Senza
andare troppo a ritroso nel tempo – lasciando dormire in pace Alessandro
Magno e Zoroastro –
stupirà osservare come prima le Persia, e dal 1934 l’Iran, siano
stati pressoché immuni dalle dominazioni coloniali.
Al termine della dominazione abbaside (1051), di quella turca e dei
mongoli, la dinastia Safavide (1502-1722) pose le basi dello
stato persiano, anche se giunsero successivamente le invasioni degli
afgani e la dinastia dei Cagiari, che resse il paese dal 1779 al
1923.
Le basi di questa salda unità statuale sono da ricercare
prevalentemente nel solido rapporto esistente fra il potere politico ed
il clero sciita che – a differenza di quello sunnita – ha
un’organizzazione ed una gerarchia ben definite.
Il
rapporto fra la dinastia Safavide ed il clero sciita iniziò ben due
secoli prima del “patto” stretto fra lo shaik
Ibn Abd Al Wahab (dal quale deriva l’appellativo di wahabiti
per i musulmani sunniti sauditi) e l’emiro Muhammad Bin Saud,
capostipite della tribù degli Anaza e fondatore della dinastia
saudita.
La differenza, però, non è tanto da ricercare nella maggior
“anzianità” del “patto” persiano, quanto sulle basi stesse sul
quale poggia. Nell’islam sunnita vi sono figure che sono ritenute di
grande autorevolezza – come l’Imam dell’Istituto di Al-Azhar del
Cairo od il Gran Muftì di Gerusalemme – ma non esiste nessun dettato
che raggruppi i religiosi in una gerarchia.
Il fatto non è positivo o negativo in sé – giacché un clero non
organizzato è senz’altro più libero dalle ingerenze gerarchiche –
ma è ovvio che sia meno adatto per intessere relazioni con delle entità
statuali che chiedono – all’altra parte – figure ben determinate
sulle quali fare affidamento.
La
cosa ancor più sorprendente è che le città sante della confessione
sciita sono Najaf e Kerbala – site in territorio iracheno – ma gli
sciiti iraniani hanno a Qom (in Iran) una sorta di “Università
monastica”, un centro del pensiero sciita, dal quale proviene anche
gran parte del clero sciita iracheno.
Sulla base di questo solido rapporto (e vedremo in seguito quanto sarà
importante)
Il periodo fra le due guerre mondiali fu molto importante per
Negli
stessi anni, cresceva d’importanza il mercato petrolifero: il periodo
fra le due guerre mondiali corrispose alla transizione dal carbone al
petrolio nella propulsione navale, mentre automobili ed aeroplani
nacquero già con motori a combustibili liquidi.
Per questa ragione, i britannici obbligarono
Se Hitler sosteneva che le due città “chiave” nella sua
marcia verso oriente erano Alessandria d’Egitto e Bassora, gli inglesi
seppero mantenere il controllo dell’Iraq (soffocando nel 1941 la
rivolta interna blandamente appoggiata dall’Asse), dell’Iran e del
petrolio iraniano ma senza mai giungere ad un’amministrazione
coloniale.
Nel
1941 Mohammed Reza I abdicò e salì al trono il figlio – Mohammed
Reza II – che governò fino al 1979, ovvero fino alla nascita
della Repubblica Islamica dell’Iran.
Il primo dopoguerra fu una stagione assai ricca d’avvenimenti, che
ancora oggi lasciano una traccia nella politica iraniana: un segno
profondo, che porta impresso il nome di Mohammad Mossadeq.
Come
già abbiamo ricordato, gli inglesi avevano forti interessi petroliferi
in Iran, che gestivano mediante una società mista,
Mohammad
Mossadeq era un avvocato iraniano che aveva studiato in Europa: era un
nazionalista con delle aperture socialdemocratiche, e fu Primo Ministro
fino al 1953. Mossadeq chiese alla compagnia inglese di fissare un
salario giornaliero minimo di 50 centesimi e di costruire – con una
minima parte degli enormi profitti petroliferi – case e strutture
sanitarie per i lavoratori iraniani.
Come si può notare non chiese
In
casi simili ci si ricorda degli amici, e gli “amici” – in quel
caso – furono gli USA, la ex colonia oramai indiscussa potenza egemone
del mondo occidentale. L’ex generale Eisenhower
– presidente USA – sguinzagliò subito i suoi scagnozzi della CIA
nel paese, ma Mossadeq fu avvertito del golpe in arrivo dall’ayatollah
Kashani, massima espressione del clero iraniano dell’epoca.
Possiamo
notare come già a quel tempo il clero sciita si schierò per un
nazionalismo che tendeva a privilegiare le risorse minerarie iraniane
per lo sviluppo locale, ed iniziò la contrapposizione con lo Shah,
che avrebbe condotto anni dopo all’avvento di Khomeini.
Gli
americani inviarono allora in Iran il generale Norman Schwarzkopf,
che aveva comandato la guardia imperiale iraniana per anni: da esperto
conoscitore della realtà iraniana, non gli fu difficile corrompere gli
alti gradi militari per ottenere la destituzione di Mossadeq.
Così fu, ed al posto dell’avvocato progressista fu nominato Primo
Ministro il generale Zahedi, fedele agli americani ed allo Shah,
che divenne da quel momento in poi ostaggio della politica USA. Se lo
strano connubio fra il repubblicano oltranzista Bush ed il
tiepido laburista Blair può apparire stridente, alla luce dei
trascorsi coloniali e neocoloniali delle due nazioni tanto assurdo non
è.
Curiosità
storica: nel 1991, un altro Norman Schwarzkopf comandava le truppe
americane nel primo assalto all’Iraq, ed era il figlio del generale
che seppe “liquidare” Mossadeq. Se questa follia delle avventure
neocoloniali continuerà, potremo magari incontrare fra qualche anno un Norman
Schwarzkopf III che comanderà un attacco in Corea od in Cina sotto
un Bush III. Pessimo incubo.
I successivi 26 anni del regno di Mohammad Reza II – a parte le
vicissitudini sentimentali del sovrano – furono segnati da un generale
impoverimento della popolazione, ma da un relativo ammodernamento del
paese, sul modello occidentale che il regnante intendeva seguire.
Le tensioni sociali sfociarono nel
In
definitiva, l’Iran odierno è il prodotto di una serie di tensioni
interne al paese, che però non condussero mai ad una dominazione
straniera e, contemporaneamente, di un processo evolutivo (culturale e
tecnologico) che non si è mai arrestato: questa è la sostanziale
differenza fra l’Iran e gli altri stati musulmani dell’area, sia ad
ovest (Arabia Saudita) sia ad est (Pakistan).
Questa
lunga premessa è necessaria per comprendere le motivazioni politiche e
strategiche di un eventuale attacco all’Iran, e gli scenari che
potrebbero scaturire da questa eventuale sciagura.
Anche dal punto di vista geografico non si possono assolutamente
confondere l’Iraq e l’Afghanistan con l’Iran:
Paese |
Superficie
(km2) |
Abitanti
(approx.) |
Iraq |
434.128 |
23
milioni |
Afghanistan |
649.969 |
20
milioni |
Iran |
1.648.196 |
80
milioni |
Come
possiamo osservare dalla tabella, l’Iran ha una superficie pari ad una
volta e mezza quella della somma di quelle dell’Iraq
e dell’Afghanistan, ed una popolazione doppia rispetto alla
somma di quelle afgana ed irachena.
Le cifre possono apparire aride e poco significative, ma la guerra è
soprattutto una questione di potenzialità belliche e di obiettivi da
raggiungere, che sono altre cifre, altri numeri.
Le guerre, però, non nascono da fumose affermazioni di scontri etnici o
di civiltà: sono gli interessi economici a determinarle. Se esiste una
contrapposizione etnica (come avvenne fin dai tempi dell’antica
Grecia) si risolve con la vittoria di un’etnia dominante: i lunghi
conflitti etnici in corso in varie parti del pianeta (pensiamo
all’Africa) diventano interminabili quando le parti vengono aizzate e
rifornite d’armi da chi ritiene di poter trarre vantaggio dalla
perdurante instabilità.
Inutile
ricordare che i motivi di contesa nell’area del Golfo Persico sono il
petrolio ed il gas naturale: tutto il sangue che è scorso nell’ultimo
mezzo secolo nell’area è stato generato dalla necessità di
controllare – da parte delle potenze occidentali – la fornitura
d’energia da quei luoghi.
Vediamo allora la situazione delle riserve petrolifere dei principali
paesi dell’area[1]:
Paese |
Riserve
(milioni di barili) |
Popolazione
(approx) |
Arabia
Saudita |
260.000 |
20
milioni |
Iraq |
100.000 |
23
milioni |
Emirati
Arabi Uniti |
98.000 |
2,5
milioni |
Kuwait |
96.000 |
2
milioni |
Iran |
89.000 |
80
milioni |
Possiamo
osservare che le riserve iraniane sono stimate pressoché equivalenti a
quelle degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait, che però hanno una
popolazione irrisoria rispetto all’Iran: da qui nasce l’esigenza del
programma nucleare iraniano.
I piccoli paesi del Golfo potranno continuare ancora per decenni ad
estrarre, vendere petrolio e trasformarlo in denaro, investimenti o
partecipazioni azionarie, giacché il rapporto fra la popolazione e le
riserve consentirà loro di garantire il benessere alle loro popolazioni
per lungo tempo.
L’Arabia Saudita si trova in una situazione intermedia, giacché non
è certo che i proventi finanziari derivanti dal mercato petrolifero
saranno sufficienti per creare investimenti tali da sostenere la
popolazione anche quando i giacimenti saranno esauriti. Non a caso, il
terrorismo di Al-Qaeda nasce proprio da settori della società saudita.
La
situazione dell’Iraq è per certi versi abbastanza simile, anche se
– data la situazione d’alta instabilità interna ed un futuro
assolutamente non prevedibile – potremmo affermare, per dirla con
Dante, che gli iracheni sono come “color che son sospesi”.
Il dato che invece salta agli occhi è il rapporto riserve/popolazione,
il quale ci indica che un singolo abitate del Kuwait ha teoricamente a
disposizione per il futuro una riserva di petrolio pari a 48.000 barili,
mentre un iraniano ne possiede soltanto 1.113. In alte parole, un
iraniano ha a disposizione soltanto la 43 esima parte delle riserve che
ha a disposizione un kuwaitiano.
Da
questa semplice constatazione dipende il futuro dei due paesi: mentre il
Kuwait può tranquillamente ritenere che quei 48.000 barili pro-capite
saranno sufficienti per garantire i livelli di reddito per molte
generazioni – anche quando il petrolio sarà terminato, grazie agli
investimenti effettuati nel tempo – per l’Iran diventa essenziale
trasformare quei 1.113 barili a testa in tessuto produttivo, giacché
nessun investimento sarà in grado di garantire, in futuro, la
sopravvivenza ed i livelli di reddito degli iraniani.
Se l’Iran consuma quei 1.113 barili pro capite per alimentare
l’apparato produttivo, non ci sono sufficienti risorse per acquistare
all’estero la tecnologia necessaria per impiantare fabbriche ed
infrastrutture, ossia tutto ciò che può far diventare l’Iran un
paese produttore ed esportatore d’altri beni che non siano quelli
energetici.
In
definitiva, i piccoli stati del Golfo Persico hanno sufficiente petrolio
per garantire loro decenni e forse secoli di ricchezza, ma dobbiamo
anche ricordare che – proprio a causa della scarsa popolazione – non
avrebbero altre scelte: la stessa Libia, con circa 8 milioni
d’abitanti, è tributaria verso l’estero di quasi tutti i prodotti
ed i servizi della tecnologia.
Possiamo quindi suddividere gli stati produttori di petrolio fra quelli
che s’accontentano – per così dire – di scambiare il petrolio con
i dollari (accettando tutti i rischi del caso) ed in quelli che invece
considerano quella ricchezza mineraria come la base sulla quale
costruire un apparato produttivo.
Dobbiamo notare che quella strada fu già percorsa dall’Iraq, che si
vide bombardare da Israele – un vero e proprio atto di guerra, senza
nessuna giustificazione giuridica – la sua prima centrale nucleare,
ancora in costruzione.
L’Iran
è chiaramente più determinato nel raggiungere gli obiettivi
dell’Iraq – che si prestò a combattere contro l’Iran come una
legione mercenaria al soldo dell’Occidente – proprio perché è una
solida entità statuale, una concretezza che proviene dalla storia
stessa del paese.
Il percorso evolutivo dell’Iran è osteggiato per vari motivi.
Il primo è sempre il solito, ovvero la determinazione europea ed
americana di non permettere ai paesi produttori di petrolio di
trasformare l’energia in tessuto produttivo: storicamente, è sempre
stato l’Occidente a farlo (almeno negli ultimi cinque secoli) e
perdere questo predominio significherebbe permettere un mutamento che
– in definitiva – priverebbe gli apparati produttivi occidentali di
parte del mercato.
Il
secondo è da ricercare nel sempre più stretto rapporto che lega
l’Iran alla Russia: i dollari di provenienza petrolifera prendono la
via di Mosca, che contraccambia fornendo all’Iran tecnologie di vario
tipo (fra le quali, quella nucleare) ed armi.
Il terzo riguarda i destinatari della produzione energetica iraniana,
che sono sempre di più
Il
quarto è invece una questione tutta interna ai paesi del Golfo Persico
– che vedono la progressione economica dell’Iran come una possibile
minaccia, ossia il timore che l’Iran diventi il paese egemone
nell’area – e per questa ragione non si levano molte voci di
protesta da parte dei paesi arabi alleati dell’Occidente, soprattutto
da parte dell’Arabia Saudita.
Il quinto è la paventata borsa del petrolio in euro che Teheran
minaccia di creare: notiamo come questo raffinato strumento sia un
“grimaldello” per differenziare la posizione europea da quella USA.
Invece, si grida “al lupo” perché l’Iran vuole costruire centrali
nucleari: alla luce del diritto internazionale, chi può chiedere a
Teheran di soprassedere?
Non
esiste nessun principio giuridico che neghi la possibilità per
qualsiasi paese di dotarsi di centrali nucleari a scopo civile:
qualsiasi risoluzione dell’ONU che indicasse il contrario sarebbe in
aperta violazione delle norme internazionali, secondo le quali la
politica energetica di una nazione può deciderla esclusivamente il suo
governo. Su questo punto non c’è assolutamente nulla da aggiungere (a
parte le obiezioni di tipo ecologico), a meno d’accettare che le
cinque nazioni con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU
siano le sole depositarie per qualsiasi decisione che riguardi
l’intero pianeta.
Il
timore più volte espresso da Washington è quello che Teheran si doti
d’armi nucleari, il che sarebbe perfettamente possibile – ma fra
parecchi anni – giacché il processo d’arricchimento dell’Uranio
per scopi militari è parecchio più lungo e tecnologicamente più
complesso di quello per uso civile.
Anche se l’Iran si dotasse d’armi nucleari, chi potrebbe
impedirglielo? Le nazioni che sono piene zeppe di testate e missili?
Strano modo d’intendere i rapporti internazionali: io ho l’arma
assoluta e, per comandarti a bacchetta, sostengo che tu non dovrai mai
costruirla.
Analizzando
meglio lo scenario mondiale, bisogna evidenziare che – a parte le
cinque nazioni uscite vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale, USA,
Russia, GB, Francia e Cina – la prima nazione che costruì armi
atomiche fu l’India.
L’atomica indiana fu un elemento di stabilizzazione dell’area –
non per la storica contrapposizione con il Pakistan – bensì per
stemperare eventuali attriti con
Quando anche l’India ebbe le armi nucleari, i rapporti fra i due paesi
divennero meno tesi ed oggi stanno virando decisamente verso il bel
tempo, soprattutto perché
La
seconda nazione che pervenne all’atomica fu Israele e questo non fu un
elemento di stabilizzazione, giacché l’arma atomica consentì a Tel
Aviv di rapportarsi con i vicini arabi da una posizione di potenza:
questa è stata una delle ragioni dell’interminabile conflitto per
La legge mai scritta dell’equilibrio nucleare prevede che due o più
competitori ne siano provvisti: la consapevolezza di poter subire un
attacco della stessa natura, porta le armi nucleari a diventare un mero
simbolo di deterrenza.
L’atomica israeliana ha invece condotto ad uno strapotere di Tel Aviv
nell’area, che si è sentita sollevata dall’intrattenere normali
trattative diplomatiche per risolvere i molti nodi della regione, ma
c’è ancora di peggio.
La
vera atomica “impazzita” è quella pakistana, e non si venga qui a
raccontare che l’Occidente non sapeva nulla, quando anche Benazir
Bhutto dichiarò che “avrebbero mangiato soltanto cicoria, pur di
raggiungere l’atomica”.
Al Pakistan fu consentito di dotarsi di armi nucleari: ma chi è il
Pakistan?
Il Pakistan è uno dei paesi più instabili del pianeta: nato per essere
la patria dei musulmani d’Oriente – dopo l’indipendenza indiana
– ha sempre fatto di una retorica difesa dell’Islam la sua bandiera.
Allo stesso tempo – vista la vicinanza dell’India all’URSS ed oggi
alla Russia – fu da sempre considerato un alleato chiave per gli USA
nello scacchiere orientale.
Washington
sapeva che Islamabad sosteneva apertamente il regime talebano di Kabul
– al punto che i pochi e decrepiti Mig dei talebani erano condotti in
volo da piloti pakistani – ma faceva finta di nulla, come si è
voltata dall’altra parte mentre i pakistani costruivano l’atomica.
E’ forse un paese più stabile dell’Iran?
Dopo
la stagione di Zulfikar Alì Bhutto – che intraprese una
politica di nazionalizzazioni – salì al potere nel 1977 con un colpo
di stato il generale Zia Ul Aq, che si liberò del suo
predecessore facendolo semplicemente impiccare. Zia Ul Aq – fanatico
integralista – morì in un misterioso incidente aereo nel 1988 –
forse una vendetta sovietica per l’appoggio fornito ala resistenza
afgana, più probabilmente una “ripulitura” del comparto “alleati
spazzatura” da parte di Washington – e salì al potere la figlia del
socialdemocratico Alì Bhutto, Benahzir, oggi esule in Europa dopo
l’ennesimo colpo di stato che ha condotto al potere il generale Musharraf.
La
situazione odierna del Pakistan vede Musharraf (un dittatore al pari di
Saddam Hussein) mantenere un precario equilibrio, giacché la
popolazione è fra le più vicine agli ambienti estremisti
dell’integralismo islamico, e persino molti appartenenti ai servizi di
sicurezza (ISI) non nascondono simpatie per Al-Qaeda.
Si tratta evidentemente, per Washington, di un paese stabile, che ben
“merita” di possedere l’arma atomica, giacché siamo certi che la
sua salda e riflessiva classe politica – e le sue solide basi
democratiche – sapranno controllare l’impulso di premere il fatidico
bottone. Stano modo di declinare la democrazia, dalle parti del
Pentagono e della Casa Bianca.
Eppure,
anche in questo panorama di non esaltante equilibrio democratico, forse
possiamo affermare che l’atomica pakistana ha già condotto ad una
maggior attenzione nel rapporto con l’India per la spinosa questione
del Kashmir. Probabilmente – circa tre anni or sono, in un momento
d’acuta tensione – il possesso d’armi atomiche da parte
d’entrambi i contendenti ha scongiurato una nuova guerra
convenzionale.
Ipotizziamo
allora un Iran armato con missili (che già possiede, con una gittata
che raggiunge il Mediterraneo) con testate nucleari: lo scenario che
tendono a farci passare come “inevitabile” è il lancio di quelle
armi su Israele.
Chi sostiene questa tesi ha mai riflettuto su quali sarebbero le
conseguenze?
Israele
lancerebbe immediatamente i suoi missili con testate nucleari sulle città
iraniane; risultato: nell’arco di poche ore non esisterebbero più né
Israele né l’Iran. Chi dei due contendenti ne trarrebbe vantaggio?
Non certo Israele, ma nemmeno l’Iran, poiché non raggiungerebbe
l’obiettivo di restituire
A
questo punto, i sostenitori della pericolosità dell’Iran sentenziano
che a Teheran sono tutti pazzi e – pur di distruggere Israele –
accetterebbero la completa distruzione del loro paese.
I conti non quadrano, giacché gli iraniani – distruggendo
completamente il loro paese – consegnerebbero ciò che rimarrebbe del
Golfo Persico ai sunniti sauditi, e questa è proprio l’ultima delle
mire politiche di Teheran.
Quale sarebbe allora il significato di una eventuale atomica iraniana?
L’eventuale atomica di Teheran varrebbe quanto quella coreana: un
minimo potere di deterrenza per scoraggiare altri verso avventure
belliche nei confronti dell’Iran. Per come l’Occidente ha trattato
l’Iran nel Novecento, qualche motivo per essere sospettosi l’hanno.
L’unico
paese che invece parla di un uso “tattico” delle armi nucleari sono
gli USA: non sarebbe possibile distruggere l’Iran come l’Iraq senza
le armi nucleari per molte ragioni: l’ampiezza del paese, il grande
numero di siti da colpire (molti in bunker sotterranei), le difese
antiaeree iraniane, la stessa aeronautica, gli attacchi alla navigazione
nel Golfo Persico, la determinazione alla difesa del proprio paese degli
iraniani, non divisi in più etnie come gli iracheni.
Non possiamo sorvolare sul fatto che l’unico paese a sostenere un uso
“tattico” delle armi nucleari è lo stesso che ne fece uso nel 1945
contro il Giappone: l’azione bellica più devastante e criminale mai
condotta contro delle popolazioni civili.
L’uso
“tattico” delle armi nucleari americane condurrebbe alla soluzione
del problema, ossia tutto finirebbe con la resa degli iraniani? Può
darsi, ma ci sono alcuni “se” e “ma” molto, ma veramente molto
sinistri.
Se gli iraniani hanno acquistato dapprima i missili coreani Nodong
e li hanno successivamente migliorati (Sharab
III e IV) è molto
improbabile che siano dotati di sole testate ad esplosivo: le testate
chimiche e batteriologiche sono armi relativamente più facili da
costruire o da ottenere.
L’Arabia Saudita ha recentemente ristrutturato il proprio arsenale
missilistico con materiale cinese, ed i nuovi missili sono stati
installati in bunker sotterranei, come quelli iraniani. Parecchi
analisti concordano sul fatto che i sauditi hanno armato i loro missili
con testate chimiche e batteriologiche: perché gli iraniani non
l’avrebbero fatto?
Invece
del possibile futuro scenario di un Iran armato di bombe atomiche, quale
sarebbe quello molto più realistico di una guerra nella quale gli USA
attaccassero l’Iran e gli iraniani rispondessero con le testate
chimiche e batteriologiche?
Supponiamo che all’uso d’armi nucleari cosiddette “tattiche” per
colpire i bunker iraniani, Teheran rispondesse con il lancio di missili
con testate chimiche e batteriologiche contro Israele.
Un’arma nucleare uccide con un’onda di calore di migliaia di gradi e
con la stessa onda d’urto generata dall’esplosione: a seconda della
potenza dell’ordigno, chi viene colpito è polverizzato in frazioni di
secondo, mentre chi si trova più lontano dall’esplosione viene
colpito dalle radiazioni e s’avvia verso una morte lenta dovuta alle
ustioni ed alle radiazioni stesse.
Un’arma
chimica rilascia dei gas che si espandono in pochi secondi nel raggio
d’alcuni chilometri: chi inspira anche una sola volta i gas si ritrova
con i polmoni bruciati all’istante dall’agente chimico, e muore nel
giro di qualche decina di minuti sputando letteralmente i polmoni in
terra. Ci sono poi gli aggressivi nervini, che paralizzano la
respirazione e le funzioni vitali provocando la morte per asfissia in
pochi minuti.
Le armi batteriologiche sono molto subdole ed ancor più terribili:
apparentemente non accade nulla, ma gli agenti patogeni modificati in
laboratorio sono insensibili a qualsiasi vaccino, giacché il paese
attaccato non sa quale ceppo di quale batterio verrà utilizzato
nell’attacco, mentre l’infezione è immediata.
La
morte è più lenta: giorni, a volte settimane. I sintomi sono febbri
altissime e degenerazioni degli apparati interni, fegato e reni in
particolare. Le maschere antigas servono a poco od a nulla, così come
le cure dei sanitari: le esercitazioni messe in atto in caso d’attacco
batteriologico sono soltanto degli sproloqui mediatici utilizzati per
rassicurare le popolazioni.
La virulenza dei batteri varia molto secondo l’agente utilizzato: per
mesi – in ogni modo – nessuno sarebbe al sicuro nelle aree colpite.
Anche l’evacuazione – trattandosi di migliaia o milioni di persone
infette – sarebbe difficoltosa e molti stati chiuderebbero
semplicemente le loro frontiere.
Dopo un simile attacco, Israele risponderebbe con il suo arsenale
atomico, uccidendo la quasi totalità della popolazione iraniana ed
irrorando l’Iran con una quantità di radiazioni che lo renderebbero
inabitabile per decenni.
Il
risultato finale sarebbero due lande desolate, l’una inquinata dai
residui degli agenti chimici e batteriologici, l’altra
dall’olocausto nucleare.
Per gli USA, ci sarebbe un solo risultato positivo: aver impedito
all’Iran di diventare una potenza regionale – giacché
l’estrazione petrolifera, per anni, sarebbe da dimenticare – mentre
Israele e l’Iran non raggiungerebbero nessun obiettivo, bensì
otterrebbero solo la loro completa distruzione.
Tutta la strategia d’alcuni personaggi americani ed israeliani per un
attacco all’Iran (giacché non tutti negli USA ed in Israele ne sono,
per fortuna, persuasi) poggia solo su quel “può darsi” che tutto ciò
non avvenga, ossia che gli iraniani si lascino bombardare con le armi
atomiche “tattiche” senza protestare, che non lancino missili con
testate chimiche o batteriologiche su Israele, sul fatto che Israele non
lanci le sue testate atomiche.
Un “può darsi” sul quale giocare il rischio di una guerra mondiale, un “può darsi” sottile come una lama di Damasco.
Carlo Bertani bertani137@libero.it www.carlobertani.it